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Ritorno a scuola a settembre

Si fa un gran parlare in questi giorni di come dovrà essere gestito il ritorno a scuola a settembre per il prossimo anno scolastico, dopo l’emergenza Covid-19. Le proposte fin qui avanzate dal ministro e dagli “esperti” che lo coadiuvano mi sembrano tutte improponibili o addirittura assurde: lasciando stare quella di separare i banchi con il plexiglas, che è un’autentica sciocchezza, anche le altre però non brillano per originalità e soprattutto per efficacia. Occupare spazi esterni agli edifici scolastici è possibile solo in minima percentuale, perché molti istituti sono ubicati in strutture vecchie, a volte non hanno neanche la palestra e non ci sono nelle vicinanze altri edifici disponibili. Fare i turni non elimina il problema degli assembramenti, perché comunque molti studenti si troverebbero ad entrare a scuola e ad uscirne negli stessi orari, ed inoltre c’è un’altra difficoltà ancora maggiore: nelle scuole di provincia, dove la maggior parte degli alunni è pendolare, gli orari dei trasporti sono fissi e non ci sono i fondi per istituire corse aggiuntive che ovviamente avrebbero un costo non indifferente; peraltro tutti dovrebbero sapere che l’Italia non è solo Milano, Torino, Roma e Napoli, ma esistono tanti piccoli centri che debbono essere serviti con ferrovie e autolinee, i cui orari non si possono spostare a piacimento. Distanziare semplicemente i banchi di due metri è una soluzione altrettanto fasulla, sia perché gli assembramenti si formerebbero comunque (v. la ricreazione, l’entrata e l’uscita ecc.) sia perché ci sono scuole che non avevano spazi sufficienti nemmeno prima dell’epidemia, figuriamoci dopo.
Altra proposta, avanzata in riferimento soprattutto alle scuole superiori, è quella di perpetuare la didattica a distanza, per cui le classi verrebbero divise a metà e gli studenti si alternerebbero andando fisicamente a scuola tre giorni alla settimana e seguendo negli altri tre le lezioni da casa. Ma i tanto deprecati assembramenti si formerebbero anche con la presenza di metà degli studenti di ogni classe, ed inoltre – e questa è la maggiore difficoltà – il lavoro a distanza non è paragonabile per partecipazione ed efficacia a quello svolto in presenza, ma costituisce solo un palliativo da utilizzare limitatamente alle situazioni di vera emergenza. Come si è visto da quel che accaduto in questi mesi (dai primi di marzo, quando sono state chiuse le scuole in tutta Italia, fino ad oggi) i professori hanno dovuto organizzarsi e lavorare molto di più di quanto facevano prima, con buona pace dei soliti ignoranti che li accusano di essere fannulloni, per ottenere risultati molto inferiori: se è vero infatti che una lezione di storia, di letteratura o di scienze teoriche si può tenere anche on line, non è la stessa cosa per gli esercizi, gli esempi, le letture dei testi, la cui effettiva validità didattica è controllabile solo con la presenza fisica del docente. E tanto più ciò vale per le verifiche: interrogazioni, elaborati e test effettuati on line non danno nessuna garanzia di avere la benché minima attendibilità, perché gli studenti a casa possono copiare ciò che vogliono o farsi suggerire liberamente da altre persone della famiglia, senza che i professori si accorgano di nulla. La promozione generalizzata di tutti gli alunni, che da molti è stata criticata, era invece l’unica conclusione possibile dell’anno scolastico, un anno in cui non era minimamente verificabile la reale preparazione degli studenti. Forse si potevano bocciare coloro che non hanno seguito le lezioni on line e se ne sono andati per i fatti loro, ma come dimostrarlo? Le scuse avrebbero potuto essere tante: “Avevo il computer guasto”, “La connessione non funzionava”, “Non ho la webcam” e altre amenità del genere, che sono banali ma che senza dubbio avrebbero fatto vincere alle famiglie qualunque ricorso.
Ed allora, constatato che la didattica a distanza è efficace solo molto parzialmente e non può sostituire quella in presenza, e considerato pure che gli studenti dovranno recuperare la mancata preparazione che ha riguardato in questi mesi anche i più bravi (figuriamoci gli altri!), non è pensabile poter replicare un anno scolastico come quello passato, se non vogliamo che le lacune diventino talmente estese da non potersi più colmare. Va bene che di ignoranza ce n’è già tanta, ma proprio per questo è necessario porvi un argine, finché si è in tempo. E allora cosa fare? La cosa più semplice e naturale, secondo me: tornare a scuola normalmente, come prima dell’epidemia, e dedicare almeno un mese al recupero dei contenuti non assimilati o approfonditi quest’anno. E perché faccio questa proposta, che può sembrare azzardata? Perché di fatto l’epidemia è finita, come ci dicono i dati giornalieri che – loro malgrado – quelli della Protezione civile sono costretti ad emettere. Illustri scienziati e virologi ci dicono che da noi ormai il virus non dà più gli effetti gravi di prima, oggi si ammalano pochissime persone e con una carica virale trascurabile, tanto è vero che dovunque le misure di sicurezza di fatto si stanno allentando, quando non sono già state eliminate del tutto. Ogni epidemia segue una parabola, prima ascendente e poi discendente, ed oggi siamo arrivati al termine della discesa, almeno qui in Italia; la circolazione del virus è ormai limitatissima e pressoché innocua, e quindi sussistono le condizioni per riprendere una vita normale, sia nella scuola che altrove. Continuare a diffondere la paura, paventare una “seconda ondata” senza nessuna prova, insistere con cautele ormai inutili è vero e proprio terrorismo psicologico, che qualcuno continua ad esercitare – a mio giudizio – per interessi personali che non voglio qui ripetere perché ne ho già parlato negli articoli precedenti. Quando il pericolo è reale son giuste le cautele e le misure di sicurezza; ma quando questo pericolo non c’è più è sciocco continuare a vivere nel terrore e a bloccare attività essenziali come la scuola, che altri paesi con governi più intelligenti del nostro hanno già provveduto a riaprire.

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Esami di Stato a tarallucci e vino

Più volte ho scritto su questo blog che gli esami di Stato dei licei e degli istituti di II° grado sono diventati molto spesso un’inutile farsa, che sarebbe meglio abolire definitivamente: ne guadagnerebbe l’erario pubblico, che risparmierebbe molti soldi, e gli studenti stessi, che avrebbero certamente con lo scrutinio finale una valutazione molto più obiettiva. E purtroppo si è costretti ad ammettere che se questi esami sono diventati quello che sono la responsabilità non è dei vari ministri che si sono succeduti al Governo, ma delle commissioni nominate per esaminare i candidati, cioè i presidenti ed i commissari, dirigenti o docenti dello stesso ordine di scuola.
Osservando da vicino il comportamento della maggior parte delle commissioni, notiamo subito che quasi tutte partono dal presupposto che non si deve bocciare nessuno, perché – a dire di molti – sarebbe inutile far ripetere ad uno studente l’ultimo anno. Certo, sarebbe stato meglio se gli asini fossero stati fermati prima di arrivare all’esame, ma si sa come vanno le cose: le scuole non bocciano praticamente più quasi nessuno, portano avanti cani e porci e poi, al momento di ammettere gli studenti all’esame, li ammettono tutti lasciando le patate bollenti nelle mani della commissione. E la commissione cosa deve fare a quel punto? I presidenti, anche di fronte a prove d’esame penose, quasi sempre insistono per far raggiungere all’asino di turno i 60 punti necessari per la promozione, sostanzialmente perché non vogliono fastidi ed hanno per lo più una maledetta paura di eventuali ricorsi, che li costringerebbero a tornare nella sede d’esame, riesaminare tutti gli incartamenti, dover ripetere alcune procedure ecc. ecc. Perciò è molto più conveniente promuovere tutti, così non si hanno fastidi e si può andare tranquillamente in vacanza.
Già questo presupposto, cioè che bisogna promuovere tutti, è sufficiente per trasformare l’esame in una ridicola commedia, ma non basta: la maggior parte dei commissari, interni ma anche esterni, fanno a gara per facilitare le prove fino all’inverosimile, non solo formulando quesiti semplici e domande altrettanto banali (quando non addirittura concordate in precedenza con gli alunni!), ma anche aiutandoli spudoratamente durante le prove scritte ed arrivando anche, in qualche caso, a svolgere il compito in loro vece. Questo comportamento ignobile è praticato anche dai membri esterni, ma più di frequente da quelli interni, perché si è ormai diffusa ovunque la falsa convinzione che la scuola giudicata migliore sul territorio sia quella che ha i voti più alti ed il maggior numero di successi scolastici, senza tener conto del fatto che dietro quei voti e quei successi può esserci il nulla assoluto. Avviene così che molti studenti, sorretti, facilitati ed aiutati in ogni modo, ottengano all’esame una valutazione finale largamente superiore a quello che sarebbe il loro merito reale. In tante situazioni si sprecano i 100/100 ed i voti altissimi senza che si sia mai veramente verificata la preparazione degli alunni, in modo da far fare bella figura alla scuola sul territorio; è noto infatti che attualmente, da quando esiste la cosiddetta “autonomia” scolastica e il concetto di scuola-azienda, ogni Istituto deve farsi pubblicità come la si fa alle automobili o ai detersivi, perché quel che conta non è la cultura e la validità didattica dell’insegnamento, ma solo la forma, l’immagine esterna. Perciò tanti docenti aiutano sfacciatamente gli studenti all’esame non tanto per spirito di altruismo, quanto per fare essi stessi bella figura, perché nell’immaginario comune se una scuola ha tanti voti alti significa che i professori che hanno preparato i ragazzi sono stati bravi… Quindi chi agisce così lo fa per prestigio personale, più che per il bene altrui. C’è poi da dire che quest’anno l’insipienza dei responsabili del Ministero che hanno scelto le prove d’esame ha dato una grossa mano all’illegalità diffusa: proponendo infatti esercizi impossibili per gli studenti di oggi, come la versione di greco di Aristotele assegnata al Liceo Classico, hanno di fatto autorizzato e invogliato i professori a fare la traduzione e poi passarla agli studenti, come è avvenuto in tanti luoghi. In questo modo l’esame si riduce ad una patetica farsa, che castiga le reali qualità e premia gli incapaci ed i fannulloni, che finiscono per ottenere gli stessi voti (o quasi) di coloro che si sono sempre impegnati seriamente. Questo è il risultato di una mentalità falsa e distorta che domina nella scuola italiana, dove la serietà degli studi e la giusta selezione sono ormai ricordi lontani e irrecuperabili. Ed è cosa meschina ed inutile accusare i politici, i ministri o chiunque altro di questa situazione: siamo noi docenti che ci comportiamo male, che agiamo in modo opportunista e spesso disonesto, convinti che tanto siamo nel paese del “se po’ fà” e che nessuno ci controlla.
Questi atteggiamenti così diffusi tra i docenti si traducono spesso anche in modi d’agire inopportuni e sconvenienti per quella che dovrebbe essere l’atmosfera di serietà in cui si dovrebbe svolgere l’esame. Ho visto più volte professori e presidenti di commissione che, durante i colloqui, se ne stanno tranquillamente a giocare con il cellulare e a mandare messaggini finché non tocca loro il turno di partecipare al colloquio, ed ancor più frequente è la continua presenza di scherzi, risate e battute di spirito all’indirizzo degli studenti, forse nell’intento di “sdrammatizzare” un evento che si ritiene drammatico per i ragazzi. Io credo che questi comportamenti da salotto, più che da esame, in realtà disorientino più di quanto aiutano, perché gli studenti, nonostante tutto, prendono l’esame come una cosa seria e non si trovano a loro agio in una commissione dove il clima sembra quello di una festa tra amici anziché quello di una prova che dovrebbe svolgersi in modo compassato e adatto alla circostanza. Non dico che i commissari dovrebbero mostrarsi arcigni o incutere timore, perché non sarebbe giusto; ma mi pare altrettanto sconveniente scherzare e far battute di spirito come se ci trovassimo ad uno spettacolo di cabaret. In ogni circostanza la scelta migliore è la via di mezzo, come già gli antichi ci hanno saggiamente insegnato; ma mi accorgo che seguire questo principio diventa sempre più difficile, in questa nostra società che ha ormai perduto i suoi valori più veri ed autentici.

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La versione di greco dell’esame di Stato 2018: insipienza o malafede?

In questo mio ultimo (speriamo) anno di insegnamento sono stato nominato Presidente di commissione in un Liceo delle Scienze Umane che è ubicato nello stesso edificio in cui si trova anche un Liceo Classico. Così stamane, durante una pausa dei lavori, ho avuto la curiosità di andare a vedere il testo di greco assegnato al Classico, e quando l’ho visto sono rimasto di sasso: si trattava di un brano di Aristotele, dall’Etica Nicomachea, non solo lungo, ma anche molto difficoltoso per la presenza di varie costruzioni e nessi sintattici inconsueti e del tutto diversi da quelli normalmente incontrati dagli studenti durante il lavoro curriculare del triennio liceale; c’erano verbi sottintesi, participi sostantivati senza articolo (proprio della lingua parlata o cancelleresca, non certo di quella letteraria), una citazione omerica di ardua comprensione con la presenza del duale (che gli studenti non incontrano mai nelle normali versioni), un genitivo assoluto facilmente confondibile con un altro di diversa funzione, una frase con quattro participi dello stesso verbo in diverse funzioni, e chi ne ha più ne metta.
Leggendo i commenti su Facebook ho visto che alcuni iscritti ai gruppi del settore hanno avuto il coraggio di affermare che questa prova era facile. Ma facile per chi? Forse per gli esperti della materia, i grecisti, i filologi, non certo per gli studenti, molti dei quali l’hanno trovata del tutto inaccessibile. E poi, detto tra noi, vorrei vedere quanti di questi professorini che si vantano tanto del loro sapere sarebbero in grado di tradurre così, all’impronta, un brano come questo! Per farcela occorre conoscere molto bene la lingua greca, i linguaggi particolari di essa ed anche gli stilemi propri di Aristotele, le cui opere spesso non erano destinate alla pubblicazione ma servivano come “manuali” all’interno della sua scuola filosofica; quindi, anche se l’argomentazione è rigorosa come sempre, la lingua non segue uno stile propriamente letterario ma è costellata di ellissi, significati specifici e non comuni, usi sintattici inconsueti, proprio come avverrebbe oggi se fossero pubblicati degli appunti personali che qualcuno ha preso in fretta senza avere il tempo di riguardarli e conferire loro una veste letteraria. E si pretende che gli studenti, che a fatica si orientano sulle solite versioni storico-narrative, abbiano gli strumenti per affrontare un brano come questo, pieno di particolarità ch’essi non hanno mai o quasi incontrato durante il loro percorso didattico?
E qui occorre cominciare a parlare dei funzionari del Ministero preposti alla scelta delle prove per l’esame di Stato. Costoro, a quanto pare, non sono mai entrati in una scuola dai tempi in cui erano studenti, non conoscono affatto la realtà attuale e agiscono senza alcun criterio logico. Chi non vede la contraddizione che c’è tra il pretendere, come fa il Ministero, che gli alunni facciano 200 ore di alternanza scuola-lavoro, che partecipino a progetti ed iniziative che portano via molto tempo scuola (si parla del 20% delle ore scolastiche in genere destinate ad altro che non è la normale lezione quotidiana), e l’assegnare all’esame di Stato una versione di greco di questa difficoltà? Allora, io credo, delle due l’una: o i Soloni del Ministero sono delle teste vuote che non capiscono niente di scuola e vivono in un mondo diverso da quello reale, oppure queste scelte vengono fatte a bella posta per danneggiare il Liceo Classico e distogliere le famiglie ed i futuri alunni dall’iscriversi a questa scuola. Sì, perché il Liceo Classico è capace di aprire la mente delle persone, farle ragionare con la propria testa, e questo dà fastidio a chi detiene una qualsiasi forma di potere: meglio quindi affossarlo assegnando prove inaccessibili in modo da dimostrarne la presunta inadeguatezza per la società attuale. Già la sola presenza del greco allontana molti dall’iscriversi per il timore che incute questa lingua misteriosa; se poi all’esame si provoca un fallimento totale proprio in questa materia, tale sentimento popolare non può che rinforzarsi.
La realtà nuda e cruda è che gli studenti di oggi, per una serie di ragioni che ho enunciato in altri post, non sono più predisposti a comprendere da soli i testi classici, a meno che non siano molto facili; la traduzione dal latino e ancor più dal greco, pertanto, è ormai diventata un esercizio per esperti filologi, non per ragazzi adolescenti che spesso arrivano al Liceo senza neanche conoscere le basi sintattiche della lingua italiana. Pretendere quindi che traducano come provetti grecisti brani come questo assegnato oggi è pura fantasia. E poi va anche detto che lo scopo dell’insegnamento delle lingue classiche ai licei non è quello di sfornare esperti latinisti o grecisti: per quello c’è l’università, i master, lo studio personale. Il valore delle lingue classiche per i liceali è quello di conoscere l’etimologia di tante parole italiane, di ragionare sui testi compiendo un lavoro di scelta e di analisi autonoma, di conoscere aspetti delle opere letterarie che senza la lettura in lingua originale non sarebbero accessibili (penso all’ordito retorico o agli altri elementi formali che per gli antichi avevano fondamentale importanza nella valutazione di ogni genere di scritti); ma questi obiettivi si possono ottenere anche leggendo i testi più complessi sotto la guida del docente e lasciando agli alunni il compito di tradurre brani più facili di tipo storico o narrativo, gli unici che possono affrontare con qualche speranza di successo. Va anche detto – e non è cosa secondaria – che lo sviluppo della tecnologia ha di fatto molto ridotto l’attività di approccio ai testi da parte degli studenti: ai nostri tempi, infatti, avevamo solo il vocabolario per tradurre e dovevamo farlo perché non potevamo presentarci a scuola senza aver svolto i compiti, adesso invece scaricano le traduzioni da internet, dai siti-canaglia che contengono già tradotti tutti i brani presenti nei versionari attualmente in commercio, e quindi non si esercitano quasi più. E’ triste dirlo in modo così crudo, ma questa è la realtà: perciò dico che è da incoscienti o da lestofanti in malafede, sapendo tutto ciò, proporre all’esame di Stato un brano come quello di oggi.
Aggiungo anche un’ultima considerazione su un argomento già discusso altre volte su questo blog. Io trovo del tutto fuori luogo continuare a fondare la seconda prova d’esame del Liceo Classico sulla sola traduzione, com’era ai tempi di Gentile nel 1923. E’ passato un secolo, la società è cambiata in modo straordinario e radicale ma al Ministero non se ne sono accorti, a quanto pare, perché pretendono dai ragazzi di oggi quello che si richiedeva ai loro bisnonni un secolo fa; anzi, alcune versioni assegnate quaranta o cinquant’anni fa erano più accessibili di quelle di adesso, ed è difficile quindi pensare che non ci sia dietro la malafede. Esistono tanti modi di approcciarsi al mondo classico: ci sono le conoscenze letterarie, artistiche, antropologiche, storiche ecc., ed è su tutte queste che dovrebbe fondarsi la seconda prova d’esame del Classico, non sulla sola capacità di traduzione. Come sostiene da tempo il prof. Bettini e molti altri me compreso, è l’ora di modificare questo residuato bellico della sola traduzione e inserire nella seconda prova anche esercizi su altre competenze, se non si vuole che il disastro totale che deriva dalle scelte ministeriali ricada sulla pelle degli studenti e di tutta la società. La scuola deve adeguarsi ai tempi, non continuare a pretendere in modo assurdo e antistorico ciò che i ragazzi di oggi non possono più dare. E poi chiediamoci questo: quando saranno passati quindici o vent’anni dall’esame di Stato, l’ex alunno del Liceo Classico ricorderà più facilmente il pensiero di Seneca, gli ideali espressi dalla tragedia greca, la stupenda bellezza della poesia virgiliana oppure le leggi degli accenti del greco e la consecutio temporum?

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Violenza a scuola: ricerca delle responsabilità

I recenti fatti di cronaca, corredati da disgustosi filmati come quello che abbiamo visto riferito ad un istituto di Lucca, ci inducono ad una serie di osservazioni circa i ripetuti episodi di violenza accaduti nella scuola a danno di alcuni insegnanti, insultati e persino picchiati da alunni delinquenti e da genitori irresponsabili. La pletora delle discussioni in televisione e sui giornali non aiuta molto a comprendere le radici del problema, anche perché tra le opinioni espresse continuano ancor oggi ad essere prevalenti quelle dei buonisti nostrani – dai pedagogisti, razza maledetta, ai preti – che addossano a tutti la colpa di quanto accade tranne che a coloro che sono i veri colpevoli, cioè questi teppisti che purtroppo continuano ancora ad esser presenti in gran numero e ad inquinare la scuola e la società. Il libertarismo eccessivo ha prodotto questi risultati, unito alla quasi certezza di rimanere impuniti: se infatti il Consiglio di Istituto di quella scuola ha confermato la bocciatura di tre di quei delinquenti (il Consiglio di Classe ne aveva chieste cinque), sicuramente poi i genitori faranno ricorso al TAR e otterranno la revoca del provvedimento. Non sarebbe certo né la prima né l’ultima volta che questo succede, a causa dell’esagerato garantismo che esiste in Italia, dove non è più lecito prendere alcun provvedimento disciplinare contro chicchessia senza la minaccia del ricorso e del conseguente ribaltamento della situazione.
Una volta accertate le precise responsabilità di quanto avvenuto, la soluzione sarebbe estremamente semplice: bocciatura ed espulsione da tutte le scuole d’Italia per gli studenti, denuncia penale e condanna ad alcuni anni di reclusione (senza condizionale né sconti di pena) per i genitori, senza alcuna facoltà di presentare appello né ricorso. In questo modo gli episodi di violenza finirebbero subito e definitivamente, ma nessuno da noi si assumerebbe l’incarico di procedere in questo senso, perché il buonismo, il “benaltrismo”, il garantismo ormai imperano in ogni campo della vita sociale, ed anch’io in altri post ho avuto occasione di ricordarlo. E’ inutile che qui mi ripeta: in questo post, infatti, non mi ripropongo di individuare la responsabilità di quanto avviene, che appartiene esclusivamente a chi mette in atto simili comportamenti, ma di ricercare le cause per le quali siamo arrivati alla situazione attuale, quella cioè per la quale i docenti non hanno più non dico il riconoscimento della loro professionalità (quello è finito da tempo) ma neanche la certezza della propria incolumità fisica.
So di ripetermi per l’ennesima volta, ma io sono certo che la “prima radice” di quanto avviene oggi in certe scuole sia da ricercare nel ’68 e nella distruzione del principio di autorità e di disciplina che c’era prima di quel movimento e delle sue farneticazioni: fu allora che nacque l’eccessiva familiarità tra professori e alunni (io ebbi al liceo un docente di matematica che ci obbligava a dargli del tu!), idiozie come il “sei politico” e le promozioni di massa, perché allora si usava dire che bocciare era “fascista”. Anche se sono passati 50 anni, il seme della rovina fu gettato allora e la mala pianta è cresciuta a dismisura nel corso dei decenni successivi, coadiuvata da leggi irresponsabili e provvedimenti ministeriali tutti a vantaggio degli studenti e a danno dei docenti. Si parte con i decreti delegati del ’74 che fecero entrare i genitori nella gestione della scuola, per proseguire con le leggi del ’77 che cambiarono i programmi ed inserirono progetti e attività diversi dalla normale attività curriculare, per arrivare al famigerato “Statuto delle studentesse e degli studenti” di Luigi Berlinguer (non a caso proveniente dalla parte politica che aveva fatto il ’68), con il quale la disciplina nella scuola veniva praticamente abolita, perché punire uno studente indisciplinato diventava di fatto complicato a causa di lacci e lacciuoli legali, oltre alla facoltà dei genitori di mettere bocca in tutte le decisioni prese a scuola e di poter fare ricorso contro ogni provvedimento. Neanche i governi di centro-destra hanno mai modificato alcunché, perché al buonismo sessantottino e delle teorie pedagogiche da esso derivato si unì la mentalità aziendalistica di chi non dava alcun rilievo alla disciplina e ragionava solo in base agli interessi di mercato, per cui quel che contava era soltanto l’immagine esterna di una scuola sul territorio e quel che di sconveniente vi accadeva doveva di fatto esser nascosto, proprio per evitare danni all’immagine stessa e subire magari un calo di iscrizioni: una scuola che boccia o che sanziona chi sbaglia non è appetibile, si sa, e si preferisce iscriversi altrove. Per questo motivo molti Dirigenti scolastici (non dico tutti, ovviamente) si sono subito adeguati a questo andazzo, e si sono preoccupati solo di curare l’immagine del proprio Istituto sul territorio, svalutando il lavoro didattico che non si vede all’esterno e dando invece impulso a progetti e attività visibili sul territorio. A questi dirigenti, ovviamente, conviene insabbiare tutto ciò che di sconveniente o di compromettente avviene nella loro scuola, ed evitare quindi di prendere provvedimenti sanzionatori contro chiunque, che con il buonismo attuale ovunque diffuso non gioverebbero certamente al loro buon nome.
In molti casi, in conseguenza di quanto detto, i docenti a scuola sono indifesi, perché c’è il rischio fondato che le loro note o richieste di provvedimenti verso gli studenti restino lettera morta e lascino ovunque il tempo che trovano. Eppure, nonostante ciò, io penso che una delle cause di quanto oggi avviene risalga anche ai docenti stessi, per due ragioni fondamentali. La prima è che siamo noi stessi, molto spesso, a colpevolizzarci quando accade qualcosa di spiacevole: ho sentito molti colleghi, in questi anni, dare la colpa a se stessi degli insuccessi formativi di alcuni loro allievi, senza pensare che il masochismo non ha mai portato nulla di buono a nessuno e di fatto, se lo studente non si impegna o non ha le capacità per seguire un certo corso di studi, non è abbassando la guardia o dando a se stessi la colpa che quello studente maturerà o avrà risultati migliori. La seconda ragione è che molti colleghi sono deboli caratterialmente e non riescono a farsi rispettare dagli alunni; ed in conseguenza di ciò, procedendo per gradi, si arriva da parte di certuni al dileggio ed alla mancanza di rispetto verso l’insegnante, che in certi casi può assumere anche dimensioni macroscopiche come ciò che è avvenuto a Lucca ed in altre località. L’autorevolezza (non l’autoritarismo) è un carattere essenziale che ogni docente dovrebbe possedere, e ciascuno di noi dovrebbe evitare di dare confidenza agli alunni, pretendere il rispetto dei ruoli e reagire con decisione ad ogni violazione del codice comportamentale. C’è chi riesce a farlo e chi no, come dimostra il fatto che gli stessi studenti, delle medesime classi, si comportano in maniera diversa a seconda del docente che hanno di fronte, ne rispettano alcuni e ne sbeffeggiano altri. Quindi sta anche a noi, soprattutto a noi, mettere le carte in tavola fin dal primo giorno di scuola e stabilire limite e compiti reciproci; altrimenti non possiamo lamentarci se nella massa viene fuori qualcuno che approfitta vigliaccamente della libertà concessagli per superare i limiti e scadere in comportamenti vergognosi. Se la legge non ci difende occorre che ci difendiamo da soli, finché è possibile, con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione, anche quelli coercitivi e “repressivi”, poco curando ciò che potrebbero dire studenti e genitori. Chi pecora si fa lupo la mangia, dice il proverbio: e finché ci saranno professori “pecore” ci saranno sempre anche studenti “lupi”, da tenere a bada anche col bastone, se necessario, prima che siano loro a darcelo in testa, e non solo metaforicamente.

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Strane “amicizie” tra docenti e studenti

Già più volte su questo blog ho avuto occasione di parlare dei rapporti tra docenti e studenti, esponendo un punto di vista che ai più sarà certamente sembrato antiquato e tipico di un modello di scuola che non esiste più: che cioè il rispetto dei ruoli deve essere sempre mantenuto, e che perciò il professore debba sempre tenere una certa distanza dai suoi allievi. Ciò non significa essere arcigno o eccessivamente severo, ché non gioverebbe a nulla; significa invece essere cordiale e affabile con gli studenti ma non dare mai loro troppa confidenza, perché da un atteggiamento troppo amichevole potrebbero derivare conseguenze funeste, come la mancanza di rispetto che prima o poi si verificherebbe da parte di alcuni studenti, oppure, peggio ancora, il sorgere di voci poco edificanti nei confronti del docente. E’ accaduto purtroppo che queste dicerie, più o meno fondate, siano sorte spesso, specie quando qualche professore ha incontrato i suoi alunni fuori di scuola, magari per andare in pizzeria insieme o per altro simile motivo. Per evitare tutto ciò io non ho mai concesso alcuna confidenza ed ho sempre avuto con i miei studenti un rapporto cordiale ma piuttosto distaccato e comunque limitato ad argomenti scolastici, senza indagare sulla loro vita privata e senza partecipare a cene o altre occasioni di incontro fuori dell’ambiente scolastico. Forse ho esagerato con questa rigida distinzione di ruoli, ma alcune notizie sentite in questi ultimi tempi sembrano invece confermare l’oculatezza delle scelte da me effettuate a questo riguardo.
Ho letto qualche giorno fa che, in sede di trattative sulla parte normativa del contratto di lavoro dei docenti che aspetta da tanto tempo di essere promulgato, è stato proposto il ricorso a sanzioni disciplinari per quei docenti che intrattengono con i loro studenti relazioni di amicizia su Facebook, che chattano con loro servendosi di Whatsapp o che comunque comunicano con loro mediante i social. Se la notizia è fondata, allora significa che a livello governativo ci si sta accorgendo che l’eccessiva familiarità tra professori e alunni è inopportuna e dannosa per la didattica e l’apprendimento, in quanto in tal modo il docente abbandona il suo ruolo di educatore e si abbassa a livello di “amico”, ricopre cioè un ruolo diverso da quello che dovrebbe avere ed al quale per legge è preposto. Ciò incide negativamente sul processo apprenditivo, perché lo studente concepirà come paritario e non gerarchico il suo rapporto con il professore, il quale perderà quell’autorevolezza che è necessaria affinché si formi nel giovane il senso del dovere e quindi dell’applicazione allo studio. Io personalmente sono da sempre stato convinto di ciò e per questo, pur essendo da tempo su Facebook, non mi sono mai sognato di proporre o accettare l’amicizia con qualcuno dei miei studenti; l’ho fatto, semmai, con gli ex studenti, quelli che da almeno tre anni hanno terminato gli studi liceali. Inoltre non uso whatsapp, né alcun programma di chat e non ritengo giusto neanche comunicare agli studenti il proprio numero di cellulare. Però anche qui non bisogna generalizzare, perché esistono anche eccezioni alla regola suesposta: ci sono professori, infatti, che in buona fede usano Facebook o altri social con gli studenti per motivi didattici, magari per inviare documenti, assegnare esercizi ecc. Perciò è difficile parlare di sanzioni per una pratica che è divenuta ormai così diffusa da non poter essere interpretata sempre in un unico senso, ed inoltre mi pare difficile anche sul piano legale prendere provvedimenti di questo tipo: se infatti l’uso dei social avviene fuori dell’orario scolastico, non so se un Dirigente o altra autorità abbia il potere di sanzionare dei liberi cittadini che compiono atti non vietati da nessuna legge. A mio parere anche qui, come in ogni circostanza, è il buon senso che dovrebbe prevalere: ogni docente, in altri termini, dovrebbe comprendere che non è opportuno dare troppa confidenza ai propri alunni, perché rischia di perdere la propria autorevolezza ed il rispetto altrui, e quindi di essere diseducativo. Se qualcuno non lo capisce e continua a fare l'”amicone” rischiando di rendersi ridicolo, peggio per lui: sarà l’esperienza a fargli capire il suo errore, molto più di sanzioni e punizioni che hanno poco senso.
Un’altra notizia ha scosso in questi giorni l’opinione pubblica, quella di due docenti uomini accusati di molestie sessuali nei confronti di alcune loro alunne. Si tratta di un fatto gravissimo, che distrugge per intero la reputazione del professore e della scuola in cui presta servizio. Nei casi ricordati la notizia era purtroppo vera, come gli stessi interessati hanno ammesso, e quindi saranno loro a subire le conseguenze delle loro azioni. In altri casi, però, l’accusa di molestie si è rivelata completamente infondata, ma la sola esistenza di dicerie al riguardo ha potuto danneggiare gravemente la buona fama di alcuni docenti, a volte persino puniti per accuse del tutto false e ridicole. Qualche anno fa ho saputo di un professore sospeso da un dirigente perché alcune ragazze lo avevano accusato di guardare loro il seno durante le interrogazioni. Ora io mi chiedo, intanto, se quelle ragazze si fossero vestite in modo conveniente o meno e poi, in secondo luogo, dove avrebbe dovuto volgere lo sguardo quel poveretto mentre le interrogava. Avrebbe forse dovuto mettersi una mano davanti agli occhi in modo da vedere solo il viso delle alunne senza che lo sguardo scendesse più in basso? Oppure avrebbe dovuto interrogarle guardando il muro o fuori della finestra? L’accusa, in quel caso, era grottesca e ridicola, eppure portò a una sanzione. Ma anche senza arrivare a tanto, ho spesso constatato che diversi docenti uomini si sono portati dietro dicerie e voci su un loro eventuale “interesse”, diciamo così, per delle studentesse, voci che si sono rivelate totalmente infondate ma che hanno comunque danneggiato l’immagine di una persona innocente ed in buona fede. E’ questa una situazione a cui noi insegnanti di sesso maschile dobbiamo stare molto attenti, per non dar adito a chiacchiere e maldicenze che prendono campo subito e si ingigantiscono in brevissimo tempo. Anche questa è stata una ragione per la quale, nella mia lunga carriera, ho sempre tenuto a debita distanza gli studenti e soprattutto le studentesse, perché io alla mia reputazione ci tengo quasi quanto ci tenevano gli eroi omerici, che preferivano perdere la vita anziché la loro buona fama. Le notizie di cronaca recente mi hanno dato ragione e confermano che la mia scelta è stata opportuna, perché il buon nome di una persona assomiglia a un edificio di grandi dimensioni: per costruirlo ci vogliono anni, per distruggerlo basta una scossa di terremoto di pochi secondi.

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Le tre “perle” del ministro Fedeli

Non mi è mai capitato, finora, di esprimere giudizi sull’attuale ministro dell’istruzione, la senatrice Valeria Fedeli. Ho letto su di lei commenti negativi soprattutto dal punto di vista personale, dato che in molti le hanno rinfacciato il fatto di non essere laureata: ed anche a me pare strano che un ministro dell’istruzione e dell’università manchi di questo titolo, ma lo ritengo comunque il male minore, considerato che le decisioni prese in ambito scuola dipendono anche da altri Ministeri (vedi quello dell’Economia soprattutto) ed anche perché, se ci fosse il buon senso e la volontà di far bene, forse lo si potrebbe fare anche senza laurea. Ultimamente però le esternazioni del ministro (io continuo ad usare il termine al maschile, l’unico corretto secondo la lingua italiana, anche perché “ministra” fa pensare alla minestra) sono state numerose ed anche inopportune: ne citerò una sola, quando cioè ha detto che gli insegnanti dovrebbero avere uno stipendio doppio di quello che hanno. A nulla servono le buone parole se non c’è la possibilità di realizzare quanto si dice; dire una cosa simile e poi non farne di nulla lascia a noi docenti la sottile sensazione di essere presi in giro, sensazione che del resto abbiamo provato tante altre volte in questi ultimi anni. Da noi si pretende sempre di più e ci si concede sempre di meno, almeno dal lato economico. Ma lasciamo perdere questo problema, perché non è questo l’argomento che mi prometto di trattare in questo post, dedicato invece a tre proposte sulla scuola superiore che mi sembrano allucinanti. Forse la loro paternità risale a funzionari o pedagogisti della peggiore specie che vogliono mettere le mani sull’istruzione senza intendersene né punto né poco; sta di fatto però che il ministro le ha approvate ed anche lanciate attraverso la stampa ed i social.
La prima è la famigerata idea di ridurre la scuola secondaria superiore a quattro anni in luogo degli attuali cinque. A me una proposta del genere pare un’idiozia vera e propria: se i docenti universitari si lamentano della preparazione dei nostri studenti in italiano, matematica, lingue straniere ecc., preparazione che deriva da un percorso di studi di cinque anni, come può una mente sana pensare che in quattro anni si potrebbe fare di meglio? Io me lo chiedo, perché trovo la cosa talmente assurda da non dover neanche essere presa in considerazione. Per fare un paragone, una decisione in tal senso sarebbe simile a quella di chi pretendesse di costringere un treno che accumula sempre ritardo non solo ad annullarlo, ma ad arrivare a destinazione un’ora prima; oppure quella di chedere all’autore di un libro scientifico, che a fatica riesce a trasmettere il suo contenuto in trecento pagine, di contenere le stesse cose in duecento. Chiaramente tutto peggiorerebbe vistosamente: se non bastano cinque anni per formare bene i nostri giovani, come si può pensare di ottenere risultati migliori togliendo un anno? Caso mai ne andrebbe aggiunto uno, non tolto. E poi un provvedimento del genere non avrebbe alcun vantaggio pratico. A cosa servirebbe uscire da scuola un anno prima? Sarebbe utile se non esistesse il problema della disoccupazione e tutti i giovani, dopo il diploma o la laurea, trovassero immediatamente lavoro; ma siccome così non è, l’unico risultato che si otterrebbe è quello di aumentare la disoccupazione già intollerabile oggi con il percorso quinquennale. Mi si viene a dire che in altri paesi d’Europa il diploma si prende a 18 anni; ma, a parte il fatto che sono molti e forse di più quelli dove si prende a 19, perché dobbiamo sempre scimmiottare gli stranieri? Consideriamo poi che il livello culturale dei diplomati francesi, inglesi, tedeschi o altri è molto inferiore a quello dei nostri studenti; all’estero si specializzano in due o tre materie e non sanno nulla delle altre, e si diplomano per lo più con i test a crocette, un metodo nozionistico che non evidenzia nessuna qualità apprenditiva ed espositiva degli studenti. Il ministro ed i suoi funzionari dicano piuttosto la verità: che cioè l’eliminazione di un anno di studi servirebbe allo Stato per risparmiare soldi (si perderebbero circa il 20% delle cattedre) e per fare dei giovani dei perfetti soldatini che non sanno ragionare con la propria testa e sono proni, come tanti piccoli computer, ad obbedire ai diktat dei grandi poteri economici e del “politically correct”.
La seconda proposta, legata alla prima, è quella di portare l’obbligo scolastico a 18 anni, anche qui scimmiottando altri paesi europei. Se realizzata, questa sarebbe una rovina totale delle nostre scuole, sempre più infestate da persone che vengono a scaldare il banco e non hanno alcun interesse per lo studio né per altro che non sia giocare con il telefonino e disturbare le lezioni impedendo anche ai volenterosi di apprendere. Perché, dico io, costringere chi non è portato allo studio, chi non ha interesse per la cultura, a stare a scuola per forza? E’ una violenza vera e propria ed un inutile tormento per chi starebbe meglio in un’officina o nei campi, dove il suo apporto al bene pubblico sarebbe certamente maggiore. Dove è scritto che tutti debbono diplomarsi e laurearsi? Ci sono persone molto intelligenti e sensibili, magari capaci di svolgere bene un qualunque lavoro artigianale o commerciale, che però non hanno alcun desiderio di studiare né alcun interesse. Prché obbligarli? In vista di quale vantaggio? Io, per parte mia, limiterei l’obbligo alla terza media, com’era molti anni fa; ottenuta la licenza media, poi, ciascuno dovrebbe poter scegliere liberamente se proseguire negli studi (ed in tal caso andrebbe incoraggiato ed aiutato, come prescrive la nostra Costituzione) oppure se entrare immediatemente nel mondo del lavoro. Ad un paese non servono solo medici, ingegneri e avvocati, ma anche operai, artigiani, idraulici ecc.
La terza proposta, la più sconvolgente e demenziale di sempre, è quella di permettere agli studenti l’uso degli smartphone in classe, un’idiozia che non si potrebbe trovare neanche nei film di Stanlio e Ollio, se i cellulari fossero esistiti ai loro tempi. A parte il fatto che la fiducia ministeriale negli strumenti digitali è assurda ed eccessiva in ogni caso, perché smartphone, tablet, lim ecc. sono solo mezzi accessori, non possono sostituire il cervello umano: se uno studente è incapace e svogliato, tale rimane anche con questi aggeggi elettronici, non diventa certo un genio grazie ad essi. La cosa più evidente, comunque, e che tutti sanno né alcuno può negare, è che permettere agli studenti di usare lo smartphone in classe significa perdere completamente la loro attenzione (già scarsa prima) e la loro partecipazione alle lezioni, perché, mentre farebbero finta di seguire la lezione con lo strumento elettronico, in realtà si trastullerebbero, come fanno purtroppo già adesso nelle ore libere dalla scuola, girovagando su whatsapp su facebook, su twitter, ask e altre amenità del genere. Veramente il ministro ed i suoi collaboratori credono che i nostri ragazzi, nativi digitali e capaci di perdere quasi tutto il loro tempo in questi trastulli, ad un tratto diventerebbero tutti seri e diligenti ed userebbero il telefonino per andare sui siti didattici? Chi pensa una cosa simile o è sciocco del tutto o è comunque ingenuo, e probabilmente non ha mai messo piede in una scuola. La realtà è ben diversa: l’uso degli smartphone da parte degli studenti è una vera e propria catastrofe anche quando non lo usano nelle ore scolastiche, perché perdono sui social molto tempo che viene sottratto allo studio ed anche perché copiano sistematicamente la traduzione delle versioni di latino e di greco (e questo è un punto dolente di cui dovrebbe occuuparsi chi di dovere). Permettere loro di usarlo anche durante le lezioni significa distruggere quel poco di autentico e non virtuale che ancora c’è rimasto nella vita dei giovani, annullare tutti i nostri sforzi per far ragionare i ragazzi autonomamente e per distrarli, almeno un po’, da questo mondo falso in cui spesso vivono. Perciò io dico fin da ora che, per quanto mi rimane da stare a scuola, non obbedirò mai ad una decisione del genere, e nelle mie ore lo smartphone continuerà ad essere assolutamente proibito. Se avrò problemi per questo, li affronterò come ho fatto sempre nella mia vita, perché ritengo che l’obbedienza non sia sempre una virtù, specie quando gli ordini sono idioti e pericolosi.

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Scrutini oltre i limiti della decenza

Questa vignetta mette bene in evidenza la modalità farsesca con cui si svolgono gli scrutini finali nelle classi del triennio conclusivo della nostra Scuola Media Superiore (o di secondo grado); e benché sia un po’ esagerata, così come sono tutte le vignette satiriche, essa dice in sostanza la verità. Parlare di scrutini oggi significa riferirsi a riunioni allucinanti in cui viene totalmente falsata la verità circa il reale valore culturale e la reale preparazione degli studenti, le cui valutazioni conclusive sono alterate pesantemente per far risaltare la presunta qualità della scuola di provenienza, dato che ormai si è diffusa la mentalità secondo cui più i voti sono alti e più qualificata è la scuola che li ha espressi. Io la penso esattamente al contrario, ma debbo constatare che la verità è quella raccontata dalla vignetta; e nel dire ciò non mi riferisco assolutamente a nessuna scuola in particolare, perché, tranne forse alcune lodevoli eccezioni che non conosco, dappertutto lo scrutinio finale è diventato ormai uno squallido gioco al rialzo dove tutto conta tranne l’immagine reale di ciascun studente.
Bisogna dire che la causa di questo “mercato delle vacche” che sono diventati gli scrutini finali, dove i docenti fanno a gara ad aumentare voti a dismisura e ad allontanarsi dalla verità e dalla giustizia, non risiede tanto nel buonismo naturale che pur molti ancora nutrono, né nelle farneticazioni sessantottine in cui purtroppo alcuni ancora credono, quanto nella sciagurata riforma degli esami di Stato del 1999, che ha inserito il cosiddetto “sistema dei crediti”. In base ad essa ogni studente, a partire dalla terza classe (cioè il primo anno del triennio conclusivo) riceve un numero di crediti corrispondente alla media dei suoi voti; ognuno quindi rientra in una fascia ristretta (ad es. la media dei voti compresa tra 7 e 8 dà 5 o 6 crediti nei primi due anni), entro la quale il Consiglio di Classe deve scegliere il punteggio da assegnare. In quasi tutti i casi, ormai, viene attribuito il punteggio più alto della fascia (in certe scuole basta avere 7,2 per prendere 6 crediti), ma a molti dirigenti e docenti ciò non basta: è necessario far raggiungere allo studente la fascia superiore, per potergli aumentare il punteggio del credito. Avviene così che a chi ha una media superiore alla metà della fascia (supponiamo 7,7) vengono arbitrariamente e senza alcun merito aumentati alcuni voti per poter raggiungere la fascia successiva, quella tra l’8 e il 9, che dà diritto a un punteggio tra 6 e 7, per cui gli vengono attribuiti 7 punti. Cosa comporta questo sistema? Due gravi ingiustizie. La prima è quella di falsare la realtà, perché se un ragazzo aveva la media del 7,7 vuol dire che era già presentato bene dai docenti, che sicuramente non gli avevano attribuito voti inferiori a quelli che meritava, perché nessuno vuole penalizzare gratuitamente gli studenti; aumentandogli i voti dunque gli vengono attribuite conoscenze e competenze che non possiede, e questo non può che essere iniquo e diseducativo. La seconda ingiustizia è quella di mettere alla pari (o quasi) studenti molto diversi per impegno e capacità; e ciò avviene regolarmente, perché l’alunno che aveva 7,7 di media e a cui sono stati aumentati i voti per raggiungere e superare la media dell’8 si trova ad avere lo stesso credito di chi già aveva raggiunto quella media con le sue forze, ed al quale i voti non vengono aumentati perché non si trova nella parte più alta della propria fascia. In pratica chi aveva 7,7 riceve lo stesso credito di chi aveva 8,2, al quale non viene regalato nulla perché formalmente “non ne ha bisogno”. Il risultato finale è che vengono aumentati i voti in modo scandaloso agli studenti più modesti, mentre le eccellenze, proprio perché raggiungono già da sé il massimo della valutazione, restano con i loro crediti; così la differenza finale del credito tra gli alunni eccellenti e quelli scadenti si riduce a poco, certamente molto meno di quella che sarebbe la realtà. Ed anche questo è profondamente diseducativo, perché chi s’impegna e studia con serietà e dedizione si vede messo alla pari, o quasi, con compagni e compagne che hanno avuto per cinque anni un andamento didattico molto inferiore al suo.
Questo scempio della giustizia e della serietà della valutazione, oltretutto, è incentivato anche da un’altra assurdità introdotta dall’ex ministro Gelmini, quella cioè secondo cui il voto di condotta (che adesso si chiama di comportamento) entra direttamente nella media finale dello studente. Avviene così sempre più di frequente che questo voto diventi il “jolly” dello scrutinio, nel senso che può essere aumentato a dismisura per raggiungere medie e fasce più alte. Tanto chi controlla? La commissione esterna, mentre può verificare la preparazione sulle discipline curiculari e quindi mettere in evidenza (almeno parzialmente) i voti “gonfiati”, non può accertare nulla riguardo a un 10 in comportamento, una volta che i membri interni avranno rassicurato i colleghi circa l’estrema correttezza, serietà, partecipazione attiva ecc. ecc. dello studente in questione. A mio giudizio, espresso anche altre volte su questo blog, valutare il comportamento come le discipline curriculari e farlo rientrare nella media dei voti è una vera e propria idiozia, perché il rendimento scolastico di un alunno è del tutto indipendente da come egli si comporta durante le ore di lezione e le altre occasioni di vita scolastica (le gite, ad esempio), ed inoltre ogni scuola adotta criteri diversi per la valutazione della condotta, ed è quindi un elemento, questo, estremamente variabile e da giudicare separatamente dagli altri voti.
Ogni anno, purtroppo, molti di noi si ritrovano con l’amaro in bocca, dopo aver partecipato a riunioni di scrutinio che aumentano il livello di stress fino alle stelle. In considerazione della mia età, quel che posso dire è che oggi la scuola è un qualcosa di profondamente diverso da quella in cui ho sempre creduto fin da quando, giovanissimo, decisi con tanto entusiasmo di dedicarmi a questo mestiere. Oggi, al termine della carriera, di quel “sacro furore” iniziale non è rimasto nulla, e la sensazione che provano quelli come me è di aver subìto un inganno, di trovarsi in una realtà alla quale mai avevano pensato e nella quale mai avrebbero immaginato di vivere.

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Consigli ai prof: come evitare le copiature

Ritorno qui su un argomento di cui ho più volte parlato negli anni passati, ma che a quanto pare è attualissimo ancor oggi, ossia le copiature che gli studenti compiono durante i compiti in classe e gli esami. Il fenomeno, di cui il Ministero dell’istruzione è già stato messo al corrente da anni senza che abbia emanato in proposito alcun provvedimento, è tuttora di gran moda: dai colloqui che ho con colleghi di altre scuole e dalle testimonianze degli stessi studenti ho appreso che in molti Licei ormai far svolgere il compito in classe è diventato una pura e inutile formalità, perché gli alunni, avvalendosi della moderna tecnologia (che io proprio per questo non finirò mai di maledire) si collegano per copiare, di nascosto ai professori, con siti internet gestiti da lestofanti che mettono a disposizione versioni di latino e greco tradotte ed anche altri sussidi come riassunti di italiano, temi svolti, compendi di storia, filosofia e via dicendo. In tal modo l’attività didattica viene vanificata, il giudizio sugli studenti completamente falsato ed il messaggio morale che vien fuori da tal fenomeno risulta essere quello secondo cui nella vita non c’è bisogno di impegnarsi seriamente per far valere le proprie qualità, ma basta farsi furbi e ingannare il prossimo.
I metodi di copiatura tradizionali non sono stati del tutto abbandonati dai nostri bravi studenti. Essi sono svariati, ma volendo riassumere si possono ridurre sommariamente a tre: 1) parlare sottovoce tra uno studente e il compagno vicino, sperando che il professore non senta; 2) mettere il foglio del compito in bella vista, e scritto a grandi caratteri, in modo che il compagno che sta dietro possa sbirciare; 3) passarsi il classico foglietto che, a quanto ho sentito di recente, può essere anche sostituito dalle bottigliette di acqua minerale, in cui il testo della versione o dell’esercizio di matematica viene scritto sul retro dell’etichetta e passato tra più studenti.
Ma questi metodi, pur ancora in uso, sono considerati arcaici per i nativi digitali di oggi, che con i loro smartphone trovano subito, collegandosi a internet, ciò che cercano. Per i docenti è vietato ovviamente perquisire gli studenti, che quindi possono benissimo fare il giochetto di consegnare un cellulare, alla richiesta del professore, e tenerne addosso un altro ben nascosto. Durante la prova è molto difficile per il docente sorprendere l’alunno mentre copia, perché i cellulari moderni, piccoli e situati talvolta persino negli orologi, sono quasi impossibili da individuare, in quanto possono essere nascosti dovunque, anche tra le pagine stesse del vocabolario di latino. Esistono, è vero, apparecchiature che sono in grado di impedire agli smartphone di collegarsi ad internet, i cosiddetti “disturbatori di frequenze”, ma il loro uso è illegale, almeno per adesso, e potrebbero essere consentiti solo da una specifica autorizzazione ministeriale.
Cosa resta da fare quindi ai poveri docenti che nutrono ancora, all’interno del loro animo miserevolmente illuso, la speranza di far trionfare la legalità e la giustizia in una società dove non solo nella scuola, ma anche in altri ambienti ben più elevati regnano i principi opposti a quelli suddetti? E come può il docente difendere la propria dignità personale, visto che le copiature non sono soltanto un’irregolarità in sé ma anche una grave offesa al prestigio dell’insegnante, il quale finisce per fare la figura del babbeo che non si accorge di coloro che gliela fanno sotto il naso? Purtroppo non ci sono molte armi difensive contro questo malcostume, perché neanche una versione palesemente copiata può essere sanzionata con un voto negativo, in quanto lo studente può sostenere di averla fatta da solo, o di ricordarsela dal pomeriggio precedente, ed in caso di ricorso la sua vittoria sarebbe pressoché certa. Occorrerebbe sorprendere l’alunno mentre copia, ma un docente che per due o tre ore deve sorvegliare una classe magari di 30 alunni contemporaneamente, dovrebbe avere il dono dell’ubiquità oppure facoltà paranormali o divinatorie per riuscire nell’impresa. Ecco quindi quel che si può fare per limitare il fenomeno, e lo dico riferendomi esclusivamente alle mie discipline, cioè il latino e il greco.
1 – Non fotocopiare mai un brano da un libro di versioni comunemente in commercio. I furfanti che detengono questi siti-canaglia dove sono i testi tradotti elencano le versioni proprio sulla base del numero e del titolo che hanno nei libri di provenienza. Per lo studente basta citare uno di questi due dati e il gioco è fatto.
2 – I testi vanno presi da internet (per il latino c’è un sito che contiene quasi tutti gli autori, all’url: http://thelatinlibrary.com, per il greco c’è il progetto “Perseus” americano) e trasferiti in un file word con l’apposizione di un titolo completamente inventato dal docente e in ogni caso diverso da quello normalmente in uso nei versionari.
3 – Gli studenti trovano le traduzioni anche digitando le prime parole della versione in latino (e chi ci riesce, anche in greco). Occorre quindi che il docente cambi la costruzione delle frasi, magari aggiungendo costrutti e termini che non sono nell’originale, in modo da rendere non identificabile il testo e impedire il suo reperimento.
4 – In alternativa, si possono cercare brani di autori tardoantichi o medievali le cui opere non sono state ancora tradotte o comunque non sono reperibili nei siti-canaglia (tipo Anselmo d’Aosta, Gregorio Magno, Paolo Orosio, Cassiodoro e simili).
5 – Far comunque consegnare i cellulari, avvertendo gli studenti che alla vista di uno di essi il compito verrà annullato o classificato con il voto minimo, cioè 1/10. Ciò può avere un effetto deterrente, nel senso che l’alunno avrà comunque reticenza a compiere un atto che sa essere punito in maniera così pesante, perché non può essere sicuro al cento per cento di non essere “beccato”. Molti non amano rischiare, ed in tal caso l’avvertimento può essere efficace.
Ovviamente, poi, ognuno si regola come vuole, e questi miei sono solo consigli per cercare di arginare un fenomeno vergognoso che sta inquinando i risultati scolastici nelle prove scritte ordinarie e anche in quelle degli esami. Naturalmente, per ottenere un qualche risultato, è necessario che il professore voglia effettivamente impedire agli studenti di copiare; se invece, come avviene in certi casi, il docente lascia correre, o peggio aiuta egli stesso i ragazzi a copiare o passa loro la versione d’esame – come purtroppo succede alquanto di frequente – questi miei consigli sono aria fritta. Pazienza, io parlo per chi vuole ascoltare e per chi ha un po’ di coscienza e di professionalità. Degli altri non mi curo.

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Quid de novo examine censeam

Perdonatemi il titolo in latino, una deformazione professionale che deriva anche dalla necessità di variare un po’ l’intestazione di questi messaggi, che rischiano di assomigliarsi troppo tra di loro; in quanto all’esame di Stato poi, visti i numerosi progetti di cambiamento giunti dall’alto ed i vari articoli che vi ho dedicato, c’era davvero l’eventualità di ripetere un titolo già usato. Comunque niente paura: il senso della frase è “cosa io pensi del nuovo esame”, con sottinteso un verbo reggente come “mi chiedi”, “vuoi sapere” o qualcosa di simile.
Procedendo all’emanazione dei decreti attuativi della legge 107, il Governo ha inviato alle Commissioni parlamentari il regolamento circa le modifiche che saranno apportate, dal 2018, all’attuale esame di Stato della scuola secondaria superiore (un tempo detto “di maturità”). Tali norme si rendono opportune sia come verifica dei nuovi programmi introdotti con la riforma Gelmini, sia per la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, che proprio l’anno prossimo giungerà a regime nel triennio dei vari licei e istituti tecnici e professionali. Su quest’ultimo aspetto della legge ho già detto tutto il male possibile, perché trovo assurdo che nei licei, scuole che tendono ad una formazione culturale teorica ed all’astrazione, si costringano i ragazzi a fare esperienze lavorative del tutto avulse dal loro corso di studi e che oltretutto, nella fattispecie quotidiana, creano grosse difficoltà ai docenti per lo svolgimento dei loro programmi: 200 ore in tre anni, in effetti, sono molte, e non è pensabile che possano essere effettuate tutte d’estate o fuori dall’orario scolastico. In ogni caso, a me hanno insegnato che quando una legge prescrive qualcosa è giocoforza obbedire, anche se si è contrari; quindi lascio perdere questo argomento ed entro nella sostanza del nuovo regolamento d’esame.
Come si svolgerà dunque la nuova “maturità”? Ci saranno due prove scritte anziché tre, con l’eliminazione della cosiddetta “terza prova”, ed un colloquio orale. A ciascuna di queste tre prove sarà assegnato un punteggio massimo di 20 punti, in modo da arrivare a 60; gli altri 40 punti che concorreranno al voto finale (espresso sempre in centesimi) saranno riservati al credito scolastico, cioè al punteggio che la scuola di provenienza attribuirà agli alunni sulla media dei voti degli ultimi tre anni di corso. Sembra che dal nuovo esame sparisca la cosiddetta “tesina”, cioè l’argomento personale, spesso coinvolgente più materie, che lo studente doveva preparare e con il quale si apriva il colloquio d’esame. Al suo posto i candidati dovranno svolgere, prima dell’esame, un test inviato dal Ministero (prova INVALSI) su tre discipline comuni a tutte le scuole (italiano, matematica e inglese), che dovrebbe concorrere alla determinazione del credito scolastico; durante il colloquio d’esame gli studenti, invece della tesina, dovranno presentare una relazione sulle esperienze lavorative svolte nel triennio, cioè sulla famigerata alternanza scuola-lavoro.
A parte quest’ultimo punto, sul quale resto fermamente contrario, per il resto i parametri valutativi del nuovo esame mi trovano abbastanza favorevole; ed è raro che ciò avvenga, dato che io sono facilmente portato alla critica destruens, come sa chi mi conosce. In particolare mi sembra positiva l’eliminazione di due componenti dell’attuale esame di dubbia utilità: la terza prova scritta, spesso consistente in un quiz scombinato su varie discipline in cui lo studente faceva fatica a raccapezzarsi e che sempre più assumeva i caratteri del nozionismo, e la cosiddetta “tesina”, che in molte occasioni risultava o scarsamente efficace e poco originale oppure, ancor peggio, copiata letteralmente o scaricata da internet. Togliendo questi due pesi il nuovo esame sarà più snello e razionale, sia per gli studenti che per i docenti. Altrettanto encomiabile, a mio giudizio, è l’elevazione dei punti destinati al credito scolastico, dagli attuale 25 a 40: questa operazione mi pare indispensabile, perché con la normativa attuale è molto frequente il caso in cui il candidato abbia all’esame risultati diversi da quelli che faceva registrare durante l’anno scolastico e ben noti ai suoi professori. Accadeva molto spesso, in altre parole, che lo studente bravo e diligente, presentato con un credito alto ma comunque limitato all’ambito del 25% del totale, si lasciasse prendere dall’emozione e rendesse all’esame meno del compagno svogliato e poco brillante che però, per un caso fortunato, si fosse sentito rivolgere domande proprio sui pochi argomenti di sua conoscenza. Con un peso così limitato del giudizio espresso dalla scuola, quindi, accadeva spesso che i risultati finali non fossero affatto corrispondenti alla scala dei valori effettivamente espressa dai Consigli di Classe, anche perché la commissione esaminatrice, formata in maggioranza da membri esterni, non conosceva gli alunni e si basava quindi quasi esclusivamente sul risultato delle prove d’esame. Certo, neppure così si avrà il rispetto dei valori effettivi, perché il punteggio del credito dovrebbe arrivare, a mio giudizio, almeno al 50% del totale; ma la situazione sarà certamente migliore di quella precedente e ci saranno meno malumori e proteste, da parte di studenti e genitori, di fronte ai tabelloni dei risultati conclusivi.
Giudizio positivo, quindi. Ma sull’esame di Stato ci sarebbe ancora molto da dire, soprattutto sul fatto che il suo svolgimento dovrebbe ritrovare quella regolarità e quella obiettività di giudizio che il senso civico di ciascuno di noi dovrebbe auspicare e cercare di realizzare. Finché ci saranno professori che, per mettersi in bella mostra e far fare bella figura a se stessi ed alla propria scuola, aiuteranno gli studenti in modo vergognoso, spesso comunicando loro in anticipo le domande che rivolgeranno o “passando” addirittura la traduzione di latino e gli esercizi di matematica della seconda prova, non andremo mai da nessuna parte. Inutile dare la colpa ai politici dello sfascio della scuola, inutile pretendere dagli altri correttezza ed onestà quando siamo noi (cioè alcuni di noi) a non rispettare quei principi fondamentali di convivenza democratica che pure dovremmo trasmettere ai nostri studenti. La legalità non è mai sbagliata, lo è invece la disonestà e la furberia di chi crede di poter impunemente calpestare leggi e istituzioni. Riflettiamoci con attenzione, e pensiamo anche al nostro ruolo di educatori; se siamo noi per primi a far passare ai ragazzi il messaggio per cui bisogna farsi furbi e trovare scorciatoie per realizzare i propri fini, non formeremo mai cittadini onesti e responsabili. Io credo che la cultura sia anche questo, anzi che sia soprattutto questa la funzione principale di ogni sistema educativo.

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Ansie e incertezze di inizio anno scolastico

Il nuovo anno scolastico è già iniziato per quanto riguarda le riunioni preparatorie dei docenti, e tra pochi giorni cominceranno anche le lezioni. Sul blog torno a parlare dell’argomento che più mi interessa, cioè la scuola, alla quale ho dedicato praticamente tutta la vita; sono però riuscito a mantenere la promessa fatta a giugno di non parlarne per tutte le vacanze estive, in realtà molto più brevi di quanto si potrebbe credere.
Il nuovo anno comincia con tante incertezze e interrogativi dovuti all’attuazione della legge cosiddetta “La buona scuola”, che d’ora in poi comincerà a far sentire i suoi effetti, purtroppo più negativi che positivi. Le novità introdotte non fanno presagire nulla di buono. Le mie preoccupazioni più forti sono relative alla cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, che quest’anno diventa obbligatoria nelle classi terze e quarte dei Licei e degli altri istituti superiori, e al rinnovato obbligo, sostenuto dal Ministero, dell’aggiornamento didattico. Il primo problema è certamente invasivo, checché se ne dica, perché 200 ore di attività lavorativa extrascolastica in un triennio sono tantissime, e non si può pensare che vengano svolte tutte nei periodi di vacanza; ciò comporterà inevitabilmente grossi disagi per il regolare svolgimento delle lezioni e per la completezza dei programmi. E’ inaccettabile, a mio giudizio, il consiglio che alcuni danno in questi casi, quello cioè di “tagliare” alcuni argomenti a vantaggio di altri: come è possibile, ad esempio in una materia come la letteratura italiana, parlare di Manzoni e non di Leopardi, o viceversa? Oppure, in storia, parlare della seconda guerra mondiale se non si è prima affrontato il problema delle cause, dei regimi totalitari precedenti, della prima guerra mondiale e via dicendo? Si possono eliminare gli argomenti secondari ed i corollari, ma non quelli fondamentali che vanno trattati in ogni modo, pena la perdita del senso complessivo e del valore formativo di ogni disciplina. Io non so come si organizzeranno i colleghi, ma prevedo grosse difficoltà; spero soltanto che il tempo da dedicare alle lezioni ed alle verifiche (che vanno fatte anch’esse, e non in maniera superficiale o sbrigativa) resti comunque tale da consentirci di espletare i programmi in maniera decente. Dico ciò in nome dell’obiettivo primario della formazione degli studenti, ma anche in vista dell’esame di Stato: c’è infatti l’eventualità che un commissario esterno si lamenti dell’esiguità del lavoro svolto e che di ciò dia la colpa al collega interno, senza tener conto di tutto il tempo-scuola che se ne va nelle molteplici attività extra- o parascolastiche.
Il secondo motivo di ansia riguarda il cosiddetto “aggiornamento in servizio”, che tutti i governi succedutisi negli ultimi vent’anni hanno sollecitato e talvolta imposto ai docenti. Anche qui io sono fortemente scettico, e non perché pensi che aggiornarsi non sia utile e anzi indispensabile, ma perché molto spesso questi corsi sono inconcludenti e tenuti da persone che poco si intendono dei veri problemi che il docente trova nella pratica quotidiana della sua professione, tanto che i loro interventi si risolvono in fiumi di parole poco spendibili nella fattispecie quotidiana. Molti di questi corsi riguardano le nuove tecnologie (sulle quali siamo già informati abbastanza per quel che ci serve, anche perché esse sono soltanto strumenti operativi ma non sostituiscono le facoltà umane), oppure si rifanno ad un pedagogismo ormai vecchio e banale che si esprime in un linguaggio astruso e del tutto avulso dalla realtà effettiva. Questi signori, in pratica, parlano quasi sempre della classe e degli alunni ideali, che esistono solo nella loro fantasia, non di quelli veri, in carne ed ossa, che ci troviamo di fronte tutti i giorni. E il Ministero, con questa insistenza paranoica sui cosiddetti BES e DSA, ha rincarato la dose di trito pedagogismo. L’unico corso di aggiornamento che io vorrei è quello specifico sulle mie discipline, che mi propone argomenti e contenuti nuovi, approfondimenti critici, suggerimenti bibliografici per migliorare effettivamente le mie competenze; un docente, per quanto preparato sia, ha sempre qualcosa da imparare, anche perché gli studi filologici, storici, filosofici ecc. proseguono il loro cammino, ed è bene ch’egli ne venga messo a conoscenza.
Altra notevole incertezza è quella che riguarda le novità della legge sull’impiego e la gratificazione del personale docente. Da quando è stato istituito il cosiddetto “organico potenziato” in tutte le scuole c’è un certo numero di professori in più rispetto al necessario, che vengono utilizzati in vari modi: in certi casi fanno soltanto le supplenze per le assenze dei colleghi, in altri casi fanno compresenze con altri docenti per determinate esigenze della scuola, in altri ancora tengono i corsi di recupero per gli studenti meno brillanti, ecc. Da quest’anno c’è però la novità, chiarita da una circolare ministeriale, ch’essi possono essere anche utilizzati al posto dei docenti curriculari, affidando cioè loro l’insegnamento annuale in alcune classi. Io condivido questa impostazione, perché non trovo giusto che questi colleghi giovani siano occupati per poche ore settimanali mentre a noi “vecchi” insegnanti della scuola tocchi l’orario intero delle 18 ore, con tutto ciò che comporta i termini di preparazione, correzione degli elaborati riunioni ecc. Ma come potranno i Dirigenti scolastici distinguere tra i vari docenti a disposizione e decidere cosa sia più vantaggioso per ciascuna classe? C’è il rischio che, comunque vada, le scelte non siano le più eque e che a sostenere il peso maggiore dell’insegnamento siano sempre i docenti con più esperienza e che danno ai Dirigenti maggiori garanzia di efficacia e di gradimento per studenti e genitori. Potrebbe accadere che chi s’impegna meno, chi provoca problemi relazionali con le altre componenti scolastiche, chi è meno preparato e didatticamente inefficace goda di un impegno minore e faccia, in pratica, la bella vita, limitandosi a qualche ora di supplenza o di corso di recupero. Non dico che ovunque avverrà questo, ma è molto probabile che accada piuttosto spesso, in virtù del potere che la legge della “Buona scuola” concede ai Dirigenti, gravati però proprio in base a questo potere di una forte responsabilità. Questo presupposto, peraltro, vale anche per quanto riguarda il famigerato “bonus premiale”, cioè il limitato vantaggio economico concesso ad una ridotta percentuale di docenti di ogni scuola,  ritenuti eccellenti rispetto agli altri. Non voglio tornare sull’argomento dei criteri in base ai quali sono state fatte le scelte, su cui ho già espresso sinceramente il mio pensiero. Aggiungo solo una cosa: ho notato che nella maggior parte degli istituti è stata compilata la lista dei premiati ma non sono stati resi noti i loro nomi, forse per reticenza dei Dirigenti che in tal modo vogliono evitare liti e malumori tra gli insegnanti della loro scuola. Se però qualcuno – esclusi i presenti – aspirava ad ottenere il bonus non per quei pochi soldi che si aggiungono allo stipendio ma per il prestigio che la collocazione in quella lista poteva apportargli a livello di scuola e di territorio, in questo modo è rimasto, come si suol dire, con un palmo di naso. Che gratificazione può venire a un docente “premiato” se nessuno viene a sapere di questo premio? Mi sembra di risentire una storiella che mi raccontava mio padre quand’ero bambino e che riferiva di un tale che, alla domenica, dava al proprio figlio una banconota da cinquanta lire (si parla di un secolo fa circa) perché facesse bella figura con gli amici quando usciva, ma poi alla sera pretendeva di rivederla intera, senza che il figlio avesse speso neanche un centesimo. Forse chi ha escogitato questa bella trovata avrebbe dovuto essere più esplicito e prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Ma questo è chiedere troppo a chi legifera senza mai aver messo piede in una scuola.

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Bilancio dell’anno scolastico trascorso

Con la conclusione dell’esame di Stato, con il quale i miei studenti sono stati tutti felicemente promossi, è terminata l’attività didattica di quest’ultimo anno scolastico 2015/16 e sono iniziate anche per noi le vacanze. Detto per inciso che queste vacanze non sono così lunghe come l’opinione pubblica mostra di credere, poiché a fine agosto saremo di nuovo a scuola per le prove di recupero dei debiti formativi, è tempo di fare un bilancio dell’anno scolastico trascorso, che non è stato esattamente uguale ai precedenti; vi sono state infatti novità di tipo legislativo che riguardano la scuola nel suo insieme, ma anche una percezione diversa del mio lavoro dal punto di vista personale.
Per quanto concerne il primo aspetto, vi sono stati elementi nuovi legati alla legge cosiddetta della “Buona scuola”, che non mi hanno particolarmente entusiasmato, anzi mi hanno in gran parte deluso. In primo luogo ho notato che è stato immesso in ruolo un gran numero di docenti, alcuni dei quali senza un effettivo accertamento delle proprie capacità culturali e didattiche. Tutti sostengono di aver “vinto un concorso”, ma molto spesso si è trattato di stabilizzazione di rapporti lavorativi precedenti prestati con abilitazioni conseguite in modo vario e non sempre rigoroso; è vero che questo è sempre successo, in quanto i docenti vincitori di concorso ordinario a cattedre saranno al massimo il venti per cento del personale in servizio, ma stavolta la sanatoria mi è sembrata veramente enorme, anche perché avvenuta in seguito a uno dei soliti diktat dell’Europa di cui noi italiani siamo sudditi più che protagonisti. Ma ciò che è più bizzarro è che questa sanatoria non si è limitata a coprire i posti vacanti, ma sono stati immessi in ruolo addirittura circa 50.000 docenti in più rispetto agli organici, quelli che sono andati a formare il cosiddetto “potenziamento”: in base a ciò ogni scuola ha avuto un certo numero di insegnanti in più rispetto al necessario, che sono stati impiegati per lo più in supplenze e corsi di recupero, ma che in realtà hanno passato molto tempo a girovagare per i corridoi o a giocare col cellulare in sala docenti mentre noi, professori di ruolo con sede assegnata in precedenza, abbiamo dovuto continuare a fare le nostre 18 ore, con relativo impegno pomeridiano nella correzione dei compiti, nell’aggiornamento ecc. A me questa situazione è parsa un po’ bizzarra, soprattutto il fatto che, con la crisi economica e il debito pubblico che ci ritroviamo, siano stati pagati così tanti stipendi in più del dovuto. Francamente mi è sembrato uno spreco di denaro pubblico; ma può darsi che mi sbagli e che questa impressione derivi dal mio noto conservatorismo.
A questa bella novità se ne sono aggiunte altre, come la famigerata alternanza scuola-lavoro, che quest’anno ha coinvolto le classi terze ma che è destinata, entro due anni, a toccare tutte le classi del triennio conclusivo degli studi. Non so per quanto dovrò sopportare questa situazione perché sono vicino alla pensione; ma la cosa in sé mi è sembrata un assurdo per i Licei, che forniscono una formazione culturale rivolta all’astrazione ed al pensiero autonomo che ben poco ha a che vedere con le aziende ed il lavoro manuale. Più che altro questo provvedimento mi sembra un’ulteriore concessione del governo a quella mentalità aziendalistica ed economicistica che purtroppo da tempo coinvolge anche il nostro sistema educativo. Secondo questa mentalità bisogna studiare solo ciò che “serve” nella pratica quotidiana, e questo è quanto di più assurdo ed alieno possa esservi dall’impostazione culturale su cui si sono basati per decenni i Licei, specie il Classico e lo Scientifico. Ma anche questa mia contrarietà può spiegarsi con il mio conservatorismo e con la mia età: si sa, dopo i sessant’anni non si può più andare al passo coi tempi e soprattutto con il pensiero delle nuove generazioni che ci stanno governando o aspirano a governarci.
Queste novità legislative sono quelle che più mi hanno colpito e reso perplesso di quest’ultimo anno scolastico; ma qualcosa è cambiato anche dal punto di vista mio personale, all’interno della mia scuola e delle altre del territorio che ben conosco. Ho avuto l’impressione che quel che oggi più conta nell’attività del docente non sia più la sua preparazione, la sua efficacia didattica, i principi morali e civili che riesce a trasmettere ai suoi alunni, bensì la capacità di assumersi incarichi al di fuori del lavoro in classe, la volontà di organizzare eventi e progetti che giovino all’immagine esterna dell’istituto, la tendenza a creare con gli studenti un rapporto “tranquillo” che non provochi tensioni o problemi con le famiglie e che alla fine lasci tutti contenti. Un po’ è sempre stato così, il professore molto esigente che dà anche voti bassi quando è necessario viene osteggiato, mentre quello che fa l’amico dei ragazzi e li gratifica con buoni voti è sempre risultato più simpatico; ma adesso mi sembra che questo andazzo sia andato rafforzandosi e che si stia diffondendo l’abitudine di attirarsi la simpatia di alunni e famiglie con atteggiamenti compiacenti, amichevoli, a volte anche adulatori, che francamente non mi sembrano confacenti ad una visione seria ed efficace del rapporto educativo. Io probabilmente sbaglio nel senso opposto perché ho ritenuto ed ancora ritengo che il bravo docente sia colui (o colei) che insegna con competenza le sue materie e non concede troppa confidenza agli alunni, non crea un rapporto di “complicità” che all’inizio sembra piacevole ma che poi risulta deleterio per la formazione dei ragazzi e la loro futura capacità di affrontare i problemi della vita. Chi ha sempre la strada spianata non riuscirà ad affrontare la prima difficoltà che gli si porrà davanti. Io la penso così, ma forse anche questo va attribuito al mio conservatorismo ed alla mia età ormai non più verde; oltretutto mi sto accorgendo che noi docenti “anziani” stiamo andando incontro alla “rottamazione”, ad essere soppiantati dai colleghi più giovani, la generazione per intenderci dai 35 ai 50 anni, dotati di uno slancio vitale e di un entusiasmo ben maggiori dei nostri, legati come siamo ad una visione della scuola ormai inveterata. E’ il nuovo che avanza, nel bene e nel male.
Detto questo, mi propongo per tutta l’estate di non parlare più di scuola, perché le vacanze debbono essere anche mentali, nel senso che occorre liberarsi per un po’ dai problemi quotidiani del nostro lavoro che ci affliggono per dieci mesi e più all’anno. In questo periodo, almeno fino a settembre, parlerò d’altro: questioni sociali e politiche, recensioni di libri o altri argomenti culturali, fatti di cronaca. Con la scuola voglio chiudere, almeno per qualche settimana, anche perché il blog non è stato creato a senso unico ma per tutto ciò che mi può interessare o in cui sento di avere qualcosa da dire.

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Consigli agli studenti per l’Esame di Stato

Si avvicina l’Esame di Stato (un tempo chiamato di maturità) per tanti giovani che hanno frequentato l’ultimo anno delle scuola secondarie superiori. Ciascuno di loro lo affronta a suo modo: c’è chi è ansioso e preoccupato, chi invece assume un atteggiamento spavaldo e apparentemente disinteressato, chi si attende una valutazione alta e chi invece si accontenterebbe del punteggio minimo. L’attesa è molto diversificata, ma nella sostanza tutti aspirano ad ottenere un risultato positivo; ed in effetti la promozione arriverà per quasi tutti, visto che le bocciature all’esame si limitano a percentuali bassissime; ciò non significa però che gli studenti rimangano soddisfatti degli esiti finali, perché anche chi riconosce di aver ottenuto il punteggio che prevedeva (e forse anche più) avrà comunque da ridire sul risultato del compagno o della compagna che, pur con un iter scolastico meno brillante, avranno avuto più di lui (o di lei). Comunque, a parte queste che sono vicissitudini inevitabili in ogni esame, mi sento di dare ai maturandi qualche consiglio per sostenerlo nel migliore dei modi, visto che da trent’anni e più mi trovo sempre in commissione, dove ho svolto tutte le funzioni: membro interno, membro esterno e presidente.
Riallacciandomi a quanto detto sopra, il primo consiglio che mi sento di dare agli studenti è quello di affrontare le prove con serenità, senza porsi preventivamente obiettivi che potrebbero non essere raggiunti e quindi provocare irritazione e risentimenti. Occorre tener conto che una parte non indifferente del risultato finale non dipende da voi, cari studenti, ma dalla buona o cattiva sorte che vi può toccare: bisogna vedere quali sono i parametri valutativi della vostra commissione, giacché non tutte giudicano con lo stesso metro, e una determinata prova può valere 10 per un commissario e 5 per un altro; potreste trovarvi di fronte a domande o quesiti che non vi aspettavate, ed in questo caso occorre comunque cercare di rispondere, perché lasciare il foglio bianco o restare muti è la soluzione peggiore in quanto denota, a volte falsamente, una totale ignoranza sull’argomento proposto; c’è da considerare anche l’effettiva difficoltà delle prove ministeriali, che variano da un anno all’altro. Insomma, c’è tutta una serie di fattori che può influenzare sensibilmente il vostro esame ed i vostri risultati, ragion per cui la migliore scelta è quella di stare sereni e sostenere con calma le prove facendo propria la massima oraziana del carpe diem, anche perché l’ansia e l’emotività non fanno altro che peggiorare la vostra immagine dinanzi alla commissione. Dovete poi tener conto che il voto finale scaturisce al 75% dalle prove d’esame e che solo il 25% è costituito dal credito che la vostra scuola vi ha assegnato; è perciò possibile – anzi è quasi certo – che i risultati finali non rispecchieranno la reale scala dei valori emersi durante il quinquennio di studi, perché basta che uno studente fallisca una prova per perdere più punti di quanti ne contiene l’intera scala dei crediti scolastici. Sarebbe giusto, a mio giudizio, che il curriculum scolastico contasse nel voto finale almeno il cinquanta per cento; ma così non è, gran parte della valutazione conclusiva dipende dalle prove d’esame, e quindi la fortuna, come si suol dire, ci mette lo zampino, anzi ci si butta con tutte le zampe e anche col resto del corpo. Tanto vale, quindi, stare tranquilli: sempre per citare il buon Orazio, ut melius quicquid erit pati!
Quanto all’atteggiamento “pratico” da tenere all’esame, il primo consiglio che mi sento di darvi, cari studenti, è quello di essere onesti e contare soltanto sulle proprie forze senza cercare “scorciatoie” come le copiature o altri simili atti di disonestà. Starete più tranquilli con la vostra coscienza e sarete fieri del vostro risultato, il quale, pur modesto che possa essere, sarà tutto vostro e potrete quindi andarne fieri. Niente cellulari alle prove scritte, anche perché c’è una norma ben precisa che commina l’esclusione da tutte le prove d’esame, e quindi la bocciatura, per chiunque sia trovato in possesso di questi o altri aggeggi elettronici; e chissà, potrebbe anche esistere qualche presidente di commissione che venga preso dalla volontà di applicare letteralmente la norma. Ricordate che l’onestà paga sempre alla fine, la truffa e l’illegalità non pagano mai. Nel presentarvi agli esaminatori siate cortesi e gentili, ma non passivi; se avete una vostra idea, una vostra posizione, sostenetela anche se il commissario ne esprime una diversa dalla vostra, ma sempre con garbo e gentilezza. Non mostrate atteggiamenti protervi o spavaldi, che risultano sempre indisponenti per i commissari. Tenete presente che quattro componenti su sette della commissione non vi conoscono, sono membri esterni, e quindi il vostro comportamento, le vostre parole, il modo stesso con cui vi presentate possono avere un rilievo non indifferente nel loro giudizio su di voi, che si tradurrà inevitabilmente in un voto. Queste persone vi vedono per la prima volta, non conoscono il vostro reale carattere, quello che è emerso nei cinque anni di permanenza nella vostra scuola; perciò basta poco per influenzare, in senso buono o cattivo, l’impressione che farete loro. E a tal proposito, a conclusione di questa nota, mi sento anche di darvi un suggerimento pratico, che a molti potrà apparire fuori luogo perché rientra nelle scelte personali di ciascuno, ma che finisce anch’esso per avere la sua importanza. Mi riferisco al modo di abbigliarsi e di vestirsi durante i giorni delle prove d’esame. In tali occasioni, a quanto mi è capitato di constatare nei tanti esami cui ho partecipato, sono da evitare da parte degli studenti abbigliamenti eccentrici o da spiaggia come bermuda, sandali, magliette con scritte ecc., perché per molti docenti (specie quelli di una certa età, me compreso) la scuola è un luogo diverso dalla spiaggia o dalla discoteca, e richiede un certo decoro anche nel modo di vestirsi e di presentarsi all’esame. Sono da evitare anche i pantaloni a vita bassa, che lasciano intravedere parti che dovrebbero restare coperte, ed i famosi jeans strappati, che fanno una pessima impressione. Un abbigliamento sobrio e adatto all’ambiente, come ad esempio la giacca o la camicia per i ragazzi, un vestito o tailleur al posto dei jeans per le ragazze, sarebbero le scelte migliori. E’ vero che quel che conta è la preparazione individuale nelle materie d’esame, questo è chiaro; ma anche il vostro aspetto, il vostro modo di presentarvi e di interagire ha un certo rilievo. Ricordate che chi non ci conosce prima ci vede e poi ci ascolta. E dico questo a ragion veduta, in base alle circostanze in cui mi sono trovato personalmente; poi è evidente che ciascuno può fare come vuole, questi sono soltanto consigli, parole che volano al vento come tante altre, scritte in un momento in cui, dopo tutto lo stress che mi ha provocato l’anno scolastico, non avevo nulla di meglio da fare.

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A quali docenti andrà il bonus?

Sul sito web del quotidiano “Repubblica” è uscito ieri un interessante articolo dedicato ad uno degli eventi più attuali della vita scolastica nazionale: il famoso “bonus” economico con cui in ciascuna scuola verranno premiati, a partire da questo stesso anno scolastico, i docenti ritenuti più validi e meritevoli. Ciò in prima applicazione della legge detta della “Buona scuola” approvata dal Parlamento nel luglio dello scorso anno. Sappiamo che la decisione finale sulle persone a cui dare questo “bonus” (che si ridurrà a poche decine di euro mensili) spetterà ai Dirigenti scolastici, i quali dovranno avvalersi dei criteri stabiliti dal Comitato di valutazione eletto in ogni istituto; ciò nonostante non sarà facile per i Dirigenti, che non possono essere competenti di ogni disciplina insegnata nella loro scuola, e neanche possono conoscere nei particolari il metodo di lavoro, l’impegno e la preparazione di ciascun insegnante, individuare i docenti “migliori”, più bravi o più solerti nel loro lavoro. Così, a quanto riferiva l’articolo di “Repubblica”, in molte scuole si stanno distribuendo questionari anonimi a studenti e genitori, per conoscere il giudizio degli “utenti” sul servizio loro prestato dagli insegnanti.
A proposito della questione generale voglio premettere che, ad onta delle proteste di molti colleghi e sindacati, io continuo ad essere favorevole alla valutazione di noi docenti ed anche ad una, se pur minima, differenziazione dello stipendio, perché ritengo ingiusto e mortificante trattare tutti allo stesso modo, perché è ben noto che non tutti abbiamo lo stesso carico di lavoro, le stesse competenze e lo stesso amore per la professione, non tutti abbiamo la stessa efficacia didattica o lo stesso rapporto professionale ed umano con i nostri alunni, e l’egualitarismo finora vigente mortifica chi mette l’anima ed il cuore nello svolgere i propri compiti quando vede che il collega impreparato o fannullone riceve lo stesso trattamento e la stessa considerazione sociale. Riconosco però che è estremamente difficile per i Dirigenti effettuare una simile distinzione, perché il nostro lavoro non è valutabile oggettivamente, dal momento che non è un’attività operativa materiale in cui si possano contare le casse di frutta scaricate da un magazziniere o i tavoli di un ristorante apparecchiati da una cameriera. Per noi nessun parametro può esser preso per oggettivamente indiscutibile, neanche quello, unico (e non sempre) accertato dai concorsi, della preparazione nelle proprie materie; nella mia esperienza ho conosciuto infatti colleghi bravissimi, veri e propri cultori della materia e vincitori di concorso, che però non riuscivano a trasmettere questo loro sapere agli alunni, non riuscivano a volte neanche a mantenere la disciplina in classe, non avevano la misura dei tempi in cui un programma deve essere svolto, tanto che l’esito del loro insegnamento si è rivelato un autentico fallimento.
Per questi motivi molti Dirigenti, nel tentativo di limitare i danni (in termini di risentimenti, proteste e ricorsi) che inevitabilmente faranno da strascico alle loro scelte, distribuiscono i questionari per sapere dagli studenti chi tra gli insegnanti è da loro più stimato ed apprezzato. E mi viene da pensare – perché è logica conseguenza di quanto detto prima – che anche chi non si avvarrà dei questionari scritti dovrà comunque tenere conto dei giudizi che studenti e genitori danno sui docenti, giudizi che girano per le scuole come voci di corridoio ma che spesso si concretizzano anche in visite, telefonate ed e-mail al Dirigente dove emergono, più che le lodi, le lamentele contro certi insegnanti. Il problema però, a mio avviso, è che questi giudizi poco lusinghieri di studenti e genitori non avvengono, se non di rado, a motivo di una scarsa preparazione o altrettanto scarsa dedizione al proprio lavoro, ma piuttosto nei confronti dei docenti più esigenti e meno generosi nelle valutazioni. Per questo trovo pericoloso affidarsi al giudizio di coloro che usufruiscono direttamente del servizio scolastico, perché ho il fondato timore che molti (se pur non tutti) alunni e genitori tendano a premiare non il docente più preparato e coscienzioso, ma quello che distribuisce a pioggia voti alti e magari impegna poco la classe con i compiti a casa, e non colui che mantiene la giusta distanza nei rapporti personali dovuta alla distinzione tra i rispettivi ruoli, ma quello che fa l'”amicone” con i ragazzi, scherza e gioca con loro dando confidenza e magari sottraendo così il tempo alle lezioni. Se proprio si vuole acquisire il parere degli “utenti” (termine che metto tra virgolette perché la scuola non è l’Enel o la Telecom), sarebbe più giusto, a mio parere, interpellare gli ex studenti, coloro che sono stati allievi di un docente negli anni precedenti e che attualmente sono all’Università o nel mondo del lavoro; solo costoro, infatti, non più condizionati dall’interesse e dalle passioni del momento, potrebbero dire con sicurezza quanto l’insegnamento di quel determinato docente è stato loro utile nella propria formazione culturale, professionale ed umana.
In ogni caso, pur continuando ad essere favorevole a questa parte della legge della “Buona scuola”,riconosco che una valutazione oggettiva ed asettica di ogni docente da parte dei Dirigenti scolastici è molto difficile; e questa difficoltà condurrà senz’altro a fraintendimenti dello spirito della legge e a decisioni a dir poco opinabili, come quella di attribuire il bonus ai collaboratori del Dirigente, a coloro che organizzano progetti, partecipano a riunioni di stesura del Pof o altre simili attività, che peraltro sono già retribuite dal fondo di Istituto e comunque hanno poco o nulla a che vedere con la validità didattica del docente, l’unico elemento che meriterebbe oggettivamente il premio. A questi problemi vanno aggiunte le accuse di clientelismo ed i malumori che si manifesteranno dopo l’attribuzione del bonus in ogni scuola; ragion per cui, se finora non ho mai invidiato lo status di Dirigente scolastico, adesso lo invidio ancor meno. Quello di cui ho parlato, per concludere, è senza dubbio un compito ingrato, a cui molti presidi rinuncerebbero volentieri; ed io li comprendo pienamente, ed almeno in questo sono del tutto solidale con loro.

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Osservazioni sul bullismo

Si fa un gran parlare, in questi ultimi tempi, del problema del bullismo a scuola ed altrove, con grande interesse dei mezzi di informazione di massa, i quali reclutano a tale scopo pedagogisti, psicologi, sociologi ecc. Il fenomeno è ben noto a ciascuno, perché molti di noi, da studenti o da militari, hanno dovuto subire prese in giro, esclusioni da certi gruppi e persino angherie più o meno gravi da parte dei compagni di scuola o dei cosiddetti “nonni” nelle caserme, cioè i commilitoni più anziani per servizio. Quando io ho svolto il servizio militare di leva (che ai miei tempi era obbligatorio) in aeronautica, le nuove reclute erano chiamate “missili” e molto spesso subivano dei soprusi che comunque, almeno nel mio caso, non erano particolarmente gravi ma erano più che altro scherzi compiuti in amicizia. E’ comunque chiaro che il fenomeno del bullismo è venuto alla ribalta adesso perché ne parla molto la televisione e perché il ministero tenta di affrontarlo con appositi provvedimenti, ma in realtà è sempre esistito. Limitandoci all’ambiente scolastico debbo dire che ai tempi miei il fenomeno era ancor più grave e marcato di adesso. Chiunque fosse per qualunque motivo diverso dagli altri veniva colpito dagli scherzi e dalle derisioni dei compagni: bastava che un ragazzo avesse gli occhiali ed era subito “quattrocchi”; se era un po’ grassoccio gli epiteti si sprecavano e qualcuno, come avvenne ad un ragazzo della mia classe delle medie, veniva definito simpaticamente, con un’elegante espressione francese “beaucoup de viande”; se era magro, era chiamato “stecco”, se alto “giraffa” e così via. Anche la violenza fisica non mancava, anzi ce n’era molta più di oggi. Quante volte, specialmente quando frequentavo la scuola media, ho sentito dire la frase “t’aspetto fuori”, ed altrettante ho assistito a veri e propri incontri di pugilato all’uscita dalla scuola! Casi di ragazzini deboli angariati e anche picchiati dai più grandi ce n’erano a iosa anche quaranta o cinquanta anni fa, solo che nessuno ne parlava, e neanche i genitori si preoccupavano di intervenire a difesa del loro figlio perseguitato. Questo stato di cose era considerato normale e ciascuno doveva abituarsi a difendersi da solo; altrimenti, se aveva paura o non reagiva, era considerato un vigliacco, un “mezzo uomo” per non dire peggio. L’ambiente studentesco era violento e caratterizzato da una specie di selezione naturale alla Darwin, dove solo i più forti sopravvivevano incolumi. Il problema era ancor più grave di oggi, soltanto che non faceva notizia. Tutto qui.
Con ciò non voglio sottovalutare il problema del bullismo attuale, che è comunque un fatto grave anche perché presenta due notevoli differenze con quello dei decenni passati. La prima è che attualmente è venuto alla luce anche il bullismo al femminile, di cui prima non si aveva quasi percezione; oggi le ragazze, che spesso nelle scuole sono più dominatrici e più determinate dei maschi, hanno preso dall’altro sesso tutti i peggiori difetti, e così avviene non di rado che alcune di loro si coalizzino per perseguitare una compagna che appare diversa o perché più debole o addirittura perché ritenuta più bella delle altre, e contro di lei scatta quindi la gelosia e l’invidia del gruppo. Il bullismo al femminile è più subdolo di quello maschile, perché raramente ricorre alla violenza fisica ma si manifesta per lo più nell’isolamento e nella ridicolizzazione della vittima, tanto da provocarle complessi di inferiorità e disagi esistenziali anche gravi.
La seconda novità del bullismo attuale è che fa uso dei nuovi strumenti comunicativi come i social network, tanto da trasformarsi in “cyberbullismo”, come si è soliti definirlo con questo brutto neologismo. Le conseguenze di questo fenomeno moderno sono più gravi di quelle che si avevano in passato, perché i bulli attuali sono soliti trasferire sulla rete immagini, video o anche semplici commenti che vengono visti e conosciuti da un numero ben maggiore di persone rispetto a prima, con il risultato di ingigantire il senso di disagio e di vergogna che la vittima prova. A volte, addirittura, vengono perpetrati persino ignobili ricatti, nel senso che la vittima viene minacciata, se non soggiace a compiere determinati atti, di veder rendere pubblica qualche sua immagine (o video) di cui può vergognarsi e che magari gli è stata strappata contro la sua volontà. Se prima si veniva messi alla berlina di fronte a pochi compagni, adesso centinaia o migliaia di persone possono assistere a questa gogna mediatica, e ciò aumenta a dismisura il senso di disagio, di fallimento, di disistima personale che prova chi è colpito da questi eventi, tanto che in certi casi si è arrivati persino al suicidio da parte di ragazzi o ragazze colpiti da questo tipo di bullismo. E’ chiaro quindi che da parte delle autorità dovrebbero essere presi provvedimenti severi e fortemente punitivi contro i criminali (perché tali sono) che compiono questi atti, e sarebbe anche giunto il momento, a mio parere, che le pagine dei social network fossero controllate e non fosse permesso a chiunque di scrivere e pubblicare ciò che vuole, perché questo malinteso senso della libertà induce a danneggiare gravemente l’autostima e la personalità di alcuni individui, che possono pagarne per tutta la vita le conseguenze. Sarebbe l’ora di limitare la libertà assoluta che sussiste su internet, dove ognuno dice e pubblica ciò che vuole. Questa non è libertà, è anarchia della peggiore specie.
L’intervento coercitivo e punitivo, che dovrebbe arrivare senza timori alla perdita dell’anno scolastico per chi compie questi atti all’interno della scuola, mi pare l’unica valida risposta a questi comportamenti; soltanto che poi arrivano i genitori a difesa dei figli, fanno ricorso e magari lo vincono perché il garantismo che domina in Italia rende praticamente impossibile l’azione educativa che, se vuol essere efficace, deve necessariamente passare anche attraverso le punizioni. In alternativa c’è l’indifferenza, che cioè il perseguitato (ovviamente se la violenza non è di tipo fisico) non dia alcuna importanza a ciò che viene detto o scritto su di lui finché i persecutori non si stancano. E’ quello che dicevano a noi i nostri genitori: “Se ti prendono in giro fai finta di nulla e ridici anche tu, perché se te la prendi dai loro soddisfazione e non la smettono mai.” Ma  se questo ragionamento poteva valere ai nostri tempi, non oggi, quando i giovani sono molto più sensibili e fragili emotivamente di quanto non eravamo noi. Oggi c’è il rischio che certe ferite non si rimarginino più e che i danni provocati all’autostima personale diventino permanenti, proprio perché viviamo in una società dove l’apparire conta più dell’essere, dove l’immagine esterna supera spesso i sentimenti ed i valori interiori della persona.

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A chi interessa la serietà degli studi?

Si è concluso da pochi giorni il periodo dedicato alle iscrizioni scolastiche per il prossimo anno 2016/17, ed è tempo di fare un primo bilancio della situazione, anche se qualche lieve cambiamento potrà avvenire di qui a luglio. Per quanto riguarda la mia scuola, che comprende vari corsi liceali, continua purtroppo il trend negativo già evidenziatosi negli anni passati: continua il calo del liceo classico, che ormai viene scelto solo da pochissimi eroi votati a questo tipo di sacrificio, ma anche il nostro liceo scientifico ha subito una durissima battuta d’arresto, con un calo di oltre il 40 per cento rispetto agli iscritti dello scorso anno. Non ho ancora i dati degli altri corsi del nostro istituto (linguistico e delle scienze umane), per cui mi limiterò a riferirmi ai primi due indirizzi sopra menzionati.
C’è da dire anzitutto che nel nostro bacino d’utenza si è verificato, proprio negli anni 2002 e seguenti, un certo calo delle nascite, ed è certamente questo uno dei motivi della nostra débacle. Facendo però una ricerca presso le scuole medie del territorio ci siamo resi conto che questa marcata flessione non si spiega soltanto con ragioni demografiche; è invece risultato chiaro che molti alunni che quest’anno si iscrivevano alla scuola superiore, specie quelle dei Comuni confinanti con altre province o altri distretti scolastici, hanno preferito istituti diversi dal nostro, magari anche molto più distanti e che non offrivano certo di più dal punto di vista didattico, logistico o tecnologico.
E’ quindi lecito chiedersi il perché di queste scelte, che ci penalizzano come scuola e ci addolorano individualmente per l’impegno che ciascuno di noi dedica al proprio lavoro. In tempi di vacche magre, purtroppo, c’è il rischio che cominci una guerra di tutti contro tutti, nella quale ciascuno accusa la propria scuola, i colleghi, il dirigente o altro che sia di essere responsabile del fallimento; si arriva cioè, quasi sempre, ad un rimpallo di responsabilità e ad una serie di proposte spesso inattuabili ed assurde che si sentono in sala insegnanti e nelle riunioni collegiali. C’è chi dice che bisogna fare tutto con il computer e i tablet, come se questi aggeggi fossero una manna del cielo e potessero sostituirsi alle capacità ed all’impegno degli studenti; chi sostiene di inserire nuovi corsi di studio o materie nuove come specchietto per le allodole; chi addirittura, in modo ancor più banale e semplicistico, propone di alzare i voti a tutti e non bocciare più nessuno, e altre perle di questo tipo.
Riflettendo sui nostri magri risultati in fatto di iscrizioni, io non ho potuto fare a meno di collegare il fenomeno della migrazione di studenti del nostro territorio verso altri lidi ad un evento accaduto qualche mese fa. Il centro di studi chiamato “Eduscopio”, che fa capo alla fondazione Agnelli di Torino (sito web: http://www.eduscopio.it) si è assunto il compito di monitorare, in tutta Italia, il livello qualitativo di ogni istituto di istruzione superiore facendo riferimento ai risultati ottenuti dagli studenti nei primi due anni di studi universitari. Ebbene, dall’indagine effettuata in questo stesso anno scolastico, risulta che i Licei della nostra città sono i primi per qualità dell’insegnamento e per livello di preparazione degli studenti non solo nel distretto di appartenenza, ma anche nella nostra provincia ed in quelle limitrofe. La notizia, quando è stata resa nota, ci ha gratificati e resi orgogliosi del nostro lavoro, che a quanto pare dà risultati brillanti e ci qualifica come scuola di eccellenza. Il dato di Eduscopio è stato pubblicizzato anche sui giornali locali come un vanto della nostra istituzione scolastica.
In realtà però, proprio nell’anno in cui ci è stato dato questo importante riconoscimento, abbiamo avuto il più marcato calo di iscrizioni. Da questo dato quindi, senza bisogno di ricorrere a sofismi e sillogismi, si può trarre la seguente conclusione: che la qualità degli studi non interessa più quasi a nessuno, anzi è un deterrente per chi deve iscriversi ad una scuola, per gli studenti ed i loro genitori. Certamente una scuola di eccellenza è una scuola che pretende impegno e serietà dagli alunni, come in effetti accade nei nostri licei; non c’è quindi da stupirsi se in una società dove predomina l’ignoranza e la superficialità, dove i giovani sono sempre più svogliati e imbambolati da Facebook e da Whatsapp, dove i genitori non si preoccupano più della preparazione dei loro figli ma mirano soltanto al voto e al “pezzo di carta”, siano ben pochi coloro che accettano di fare dei sacrifici per la cultura, la quale, com’è noto, “non si mangia” (come un raffinato politico ebbe a dire) ed è ritenuta inutile per aver successo in società e per fare quattrini in abbondanza. Oggi la serietà degli studi non è più un elemento positivo gradito a studenti e famiglie, ma un incomodo fastidio che costringe magari a rinunciare a qualche vacanza o qualche uscita con gli amici; i genitori, poi, non vogliono certamente che i loro figli stiano troppo tempo sui libri, ché si rovinano la salute. E per cosa poi? Per studiare latino, greco, matematica o scienze? E a che servono questi inutili residuati di un vecchio mondo? Tanto c’è Wikipedia, nel caso in cui a qualcuno, una volta nella vita, venisse qualche dubbio. Oggi per far soldi e successo ci vuole ben altro, e di questo ci accorgiamo ogni volta che accendiamo la televisione e osserviamo la la società intorno a noi; quindi la scuola deve essere leggera, facile, con voti alti distribuiti a pioggia senza che ad essi corrisponda nessuna reale preparazione. Così gli studenti, atterriti dalla prospettiva di dover aprire un libro, migrano verso scuole dalla fama più attraente della nostra, scuole dove si studia poco e si hanno grandi risultati in termini di valutazioni, e dove i docenti sono tutti amiconi dei ragazzi e passano come loro il tempo su facebook e su whatsapp. E poi ci meravigliamo dell’analfabetismo di ritorno e della barbarie in cui siamo caduti? Se Attila e Odoacre tornassero oggi in vita, sarebbero certamente dei raffinati intellettuali.

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La scuola come optional

Quando io ero studente, purtroppo moltissimi anni fa, i miei genitori mi dicevano che la scuola “era il mio lavoro”, e perciò in esso dovevo impegnarmi al massimo, senza discussioni; e tra i doveri che io ed i miei compagni avevamo, oltre ovviamente a quello dello studio vi era anche quello di rispettare puntualmente, ogni giorno, la frequenza scolastica, essendo le assenze ammesse soltanto in caso di malattia reale ed accertata. Non che questa prescrizione fosse osservata da tutti, perché anche allora c’era chi marinava la scuola; ma questa era comunque considerata una grave trasgressione, e chi la faceva agiva a suo rischio e pericolo, falsificando per lo più la firma dei genitori sulla giustificazione, e se veniva scoperto erano grossi guai. Io personalmente non ho mai saltato le lezioni, ed avrò fatto sì e no dieci assenze in cinque anni di liceo, e soltanto se la febbre mi era salita ad almeno 38, altrimenti andavo lo stesso. Mi ricordo che una mattina (era il mercoledì delle ceneri, il giorno dopo l’ultimo di carnevale) mia madre, reduce dal “veglione” a teatro (così allora si chiamava) assieme a mio padre, non si svegliò al mattino e quuindi omise di svegliare anche me;  ed io allora, disperato perché avrei perduto il pullman e la mattinata scolastica, costrinsi mio padre, assonnato anche lui e imprecante, ad accompagnarmi con l’auto per più di venti chilometri, quanto distava la scuola da casa mia.
Che il sentire comune di oggi sia molto diverso da quello di allora è cosa pacifica; ma non avrei creduto, quando cominciai ad insegnare, che la mentalità che c’era allora sarebbe mutata sino a diventarne l’esatto contrario. Io insegno in un Liceo Classico, una scuola dove i ragazzi vengono già con l’intenzione di applicarsi e di ottemperare seriamente ai loro impegni, almeno nella maggior parte dei casi; eppure la frequenza a scuola, per alcuni, sembra diventata un optional, nel senso che il numero delle assenze è di molto cresciuto rispetto a qualche decennio fa. Adesso vi è una casistica molto vasta di motivi atti a procurare assenze degli studenti: leggeri problemi di salute (basta un raffreddore o un po’ di tosse), esami della patente di guida (che quei cafoni delle scuole-guida fissano sempre al mattino, infischiandosene del fatto che i ragazzi debbono andare a scuola), la preparazione di feste o altri eventi, dover accompagnare amici o parenti, mancato funzionamento della sveglia, viaggi con la famiglia e via dicendo. A proposito di quest’ultima motivazione, è interessante osservare come sia cambiata profondamente la mentalità non solo dei giovani, ma anche dei loro genitori: un tempo nessuno si sognava di fare viaggi o settimane bianche in periodo scolastico, perché l’importanza della scuola nella vita di un giovane era tale da non autorizzare interruzioni della frequenza per siffatti motivi; adesso invece le famiglie organizzano viaggi e vacanze sulla neve e si portano dietro i figli senza interessarsi minimamente del fatto ch’essi perdono una settimana o più di lezione. Ciò non può che significare una sola cosa: che l’istruzione e la cultura hanno perduto inevitabilmente quell’importanza e quella considerazione che potevano vantare in passato, e che oggi quel che conta è la vacanza e lo svago, mentre la scuola deve limitarsi a fornire il “pezzo di carta” ottenuto a qualsiasi prezzo, e possibilmente con buoni voti per poter far fare ai genitori bella figura con i parenti e gli amici. La superficialità di questo nostro tempo si vede anche da questo, dal fatto cioè che la forma supera largamente la sostanza.
Occorre riconoscere che, tra i vari ministri che si sono succeduti negli ultimi anni, soltanto la Gelmini ha tentato di porre un freno a questo vergognoso fenomeno delle assenze degli studenti, che spesso, in alcuni istituti, raggiungono livelli incompatibili con l’obbligo di frequenza da sempre esistente nella scuola, anche perché ai motivi prima addotti vanno aggiunte anche le assenze cosiddette “strategiche”, quelle che si verificano per evitare interrogazioni o particolari impegni. Così qualche anno fa fu emanata una norma per cui, se uno studente superava il limite del 25% di assenze (circa 50 in un anno scolastico) veniva bocciato o non ammesso all’esame di Stato. Questa norma, sacrosanta secondo me, è stata però subito aggirata con il sistema tipicamente italiano del “fatta la legge, trovato l’inganno”; se infatti lo studente adduce certificati medici (veri o fasulli) che giustificano le sue assenze, la norma non vale più. Così i soliti furbetti, con l’aiuto di medici disonesti, riescono a farla franca anche con un numero di assenze ben superiore al limite prefissato; ed anch’io, come presidente di commissione, mi sono trovato una volta a dover esaminare (e promuovere) uno di questi vagabondi che aveva collezionato più di 60 assenze, ed oltretutto era perfettamente in salute.
Purtroppo così vanno le cose, e nulla mi toglie dalla testa che tutto ciò avviene perché della scuola, attualmente, importa poco a tutti, a cominciare dai ministri e dai politici vari, di tutti gli schieramenti. Ci sarebbe poi da dire che anche alcuni docenti forniscono ai loro alunni un esempio non proprio encomiabile, visto che spesso si danno malati o prendono permessi per motivi futili o se ne vanno in vacanza durante il periodo scolastico prendendo ferie e facendosi sostituire dai colleghi, cosa che il sottoscritto non ha mai fatto pur avendone lo stesso diritto degli altri. Dipende da come tutti noi, docenti e studenti, intendiamo il nostro lavoro: per alcuni è un dovere, per altri è un optional.

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La “buona scuola” è veramente buona?

Quando, lo scorso luglio, fu approvata in via definitiva la riforma del governo Renzi denominata “La buona scuola”, io scrissi un post qui sul blog dove mi sforzavo di sottolineare, oltre alle cospicue perplessità che vedevo nei colleghi e io stesso provavo, anche quelli che mi sembravano aspetti positivi. Alcuni provvedimenti, come ad esempio i 500 euro concessi a ogni docente per l’aggiornamento personale, continuo a ritenerli positivi, ma su altri le perplessità sono cresciute a dismisura. Una di esse riguarda la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, che io trovo opportuna per gli istituti tecnici e professionali ma assurda ed inutile per i licei; ma un’altra cosa che mi lascia sbigottito, visto che si è materializzata proprio in questi giorni, è il cosiddetto “organico potenziato”, l’immissione in ruolo cioè di circa 50.000 persone in quella che hanno chiamato “fase C” per distinguerla da quelle precedenti.
Come si è svolta la faccenda? Il Governo aveva promesso l’immissione in ruolo di circa 120.000 nuovi docenti, in diverse fasi successive perché, a detta del Ministro e del Presidente del Consiglio, questo avrebbe dovuto eliminare totalmente il precariato nella scuola, quei docenti cioè che sono stati utilizzati per anni nei posti disponibili ma che non si erano mai finora visto riconosciuto il diritto ad essere assunti a tempo indeterminato. Pare che il numero effettivo delle assunzioni sia stato di poco superiore a 100.000, un po’ meno quindi di quanto previsto; ma il clou della faccenda è un altro, che cioè di questi nuovi professori assunti in ruolo soltanto la metà circa viene effettivamente impiegato sulle cattedre vuote e disponibili (fasi 0, A e B), mentre quelli della fase C (circa 50.000 persone) non hanno una loro cattedra, ma dovrebbero essere utilizzati per supplenze, corsi di recupero, progetti vari ecc. Tutto questo ha dell’assurdo e del grottesco: insegnanti nuovi, spesso giovani e desiderosi di lavorare nelle classi e dimostrare finalmente le loro capacità professionali, se ne stanno in sala insegnanti senza far nulla o quasi, utilizzati per brevi supplenze a sostituire colleghi di materie diverse dalle loro, insomma a fare da tappabuchi. Questa situazione (che speriamo cambi dal prossimo anno ma che per adesso è quale l’ho descritta) crea frustrazioni e ingiustizie a non finire: non si vede perché, in effetti, noi docenti di ruolo con sede stabile nell’Istituto dobbiamo continuare a osservare rigidamente l’orario delle 18 ore settimanali in classe più altrettante di lavoro domestico (correzione degli elaborati, preparazione delle lezioni, aggiornamento ecc.) mentre questi giovani colleghi non vengono in realtà utilizzati se non pochissimo, per poche ore e per brevi periodi durante l’anno. Oltre che un’ingiustizia nei nostri confronti, è questa una mortificazione anche per gli stessi neoassunti, i quali si ritrovano senza un impegno preciso, senza poter esercitare appieno la professione che nella vita hanno voluto fare, e subiscono quindi un senso di frustrazione e di smarrimento.
A mio giudizio queste assunzioni avrebbero dovuto svolgersi in maniera ben diversa, evitando due errori madornali che l’amministrazione ha compiuto. Il primo di essi, già peraltro evidenziatosi anche negli anni e decenni precedenti, è stato quello di assumere una massa ingente di persone senza prima sottoporle ad un concorso o un esame che accertasse la loro preparazione tecnica e la loro attitudine all’insegnamento, requisiti importantissimi per ogni docente. Di questo scempio la colpa va attribuita unicamente ai vari governi che si sono succeduti, i quali non hanno bandito i concorsi ordinari, l’unica forma efficace di accertamento delle singole competenze di ciascuno: dal 1999, anno di un passato concorso, si è arrivati al 2012, e nel frattempo lo Stato ha utilizzato personale docente di vari livelli, i cosiddetti “precari”, alcuni dei quali però (anche se di numero ridotto) non erano e non sono abbastanza preparati per svolgere una professione così delicata e importante. Alcuni laureati, presa l’abilitazione con esamini ridicoli magari molti anni fa, si erano addirittura dedicati ad altre attività, e ora sono stati chiamati ad insegnare senza che neanche loro se lo aspettassero più. Che docenti saranno costoro, e che sorte toccherà ai loro alunni?
Il secondo madornale errore del governo Renzi è stato quello di prevedere il famoso “organico potenziato”, ossia un certo numero di docenti assegnato ad ogni scuola oltre all’organico normale delle cattedre presenti. E’ questa un’assurdità senza limiti, e per diversi motivi. Primo, come già detto, questi insegnanti non hanno una cattedra loro e quindi vengono impiegati in modo limitato e parziale, frustrando la loro stessa professionalità; secondo, questo provvedimento non abolisce affatto il precariato, perché questi docenti possono essere utilizzati solo per supplenze brevi e non coprono tutte le classi di concorso presenti in una scuola, e quindi sarà sempre necessario il ricorso a supplenti temporanei; terzo, lo Stato si trova a dover pagare quasi 50.000 stipendi in più del necessario, con una spesa ingente e del tutto inutile. La scuola non ha bisogno di personale in più rispetto all’organico, è sufficiente quello che c’era prima d questa legge; per il buon funzionamento dell’istituzione non si agisce con la quantità ma con la qualità, formando cioè insegnanti coscienti e preparati, reclutati con un concorso serio ed accurato e soprattutto messi di fronte alle classi vere di studenti, non a progetti perditempo e ad altre amenità. Sarebbe stato meglio che il nostro Governo, anziché spendere centinaia di milioni di euro in nuovi stipendi praticamente inutili, avesse pensato al rinnovo del nostro contratto di lavoro, fermo scandalosamente dal 2009, cioè da ben sei anni. Io avrei rinunciato volentieri anche ai 500 euro che ci hanno elargito per l’aggiornamento, che sono sì una buona iniziativa ma che non erano indispensabili, a favore di una revisione degli stipendi e soprattutto alla differenziazione di essi in base al merito individuale.

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La scuola e l’attualità

I recenti tragici eventi di Parigi hanno toccato il cuore e la coscienza di tutti noi, ed anche nelle scuole l’argomento è stato più o meno affrontato, nelle sale insegnanti, nelle assemblee studentesche ed anche nelle classi, tra docenti e studenti. Con l’occasione si è di nuovo affacciata una critica che da più parti viene mossa, ormai da decenni, alle nostre istituzioni scolastiche, l’accusa cioè di non trattare se non sporadicamente i problemi di attualità come il terrorismo internazionale, i problemi relativi all’immigrazione ed all’integrazione, le vicende di politica nazionale e internazionale, e chi ne ha più ne metta. E’ questo un ritornello che si trascina da decenni e che ebbe inizio nei “mitici” anni ’70, dopo la rivoluzione sessantottina; già allora si accusava la scuola (e soprattutto i licei) di essere vecchia, di essere scollegata dalla realtà effettiva e dalla società in cui viviamo, di non educare abbastanza i giovani alla loro futura vita di cittadini. La soluzione, secondo certi intellettuali del tempo, sarebbe stata quella di sostituire una parte delle normali lezioni quotidiane con discussioni di politica, con trattazione di problemi sociali e afferenti alla contemporaneità.
In quei decenni – e parlo soprattutto degli anni ’70 e ’80 – questa esigenza sentita da molti fu effettivamente applicata, ma i risultati non furono certo positivi: ad una banalizzazione degli studi, inevitabile con questi presupposti, si aggiunse anche una funesta azione di propaganda da parte di molti docenti che, invece di insegnare le loro materie ed avere a cura la preparazione dei loro alunni, facevano apertamente politica in classe e cercavano in ogni modo di indottrinare gli studenti alla loro ideologia. Ricordo io stesso di aver avuto professori di opposte tendenze durante i miei anni di liceo e di esser passato, nella stessa mattinata scolastica, da un docente che leggeva in classe pubblicamente un quotidiano di estrema destra ad un altro docente che veniva a scuola con “Lotta continua” sotto il braccio, ci chiamava “compagni” e ci imponeva imperiosamente di chiamarlo per nome e di dargli del tu. Questo tendenzioso e deleterio atteggiamento, grazie a Dio, oggi si è molto attenuato, ma il pericolo dell’indottrinamento esiste ancora, e si nasconde proprio in quella richiesta di parlare a scuola dell’attualità e di ciò che accade in Italia e nel mondo. Se veramente dovessimo dar seguito a questa richiesta, non potremmo fare a meno, noi insegnanti, di lasciar trasparire le nostre convinzioni politiche; e gli alunni, che vedono nel loro professore una voce autorevole e spesso un modello di vita, ne rimarrebbero inevitabilmente condizionati. Ecco quindi il motivo principale per cui io evito sempre di affrontare certi argomenti, perché ritengo che il mio compito istituzionale sia quello di trasmettere la cultura e fornire ai miei alunni conoscenze e competenze che servano a formare la loro personalità, in modo neutro e trasparente. Saranno essi stessi poi che, attraverso il metodo di studio e le conoscenze che avranno acquisito, giungeranno ad un pensiero autonomo ed alla capacità di operare liberamente le proprie scelte, anche quelle di carattere ideologico.
Proprio questa mattina, facendo seguito a quanto detto nell’assemblea studentesca, ho avvertito i miei studenti del mio rifiuto di affrontare argomenti della cosiddetta “attualità”, un concetto che poi andrebbe meglio precisato, visto che quel che succede oggi ha le sue radici nel passato e che quindi, studiando questo passato, si riesce a comprendere meglio anche la contemporaneità. Io ho sempre pensato – e lo dico anche se so che molti non sono d’accordo – che il compito della scuola non sia quello di condizionare gli studenti o suscitare dibattiti ideologici per i quali sono molto più adatte altre sedi (partiti politici, circoli culturali, forum e dibattiti su internet ecc.). L’informazione sull’attualità ci viene fornita in larga ed anche eccessiva misura dal bombardamento mediatico di tv, giornali ed internet; gli studenti possono quindi ricavare tutte le notizie su questi argomenti dalle fonti suddette, senza che sia il professore a doverne parlare a scuola. Se poi alcuni di essi desiderano partecipare a dibattiti ed esprimere le loro idee, non mancheranno di trovare le sedi adatte al di fuori dell’ambiente scolastico, la cui funzione è quella di trasmettere una serie di conoscenze e di competenze afferenti alle varie discipline, sulla base delle quali lo studente potrà poi riflettere e formare la sua personalità. Ciò non significa peraltro che l’attualità debba restare del tutto fuori dalla scuola: ad essa possono essere dedicate, ad esempio, le assemblee scolastiche, spesso richieste per questioni di poco e nessun valore, se non addirittura per perdere una giornata di lezione; all’attualità medesima si può alludere ogni volta che i programmi scolastici offrano l’appiglio per operare confronti tra il passato ed il presente, oppure può essere inserita nello svolgimento del tema di italiano, che su varie tracce proposte ne contiene generalmente una riferita ai problemi politici e sociali della contemporaneità. Ma dedicare tempi specifici a parlare dell’Isis, dell’immigrazione o della politica del governo Renzi non mi pare proprio opportuno, sia per le ragioni dette prima che per la cronica mancanza di tempo che non permette quasi mai di concludere i programmi previsti a inizio di anno scolastico. Di tempo scuola ne va in fumo già una buona parte per assemblee, conferenze, viaggi di istruzione, attività sportive e quant’altro; non mi pare opportuno quindi perdere altre ore di lezione in discussioni che gioverebbero poco e che nella maggior parte dei casi lascerebbero il tempo che trovano,  anzi provocherebbero dissapori, rivalità e l’accusa per i professori di voler indottrinare gli alunni. Purtroppo questo è successo molto spesso in periodi passati, ma si è trattato di un errore che è meglio non ripetere: è molto meglio, a mio avviso, lasciare alle coscienze individuali la libertà di formarsi in modo autonomo.

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Scrutini fuori dalla grazia di Dio

Ormai qui sul blog c’è un appuntamento fisso: alla metà di giugno (più o meno), dopo aver partecipato agli scrutini finali delle mie classi, sento l’impulso di scrivere un post sulle modalità in cui si svolge questo rito annuale tanto temuto da studenti e famiglie. E quando parlo di ciò che avviene in queste occasioni, non mi riferisco soltanto alla mia scuola, ma a tante altre, a quasi tutte direi; e per aver conferma di ciò basta ascoltare o leggere le testimonianze di colleghi provenienti da ogni parte d’Italia.

Cominciamo con il dire che la non ammissione alla classe successiva di uno studente (o bocciatura che dir si voglia) è diventata cosa rara quanto le mosche bianche, e per di più andrebbe conferita un’onorificenza a chi riesce a farsi bocciare, visto che è un’impresa veramente ardua, per la quale è necessario o che l’alunno abbia fatto una cinquantina o più di assenze, oppure che abbia tutte le materie insufficienti; perché altrimenti, pur in presenza di lacune gravissime, i consigli di classe riescono quasi sempre a “salvare” il malcapitato, abbonandogli una o più materie in cui non aveva la sufficienza e sospendendogli il giudizio per altre due o tre al massimo. Tra i docenti, da decenni a questa parte, si è affermata e radicata l’idea che far ripetere un anno ad un alunno significa rovinarlo, ucciderlo, distruggere lui e tutta la sua famiglia; non ci vogliamo render conto invece che ripetere un anno, per chi ha grosse lacune in molte discipline, è l’unico modo per rimettersi sulla retta via, per poter affrontare con serenità e consapevolezza un percorso di studi che, fino a quel momento, è stato irto di difficoltà. Se mancano conoscenze di base e competenze fondamentali in un alunno di una seconda classe, come si può pensare che con una promozione forzata e immeritata quello studente possa affrontare l’anno successivo la classe terza? E’ come se un musicista non sapesse neanche leggere il pentagramma e lo si costringesse a suonare nell’orchestra della Scala. Si finisce per fare del male a quello studente promuovendolo, non del bene; e oltretutto si creano grandi ingiustizie nei confronti di coloro che si sono impegnati nello studio ed hanno raggiunto la promozione con le loro forze, i quali spesso non vengono gratificati perché già promossi, e vengono messi sullo stesso piano degli asini e dei fannulloni. Queste verità a me sembrano elementari, ma i colleghi continuano a non sentire da quell’orecchio, e spesso agiscono così per egoismo, non certo per umanità, perché le bocciature possono provocare malumori delle famiglie, proteste e perfino ricorsi; perciò diventa molto più comodo ed agevole promuovere tutti, così non si hanno fastidi, alla faccia della serietà della didattica. A questi colleghi opportunisti si aggiungono poi i sentimentaloni, quelli che provano un autentico dolore a dare insufficienze agli alunni, come se questi fossero tutti figli loro; queste persone, affette da inguaribile buonismo, non si rendono conto che agendo così fanno passare un messaggio sbagliato, quello cioè secondo cui non serve impegnarsi e faticare per ottenere un risultato, perché tanto qualche Santo che aiuta lo si trova sempre. Peccato che nella vita non sarà così e i ragazzi promossi senza merito si troveranno ben presto di fronte ad amare sorprese, quando capiranno – tardi e a loro spese – che la società ed il mondo del lavoro non funzionano come la scuola, e che se vorranno ottenere un qualche risultato dovranno tirarsi su le maniche, perché nessuno regalerà loro nulla.

Comunque, a parte il problema della bocciatura o meno di qualche alunno, l’assurdità del modo in cui vengono condotti gli scrutini finali risulta anche da altro, come ad esempio l’assegnazione del credito scolastico, il punteggio cioè che ogni scuola conferisce ai propri alunni e che sarà parte integrante del voto finale perché andrà a sommarsi ai punteggi ottenuti nelle prove d’esame. Anche qui trionfa il buonismo ed il pressappochismo, fonte anch’esso di ingiustizie a non finire: poiché infatti il credito da assegnare è legato alla media dei voti ottenuti da ciascun studente (alla media del 6, ad esempio, corrisponde un punteggio, a quella del 7 un altro punteggio più alto e così via), molti docenti fanno a gara ad aumentare i propri voti in sede di scrutinio per poter far raggiungere all’alunno una media più alta e quindi un credito più elevato. Ed ecco che comincia il mercato delle vacche, come lo chiamo io: lo studente Tizio, che è stato portato con la media del 7,6, ad esempio, si vede aumentare a casaccio cinque voti per poter raggiungere la media dell’8,1 che consente di passare alla fascia superiore ed avere un credito più alto, sempre con l’errata convinzione di aiutarlo e di presentarlo in una luce migliore alla commissione d’esame. Ma il bello è che ciò avviene non per effettivi meriti di Tizio, ma solo perché gli si vuole far raggiungere una media più alta, e così comincia il balletto dei docenti tendente a stabilire chi è disposto ad aumentare il proprio voto; ma chi lo fa molto spesso non tiene conto del fatto che magari, nella stessa classe, ci sono Caio e Sempronio che durante l’anno avevano avuto un rendimento scolastico migliore di quello di Tizio, e che invece si vedono assegnare un voto più basso perché, avendo una media poniamo del 7,1, non possono aspirare alla fascia più alta. In questa maniera i voti lievitano come la moltiplicazione dei pani e dei pesci, e persone che meriterebbero al massimo un 7 si trovano, senza neanche sperarlo, con degli 8, dei 9 e talvolta persino con il 10, salvo poi non confermare affatto, in sede di esame, queste valutazioni stratosferiche. Per non parlare poi del voto di condotta, o di comportamento come si chiama oggi: alunni poco presenti, indisciplinati e persino gravati da note di demerito si ritrovano nello scrutinio finale con voti che vanno dall’8 al 10, assolutamente immeritati e conferiti impropriamente, dal momento che oggi, dopo la riforma Gelmini, il 6 ed il 7 in condotta non sono più insufficienze e quindi potrebbero essere attribuiti normalmente come si fa con i voti delle altre discipline; ma poiché il voto di condotta adesso fa media, lo si utilizza quasi sempre per elevare la media stessa e far raggiungere all’alunno fasce superiori di credito, spesso immeritate. E chi si oppone a questo insensato buonismo, a questo spirito da crocerossine, si vede affibbiare i peggiori epiteti oppure, nel migliore dei casi, si vede guardare con sorrisetti di sufficienza e giudicare come un passatista, un giustizialista, un forcaiolo o qualcosa di simile. Nella mia lunga carriera quasi ogni anno mi sono trovato in questa situazione, sono stato il solo a sostenere che non è promuovendo chi non lo merita e facendo lievitare i voti che si aiuta la formazione degli alunni, sono anzi convinto che li si danneggia e non li si prepara ad affrontare gli impegni della vita. Ma si sa che in “democrazia” (con le virgolette) vince sempre la maggioranza, anche quando è formata da incoscienti e da opportunisti; perciò non resta altro che rassegnarsi ed attendere la pensione, che per me non è più molto lontana.

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Le strane nomine dei commissari per l’esame di Stato

Dopo una lunga attesa, finalmente lo scorso 3 giugno il Ministero ha reso nota la composizione delle commissioni per i prossimi esami di Stato della scuola media superiore. Il ritardo rispetto alle date consuete avrebbe dovuto farci presagire qualcosa di strano che sarebbe accaduto ma che purtroppo io, nella mia ingenuità, non avevo previsto. Quando poi si sono potuti leggere i nomi dei commissari ci siamo accorti che il Ministero stesso ha clamorosamente trasgredito una norma scritta sempre rispettata negli anni precedenti, quella cioè di non nominare docenti all’interno dello stesso distretto scolastico di appartenenza. Quest’anno invece, con mia grande meraviglia e un po’ di sgomento, ho notato che le nomine dei commissari esterni sono state fatte quasi tutte “sotto casa”, in scuole cioè vicine o vicinissime a quella di titolarità, spesso persino ubicate nello stesso edificio! Una decisione assurda e ridicola che renderà ancor meno trasparente e meno serio l’esame di Stato, che già con la situazione precedente mostrava chiaramente i suoi limiti. Adesso il prof. Tizio, nominato nella scuola adiacente alla propria, sicuramente conoscerà i colleghi Caio e Sempronio di quella scuola, e probabilmente conoscerà anche alcuni alunni, cui non di rado avrà impartito anche lezioni private; in questo caso, pur di non perdere la nomina, molti colleghi dichiareranno tranquillamente il falso, cioè di non conoscere i candidati e di non averli preparati individualmente, e così l’esame si trasformerà in una ridicola farsa dove si fingerà di correggere seriamente gli elaborati scritti, di far domande serie ed impegnativi ai ragazzi, i quali in realtà – in molti casi – conosceranno in anticipo i quesiti e le richieste che saranno loro rivolte. Tra scuole limitrofe, dello stesso distretto, la logica del quieto vivere dominerà su tutta la linea, perché nessuno vorrà mettersi in urto con dei colleghi che conosce, di cui magari ha avuto i figli come alunni e con i quali ha lavorato a stretto contatto fino all’anno precedente.
Se finora si è a lungo discusso sulla serietà e sull’effettivo valore di questi esami, oggi il problema si pone con ancor maggiore evidenza, poiché è chiaro che i nostri politici, pur di tagliare sulla scuola e risparmiare denaro pubblico, non si curano affatto dell’efficienza didattica e formativa del nostro sistema scolastico. L’unico e reale motivo di questa buffonata delle nomine “sotto casa”, infatti, è il risparmio economico, perché logicamente i commissari provenienti da scuole molto distanti dalla sede assegnata, pur appartenenti alla stessa provincia, vanno pagati di più; invece chi viene nominato a distanza di pochi metri riceverà un misero compenso di poche centinaia di euro e così lo Stato spenderà di meno, alla faccia della qualità della didattica ed in barba a tutti coloro che vorrebbero un esame serio ed un rigoroso accertamento delle reali conoscenze e competenze degli studenti. Bisogna riconoscere una cosa però, che il nostro ministro ed il governo di cui fa parte sono stati furbi, machiavellici direi: per spendere meno, infatti, avevano a disposizione anche un altro metodo, quello di diminuire i compensi per i docenti; ma un provvedimento del genere avrebbe scatenato proteste, scioperi e rinunce di tanti colleghi di fronte all’impegno di partecipare all’esame, e così hanno optato per una soluzione più “soft” ma altrettanto efficace, quella di nominare i commissari a pochi metri di distanza da casa, in modo da retribuirli con una miseria e cavarsela così a buon mercato.
A questo punto, però, ci coglie l’obbligo di chiederci – noi che ci illudiamo ancora e crediamo in una scuola veramente formativa – che senso abbia celebrare ogni anno questo stanco ed ipocrita rito dell’esame di Stato, che continua a costare denaro pubblico (anche se meno che in precedenza) e non offre più alcuna garanzia non dico di rigore, ma persino di regolarità. Se prima avveniva di frequente che i membri interni aiutassero sfacciatamente gli studenti suggerendo loro le soluzioni dei quesiti scritti e passando loro in anticipo le domande dell’orale, ora avverrà ancor più di frequente, perché a questa forma di prostituzione intellettuale parteciperanno anche i commissari esterni, che in realtà esterni non sono perché conoscono i colleghi (e spesso anche gli alunni) della scuola dove fanno l’esame. E per quanto io sia fermamente contrario alle commissioni formate tutte da professori interni (come era stato deciso all’inizio nella legge di stabilità) debbo dire che in fondo questa soluzione sarebbe preferibile rispetto a questa ridicola pantomima dei professori esterni che sono anch’essi interni, o quasi. Anzi, affiancandomi all’opinione di tanti altri colleghi, ritengo che la decisione migliore, visto il ridicolo nel quale siamo piombati, sarebbe quella di abolire del tutto questi esami e far decidere il voto finale al consiglio di Classe, che conosce gli studenti da almeno un anno e sa valutarli sulla base del loro rendimento scolastico ma anche del loro comportamento durante l’intero percorso scolastico. In tal modo il Governo otterrebbe un doppio risultato: avrebbe valutazioni più attendibili di quelle attuali e al tempo stesso risparmierebbe ancora altro denaro, da impiegare in qualche opera pubblica, magari una di quelle che costano miliardi, arricchiscono i corrotti e non arrivano mai alla completa realizzazione.

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Sciopero o pagliacciata?

Lo scorso 5 maggio la televisione ha ampiamente parlato dello sciopero degli insegnanti, con tanto di servizi e riprese filmate dell’evento. In queste immagini quel che mi ha colpito di più è stato il comportamento dei colleghi che formavano il corteo che ha sfilato a Roma: dai rappresentanti della classe intellettuale, quella che deve formare i cittadini di domani, io mi sarei aspettato un atteggiamento serio e composto, un corteo di persone che esponessero i loro problemi e le loro richieste in maniera sobria e compassata, come si converrebbe a persone che stanno, o vorrebbero stare, sulla cattedra. E invece cosa vedo? Urla scomposte, slogan di lontana origine sessantottina, docenti con ridicoli cappellini in testa ed altri che rumoreggiavano con fischietti e suonavano trombette da carnevale. E’ questa la serietà del corpo docente? C’è forse bisogno, per farsi sentire, di urla, fischi e strombazzamenti da stadio? Io sono rimasto allibito, perché le immagini che ho visto sembravano la rappresentazione di qualche farsa carnevalesca o di qualche festa goliardica, non certo quelle di una ordinata manifestazione della classe docente. Io non credo che fare pagliacciate di questo tipo giovino alla nostra causa, né che sortano qualche effetto da parte del governo, il quale farebbe bene a non prendere sul serio l’atteggiamento di chi sa solo urlare e fischiare, docenti che fanno la figura dei Pulcinella e non di professionisti quali sono, investiti di un compito che ha un’importanza capitale nella vita di un Paese civile. La serietà ed il dialogo pacato sono i mezzi migliori per indurre la controparte a trattare ed a prendere in considerazione le legittime richieste di una categoria; ma oggi purtroppo molti colleghi hanno abdicato alla dignitosa autorevolezza che dovrebbe caratterizzare la nostra professione, come si vede anche dall’atteggiamento da “amiconi” che molti hanno con i loro studenti, un comportamento deleterio che non è apprezzato nemmeno dai ragazzi stessi.
A proposito di studenti, ce n’erano molti anche di loro, tutti contenti di partecipare alla manifestazione per fare un giorno di vacanza in più. Prova ne è il fatto che alcuni di essi, intervistati dai giornalisti, non conoscevano affatto i motivi dello sciopero dei loro insegnanti: alcuni hanno tirato fuori il solito ritornello trito e ritrito secondo cui il governo vorrebbe distruggere la scuola pubblica per favorire quella privata (ma dove sta scritta una cosa del genere?); uno infine, ignorante ma almeno sincero, se ne uscito con una bella battuta in romanesco: “Famo sciopero pure noi, così saltamo un giorno de scola” (senza la u).
A questo punto io mi chiedo, vista la pagliacciata in cui si è risolta la manifestazione romana, che senso abbia oggi lo sciopero della nostra categoria, e se valga mai la pena di parteciparvi. Per parte mia, sono sempre più convinto nel dare a questa domanda una risposta negativa, e sono ancor più convinto, viste le immagini della tv, di aver fatto bene ad essere andato a scuola regolarmente il 5 maggio ed essermi sobbarcato le classiche quattro ore di lezione.

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La “missione” del docente

Da più parti si ripete -e lo si è sempre detto, del resto – che l’insegnamento non è un lavoro come gli altri, ma del tutto sui generis, perché organizzato diversamente: in molti casi, infatti, esso impegna il lavoratore per un numero di ore uguale o superiore a quello di altre professioni, ma anche quando, in pochi casi legati soprattutto a certe materie, il numero delle ore effettivamente lavorate è inferiore, a ciò supplisce un coinvolgimento morale ed affettivo del tutto straordinario, allorché il docente pensa a qual è la sua funzione in società, una funzione che può condizionare per tutta la vita, sia dal punto di vista culturale che da quello morale e politico-sociale, i giovani che gli sono affidati. E’ una responsabilità che non si può non avvertire, è come una voce che ogni giorno ci consiglia e ci ammonisce, portandoci ad evitare, se solo siamo capaci di ascoltarla, errori che creerebbero gravi danni ai nostri studenti e quindi alla società del domani di cui loro saranno i veri protagonisti.

Ma quali sono questi errori che un docente non deve mai compiere perché la sua “missione” sia veramente utile, quasi come quella di un filosofo o di un sacerdote? Sono molti, e tutti possiamo commetterli; l’importante però è che ci impegniamo con ogni mezzo per evitarli, e se proprio non vi riusciamo cerchiamo almeno di sbagliare in buona fede. Non posso qui elencarli tutti, e mi limiterò perciò a qualche esempio. Il primo è quello di dare agli studenti l’impressione di non essere molto entusiasti del nostro lavoro e delle discipline che insegniamo, di mancare cioè di quella che lo psicanalista Massimo Recalcati chiama “l’erotica dell’insegnamento”. E’ fondamentale e irrinunciabile, a mio parere, che il docente si riveli pienamente convinto dell’utilità di ciò che insegna, si entusiasmi nell’illustrare i suoi argomenti e mostri ai suoi studenti questo amore in forma tangibile ed evidente: soltanto così si potranno coinvolgere i ragazzi e chiedere loro legittimamente di studiare e approfondire quei contenuti, perché se chi ha l’onore e l’onere di trasmettere la cultura non è egli stesso stesso coinvolto emotivamente in quello che per tutta la vita ha studiato ed in cui deve credere, come può pretendere che gli studenti si appassionino a cose che per loro sono totalmente nuove e di cui, di primo acchito, non comprendono né l’importanza né l’utilità?

Un altro sostanziale cardine della missione del docente è il senso di giustizia, a cui studenti e genitori tengono moltissimo. Non bisogna mai e per nessuna ragione fare discriminazioni tra gli alunni, qualunque sia il loro aspetto, il loro carattere, la loro provenienza, le loro idee. Dal punto di vista della dignità personale e da quello della valutazione del profitto tutti i ragazzi debbono essere sullo stesso piano, tutti vanno trattati alla stessa maniera, perché non c’è nulla che offende tanto l’autostima di un giovane quanto il constatare (o anche solo il sospettare) di essere in qualunque modo penalizzato dal professore o comunque trattato in maniera diversa dai suoi compagni. Qui gli esempi potrebbero essere molti, ma ne ricorderò solo pochi: non fare mai verifiche diverse o di diversa durata sugli stessi argomenti, perché non è conforme a principi di giustizia interrogare un alunno per mezz’ora ed un altro in dieci minuti, né far svolgere relazioni o ricerche a tutti gli alunni di una classe e poi leggerne o lodarne solo alcune, oppure (ed è un caso questo che talvolta accade, purtroppo) classificare gli alunni in base al voto che più frequentemente riportano e restare legati a quel voto anche se le prestazioni cambiano: ci sono così gli studenti “da otto” che, anche se hanno fornito una prova di valore inferiore, al massimo scendono a 7, e ci sono quelli “da quattro” i quali, anche se migliorano, non superano mai il cinque. Questi casi, in realtà, sono molto più rari di quanto studenti e famiglie spesso lamentano, magari per nascondere lo scarso impegno allo studio dei loro figli. Però esistono, e costituiscono una vera e propria discriminazione, della quale i ragazzi porteranno il cattivo ricordo per tutta la vita, e sarà per loro sempre motivo di accusa e di sfiducia nell’istituzione scolastica; per questo ho sempre pensato che il senso di giustizia sia la componente di maggior peso di quella che ho definito la “missione” del docente, addirittura più importante della preparazione culturale nelle proprie discipline.

Infine, e con questo concludo anche se ci sarebbero altre cose da dire (magari in un prossimo post), un docente che sia veramente consapevole dell’importanza e della delicatezza della sua professione, deve cercare di essere sempre presente a scuola, di fare cioè meno assenze possibile; per questo io sono stato sempre fortemente contrario al doppio lavoro, al fatto cioè che certi professionisti (ingegneri, avvocati, tecnici vari ecc.) insegnino soprattutto per maturare la pensione e garantirsi una cifra mensile sicura, e che spesso siano assenti perché impegnati nell’altra attività. In questo caso la scuola diventa un ripiego, ed io non dico che sia sempre così, ma in tanti casi lo è; e questo è un grave errore, perché gli studenti hanno diritto a relazionarsi con persone che si dedicano loro a tutto tondo; e d’altro canto l’insegnamento, se ben professato, non lascia spazio ad altre attività, perché assorbe completamente chi vi si dedica con spirito di “missione”. Qualche volta però anche lo zelo eccessivo può provocare inconvenienti, come è capitato, proprio in questi giorni, al sottoscritto: colpito da una brutta influenza, l’ho trascurata per alcuni giorni continuando ad andare a scuola anche con il raffreddore e la febbre perché ritenevo di avere impegni inderogabili, ed il risultato è stato l’insorgere di complicanze che mi costringeranno a cure più lunghe ed a restare a casa per un tempo maggiore. Ma tant’è: gli errori li facciamo tutti, come dicevo all’inizio: l’importante è farli in buona fede, o comunque credendo di far bene.

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Perché dico no alle gite scolastiche

Primavera: è tempo di gite scolastiche, o meglio, come le chiamano adesso per nasconderne il carattere ludico, di “viaggi di istruzione”. In ogni scuola gli alunni sono trepidanti e ansiosi di partire, perché per loro la “gita” rappresenta un momento di assoluta libertà, non solo dagli impegni scolastici ma anche dalla sorveglianza dei genitori; invece i poveri docenti che, nonostante le enormi responsabilità che si assumono, hanno deciso di accompagnare gli alunni nel viaggio, si sentono anch’essi in preda all’ansia, ma per un altro motivo: il timore cioè che durante il viaggio accada qualcosa di spiacevole a causa del comportamento degli studenti. E’ ben noto infatti, ed è inutile nascondercelo, che non basta l’aver cambiato nome alle gite scolastiche per eliminare o ridurre i rischi ad esse connessi o per limitare il coinvolgimento dei docenti, i quali, secondo le norme esistenti, portano tutta intera sulle loro spalle, per 24 ore su 24, la responsabilità civile e penale di quanto può succedere. Per i ragazzi invece la gita è un’occasione di “sballo”, nella quale la trasgressione, carattere genetico dei giovani di tutte le generazioni, diventa la normalità: durante il giorno si visitano i musei, le pinacoteche, i monumenti ecc., e certo nessuno si rifiuta di rendere omaggio a quello che è il contenuto culturale di queste iniziative. Ma la notte? Gli studenti ovviamente vogliono uscire dall’albergo che li ospita, frequentare “pubs”, birrerie e discoteche, e spesso i docenti si sottopongono di buon grado a questo supplizio di doverli accompagnare in questi luoghi famigerati, con la promessa di tornare in albergo ad una certa ora. Solo che spesso gli studenti, anche dopo l’ora del ritiro, escono di nuovo di nascosto agli insegnanti che, poveretti, avranno almeno il diritto di dormire qualche ora. O no? E spesso in queste uscite clandestine fanno uso di alcool o peggio, e si espongono anche a pericoli, perché si trovano in città che non conoscono e a contatto con persone di cui non sanno le vere intenzioni. Ma anche coloro che restano in albergo possono provocare problemi con i gestori per il troppo rumore che fanno, o esporsi anche lì a pericoli magari saltando sui cornicioni per passare da una camera all’altra dopo il “coprifuoco” all’ora stabilita. E di tutto ciò le conseguenze, a volte anche drammatiche, ricadono sui docenti accompagnatori, non difesi né sostenuti da nessuno, né dalla legge (che è tutta contro di loro), né tantomeno dai genitori degli alunni, che molto spesso, quando vengono a conoscenza delle malefatte compiute in gita dai loro figli, si affannano a difenderli, a dire che sono stati trascinati dai cattivi compagni e che, se pur hanno combinato qualche pasticcio, non è poi così grave da meritare una punizione; qualcuno anzi si spinge persino a dire che se gli studenti, durante il viaggio, si sono comportati male, la colpa è dei professori che non li hanno sorvegliati abbastanza, come se spettasse a costoro, e non alla famiglia, trasmettere ai ragazzi i più elementari princìpi della correttezza e dell’educazione.
Per questi motivi, ma soprattutto per la gravissima responsabilità civile e penale che i docenti si assumono quando accompagnano le gite, io ho deciso ormai da molti anni di non parteciparvi a nessun titolo, fatta eccezione per qualche uscita giornaliera che non comporti il pernottamento fuori sede, che pure è sufficiente per visitare luoghi di interesse artistico e culturale di cui il nostro Paese è ricco in ogni sua parte. Mi sembrerebbe anzi opportuno, considerati i problemi che ne derivano, che tutte le scuole abolissero i cosiddetti “viaggi di istruzione”, almeno fino a quando gli studenti non si mostrino maturi e consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni. Va anche detto, del resto, che la “gita” scolastica non ha più la funzione che aveva molti anni fa, quando costituiva per un giovane forse l’unica occasione per uscire dal paesello in cui abitualmente viveva; oggi, al contrario, i giovani hanno tante possibilità di viaggiare, con le famiglie e con gli amici, e non c’è quindi alcun bisogno che le scuole si accollino questi oneri e queste responsabilità che possono condurre i docenti anche a trovarsi in seri guai giudiziari. Se gli studenti vogliono viaggiare senza controlli e senza regole, lo facciano da soli, si prendano del tutto le loro responsabilità senza coinvolgere altre persone che già hanno abbastanza problemi per conto loro. Abolire le “gite”, inoltre, sarebbe un atto di coraggio e di protesta dei docenti assai più efficace dello sciopero, diventato ormai uno strumento di lotta obsoleto e, nel nostro caso specifico, inutile.

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Gli studenti e la traduzione dalle lingue classiche

Questa mattina, mentre i miei studenti si stavano cimentando con il compito di greco, io li osservavo affannarsi tra il dizionario ed il foglio protocollo, e mi chiedevo se ancora oggi, nel 2015, valga la pena di sottoporre gli alunni a questo tipo di esercizio, che per loro diventa sempre più difficile e gravoso. Lo provano i risultati deludenti di ogni prova di traduzione dal latino e dal greco, in cui, tranne tre o quattro alunni per classe, tutti gli altri falliscono più o meno miseramente; e se alcuni, pur compiendo diversi errori, mostrano comunque di aver compreso il significato generale del brano che è stato loro assegnato, altri non riescono neppure a rendersi conto di che cosa stavano leggendo e tentando di tradurre. Intendiamoci, la traduzione dalle lingue classiche non è mai stata facile, neanche cinquant’anni fa; ma allora si iniziava a studiare latino alla scuola media, veniva effettuato in quella scuola (ma anche alle elementari) uno studio approfondito e sistematico della lingua italiana, gli strumenti di diffusione della cultura erano soltanto i libri e quindi la lettura era il mezzo essenziale con cui ci si approcciava ai testi. Oggi tutto questo non esiste più: alla scuola primaria lo studio linguistico si è fortemente ridotto fin quasi a scomparire soppiantato da una serie di progetti e attività che nulla hanno a che vedere con le strutture della lingua italiana, e soprattutto si è diffusa la cosiddetta “civiltà dell’immagine” che, mediante la tv, i computers, i cellulari ecc. presenta al bambino ed al ragazzo una serie di informazioni già pronte e immutabili. Ne deriva che il ragionamento autonomo, l’intuito, la capacità di operare scelte concettuali, cioè proprio le qualità che occorrono per tradurre bene dal latino e dal greco, si sono talmente ridotte da atrofizzarsi, proprio come avverrebbe se una persona, ad esempio, si legasse un braccio al collo per vent’anni: una volta sciolto, quel braccio non potrebbe più essere utilizzato. Si è creata perciò nelle scuole dove ancora le lingue classiche vengono studiate (licei classico e scientifico soprattutto) una situazione di grave imbarazzo per docenti e studenti, i quali, se svolgono onestamente il loro lavoro, sono costretti a rimediare con l’orale (specie con lo studio della storia letteraria) un risultato degli scritti che non soddisfa mai. Ma molti alunni, a nord come a sud, si sono attrezzati per risolvere il problema copiando i compiti da internet con il cellulare, mentre i docenti sempre più “tirano a campare” fingendo che il problema non esista e persino, in qualche caso, lasciando copiare i propri studenti o aiutandoli sconciamente all’esame di Stato. Il problema è macroscopico e diffuso ovunque: proprio oggi, tanto per fare un esempio, ho ricevuto un commento al mio blog di una signora, madre di un alunno di un liceo classico, la quale denuncia che nella scuola del proprio figlio tutti copiano i compiti da internet, ed i prof. fanno finta di non accorgersene. Questa, a casa mia, si chiama ipocrisia e squallido opportunismo. E i politici non sono da meno: qualche anno fa il sig. Profumo, ministro dell’istruzione dello sciagurato governo Monti, fu interpellato proprio su come risolvere la questione dei cellulari usati durante i compiti e gli esami. Rispose di non avere la mentalità dei servizi segreti, il che equivale a dire che lui si chiamava fuori da ogni possibile intervento.

Ma allora come si può uscire da questo ginepraio, da questa ipocrisia che inficia le nostre scuole ed il rapporto stesso tra alunni e docenti? Anzitutto occorre partire dalla constatazione – dolorosa ma veritiera – che i ragazzi di oggi, per i motivi detti prima, non sono più in grado di tradurre decentemente dal latino e dal greco, e che questa nobile attività è ormai diventata un lavoro da esperti filologi, non da comuni studenti. Se i nostri politici, che pur danno mostra di voler riformare la scuola ad ogni piè sospinto, si rendessero conto di questo, potrebbero risolvere loro il problema, e a costo zero. In che modo? Cambiando finalmente la seconda prova scritta d’esame del liceo classico, la quale, nonostante tutte le promesse e i discorsi avveniristici dei vari ministri che si sono succeduti, è rimasta ancora come 90 anni fa, ai tempi di Gentile: una versione unica e insindacabile dal latino o dal greco, che oltretutto a volte è molto difficile, come ad esempio quella di tre anni fa, un brano di Aristotele praticamente incomprensibile per i ragazzi, che mise in difficoltà perfino i docenti liceali e universitari. Assegnare brani del genere agli studenti di oggi è pura follia, che può spiegarsi solo in due modi: o con l’incompetenza assoluta di chi sceglie questi brani da tradurre o con la malcelata volontà di distruggere il Liceo Classico a vantaggio di altre scuole. Con questo sospetto io mi pongo una questione: perché la seconda prova di altri licei (vedi lo scientifico) è stata più volte modificata mentre quella del classico resta sempre la classica traduzione che la maggior parte dei nostri alunni non è in grado di svolgere se non copiando con il cellulare o con l’aiuto di professori compiacenti? Si dice da ogni parte che la scuola deve adeguarsi alla realtà attuale. Benissimo. Allora cominciamo a sostituire la vecchia “versione” con qualcosa di diverso, tipo un’analisi linguistica e storico-letteraria di un testo già tradotto, una serie di quesiti di letteratura o altro che dir si voglia. Da parte mia, consapevole del problema, ho già scritto più volte al Ministero per attirarvi l’attenzione di chi di dovere, ma non ho mai ricevuto risposte adeguate. Se da parte ministeriale si aprissero finalmente gli occhi alla realtà e si modificasse la seconda prova scritta d’esame del Liceo Classico, noi docenti continueremmo certamente lo studio delle lingue classiche, ma per applicarlo sostanzialmente all’analisi dei testi degli autori ed alla conoscenza di questo importante aspetto del mondo antico, ma non saremmo più costretti a imporre sistematicamente queste traduzioni dall’esito spesso disastroso fingendo di non vedere la realtà, cioè che gli alunni non sono in grado di svolgerle e che, di conseguenza, tentano di trovare il modo di aggirare l’ostacolo. Del resto io ho sempre sostenuto, molto prima che si diffondesse la moda delle copiature con i cellulari, che la traduzione dal latino e dal greco, pur essendo un esercizio utile, non può essere considerata l’unica forma di accertamento delle conoscenze degli studenti nei riguardi di queste discipline: esistono in esse altri aspetti, come gli argomenti di storia letteraria ed i valori umani espressi dagli scrittori antichi, che resteranno certamente più a lungo nel bagaglio culturale degli studenti una volta usciti dal liceo rispetto alle competenze linguistiche. Ma di ciò i più fingono di non avvedersi e continuano a nascondere la testa sotto la sabbia e ad avallare comportamenti che sono invece da censurare e che limitano fortemente la valenza educativa e formativa della nostra scuola.

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La questione dei compiti a casa

Poiché questo mio blog è stato istituito per ospitare riflessioni di ogni genere, io mi propongo molto spesso di non parlare soltanto di questioni inerenti al mio lavoro di docente, ma di argomenti diversi e forse anche più interessanti. E tuttavia, nonostante questo proposito, mi capita di leggere e di sentire così tante stupidaggini sulla scuola (anche da parte di chi meno dovrebbe dirle!) che non posso fare a meno di tornare quasi sempre sugli stessi problemi. Certe cose non si possono passare sotto silenzio, al punto che, anche a non aver voglia di scrivere, le parole escon fuori quasi da sole. Potrei dire, parafrasando un noto poeta latino, che si natura negat, facit indignatio versum, ossia che, se anche il mio carattere non volesse farlo, è lo sdegno per quel che sento dire che mi induce a sfogare qui sul blog il mio dissenso.
E’ questo il caso della polemica, di recente rinnovata sulla stampa e sostenuta anche dall’attuale Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, contro i compiti a casa assegnati dai professori agli studenti, che da tale attività sarebbero oppressi e tormentati, soprattutto da quando si è scoperto che i loro coetanei degli altri Paesi d’Europa (guarda caso!) dedicano meno tempo di loro allo studio; risulterebbe infatti da un indagine dell’OCSE (organismo internazionale di studi economici) che gli alunni italiani passano in media 9 ore alla settimana sui libri, contro le 4 o 5 della media europea.
Facciamo subito una breve osservazione. Se le 9 ore di impegno domestico dei nostri studenti riguardassero soltanto i compiti scritti (esercizi di italiano, matematica, latino, inglese ecc.) allora sembrerebbero anche a me un po’ eccessive; ma se invece si riferiscono, come pare, al totale delle ore dedicate all’insieme delle materie scritte ed orali, allora non mi pare affatto che siano troppe. Si tratta, in pratica, di una media di poco più di un’ora al giorno, che non può esser considerata eccessiva o pesante; di tempo per divertirsi, uscire, fare sport e ciondolare sui social network ce n’è più che in abbondanza, come ognuno può constatare. E poi il discorso è diverso a seconda dell’età degli studenti: per un bambino di 6-7 anni un impegno di questo genere può anche essere gravoso, ma non lo è certamente per uno studente di scuola superiore, per il quale appare persino troppo esiguo, perché con un’ora o un’ora e mezzo al giorno non si può esaurire l’impegno richiesto dal complesso delle materie di ciascun istituto, a meno che non si voglia restare nell’ignoranza.
E qui appunto arriviamo al nocciolo della questione. Se nel resto d’Europa gli studenti sono meno impegnati, non mi pare che di per sé questo sia un motivo di vanto, anzi, caso mai è il contrario. Va poi considerato che le ragioni di questo fenomeno possono essere più d’una: anzitutto in molti paesi europei il tempo-scuola si prolunga anche nel pomeriggio, ed è quindi ovvio che gli allievi, sopo aver passato nel proprio istituto dalle sei alle otto ore al giorno ed avervi svolto anche attività di esercizio e di ripasso, abbiano meno lavoro domestico da svolgere. In certi paesi poi (v. la Gran Bretagna) è stata fatta una scelta didattica a mio avviso molto discutibile, quella cioè di ridurre il curriculum ad un numero molto basso di materie, prefigurando una preparazione piuttosto settoriale e non omogenea; così l’impegno degli studenti è minore, ma la loro preparazione conclusiva è certamente più superficiale e meno globale di quella dei nostri alunni. Io non ho mai creduto alla favola secondo cui gli studenti italiani sarebbero tra gli ultimi in Europa e nel mondo, anzi sono convinto del contrario: lo sostengo in base al fatto che ho conosciuto molti studenti e docenti stranieri in occasione di scambi culturali che la mia scuola ha effettuato con istituti francesi, inglesi, irlandesi, americani e persino australiani. In queste occasioni ho più volte constatato un’ignoranza imbarazzante su argomenti che tutti dovrebbero conoscere (francesi che non sanno chi era Napoleone, per esempio, o altre perle simili); e quando i miei studenti, anche mediocri, hanno effettuato esperienze di studio all’estero con il progetto “Intercultura”, nei paesi dove si sono recati sono diventati subito i primi della classe e sono stati additati come esempio per i giovani del luogo. Certo, se le verifiche vengono effettuate con test a crocette squallidamente nozionistici, forse i nostri studenti risultano meno abili; ma se le prove si svolgessero tenendo conto della cultura generale e della capacità espressive ed argomentative individuali, i risultati sarebbero ben diversi.
Tornando al problema dei compiti a casa, ritengo la polemica nei loro confronti frutto o di crassa ignoranza o di malcelata negligenza dei genitori, i quali si irritano se i loro figli stanno troppo sui libri perché preferiscono far loro frequentare attività sportive o ludiche. Per queste persone la scuola ha la stessa importanza (se va bene) di un corso di danza o di una partita di calcio; non interessa loro la cultura, la formazione dei figli, ma soltanto il diploma o la laurea (possibilmente con buoni voti per potersene vantare con parenti e amici), da ottenere con poco sforzo e molta presunzione. Ma se invece vogliamo che la scuola, nonostante i ministri ed i giornalisti di infimo livello, svolga veramente il ruolo cui è destinata, lo studio individuale a casa diventa indispensabile e insostituibile. Come si possono apprendere discipline applicative o tecniche come la matematica, il latino, il greco ecc. senza svolgere esercizi individuali ove viene verificato e rinforzato ciò che è stato spiegato in linea teorica? Se un docente illustra ai suoi alunni il procedimento necessario a risolvere le equazioni di secondo grado, ad esempio, dovrà forse limitarsi alla formula teorica o dovrà anche far svolgere esercizi applicativi di quella formula? Ne svolgerà alcuni lui stesso, a mo’ di esempio, in classe, ma non avrà tempo, nelle ore a disposizione nell’orario scolastico, di mostrarne così tanti da far comprendere a tutti il concetto; e quand’anche ci riuscisse, è comunque necessario che lo studente si eserciti anche da solo, metta in campo le proprie personali qualità intuitive e deduttive e pervenga così alla sedimentazione, cioè alla conoscenza profonda e definitiva dell’argomento. Ma anche le materie soltanto orali hanno bisogno di un attento studio personale, per essere effettivamente assimilate; lo studente, in altri termini, può anche comprendere bene l’argomento di letteratura, di storia, di scienze ecc. illustrato dal docente durante le ore curriculari, ma se poi non lo rielabora personalmente, non studia cioè i contenuti operando una sintesi tra le parole del professore ed il libro di testo (e magari anche documentandosi da altre fonti) non giungerà mai ad un apprendimento soddisfacente. Si ricorderà grosso modo l’argomento, ma non ne conoscerà i caratteri fondanti né i dati oggettivi solo in apparenza secondari (v. le date storiche ad es.), la corretta terminologia ecc.
Su un punto della polemica, tuttavia, sono d’accordo anch’io: l’idea cioè secondo cui la parte più significativa del lavoro scolastico debba svolgersi in classe, in modo che i compiti a casa non debbano essere sostitutivi dell’operato del docente (v. la celebre frase “studiate da pagina tale a pagina talaltra”, che tutti prima o poi ci siamo sentiti dire). Non vanno mai assegnati compiti o esercizi su argomenti non trattati prima dal professore, perché se gli studenti potessero apprendere da soli sarebbe loro sufficiente comprarsi dei libri o collegarsi ad internet, senza frequentare la scuola. Prima deve venire l’impegno del docente e poi quello dello studente, non viceversa. Inoltre – ed è cosa ovvia – non bisogna esagerare nella quantità dei compiti a casa e dei contenuti da studiare, perché qualche volta è vero che gli scolari, anche quelli più piccoli, sono troppo oberati di lavoro, come ad esempio i famosi compiti per le vacanze estive, che non di rado rovinano ai piccoli villeggianti le belle giornate al mare o ai monti. Come diceva Aristotele, la virtù è il punto di incontro di due vizi opposti, il che significa, in termini pratici, che non si deve mai esagerare, né in un senso né nell’altro. I compiti a casa sono essenziali, non si possono abolire; occorre però il senso della misura, specie nei periodi di più intensa attività didattica, altrimenti c’è il rischio concreto che gli studenti li copino o addirittura non li svolgano affatto; e questo è dannoso anzitutto per loro, ma anche per il sistema scolastico nel suo insieme.

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Interrogazioni e compiti in classe: i pro e i contro

Leggendo in qua e là su internet si incontrano articoli e commenti nei quali, con la solita esterofilia tipica del nostro Paese, si deplora il sistema valutativo in uso nelle nostre scuole e si esalta quello di alcune nazioni estere (in particolare i paesi anglosassoni), dove per valutare gli alunni non si fanno compiti in classe o interrogazioni, ma si procede mediante test a crocette, questionari o la presentazione di relazioni; solo in occasione degli esami di fine corso può essere effettuata (ad esempio in alcuni Länder della Germania) una verifica orale più o meno corrispondente alle nostre. Alcuni sostengono che i metodi di valutazionde della scuola italiana siano antiquati o peggio punitivi per gli alunni: l’interrogazione tradizionale, in altri termini, provocherebbe nello studente un eccesso di ansia e di angoscia che spesso, in caso di insuccesso o di risultato insufficiente, si tramuterebbe in un vero e proprio trauma psicologico, con senso di frustrazione a danno dell’autostima ed in generale della personalità dell’adolescente.
Io sono totalmente e tenacemente contrario a queste opinioni, diffuse soprattutto tra i pedagogisti di lontana formazione sessantottina, per i motivi che spiegherò. Anzitutto, se vogliamo fare un confronto tra i test a crocette (in uso in quasi tutti i paesi d’Europa e di oltre Oceano) e le nostre vituperate interrogazioni, non si può non risconoscere che sul piano culturale e formativo sono di gran lunga più efficaci queste ultime: la semplice risposta a domande con tre o quattro possibili alternative, infatti, è totalmente nozionistica e del tutto inconcludente, non abitua lo studente a ragionare, ad argomentare ed a sapersi esprimere correttamente nella sua lingua, il codice espressivo ancor oggi più importante. Inoltre un test, in qualunque forma lo si ponga, è facilmente copiabile da uno studente all’altro e dipendente in buona parte dalla fortuna, perché la crocetta può essere apposta sulla risposta esatta anche se scelta a caso tra quelle possibili. Le nostre forme di verifica dell’apprendimento, invece, sono di gran lunga più utili ed affidabili, da ogni punto di vista: per il docente è molto più agevole, alla prova dei fatti, verificare se l’alunno si sa esprimere bene sia oralmente sia per iscritto, mentre lo studente ha la totale possibilità di riflettere, ragionare ed argomentare, rivelando così l’effettivo livello culturale raggiunto. Un tema di italiano, tanto per fare un esempio, non lo si compila crocettando a caso una serie di quesiti, ma occorre operare un lavoro di ricerca degli argomenti da trattare, disporli nel giusto ordine, elaborarli in una buona forma espressiva, tutte operazioni che richiedono capacità di scelta, di riflessione, di ragionamento autonomo e critico. Lo stesso vale per le interrogazioni dove l’alunno, posto di fronte ad una domanda, deve sapersi esprimere in modo chiaro, corretto e saper impiegare in modo estemporaneo determinati linguaggi scientifici o tecnici; tutte operazioni logiche di grande rilievo, che non solo rivelano al docente le proprie conoscenze, ma rivestono soprattutto un’utilità formativa che i test ed i questionari non posseggono affatto. Si dice che i nostri alunni siano tra gli ultimi in Europa perché per effettuare le prove valutative comuni si ricorre ai test, a cui essi non sono abituati; ma vorrei vedere quale sarebbe la graduatoria europea se gli alunni inglesi, francesi o tedeschi dovessero svolgere un tema argomentativo o una verifica orale seria ed organizzata su molte discipline. Ne vedremmo delle belle!
Quanto al carattere deterrente e vessatorio che le classiche interrogazioni avrebbero, occorrerà fare una precisazione. In qualche caso questo potrebbe anche essere vero, quando il docente non conduce la verifica nel modo dovuto o pretende più di quanto gli studenti possano e debbano dare. Io sono convinto che l’interrogazione sia una normale prassi del percorso scolastico e che come tale vada intesa, evitando l’eccessiva emotività che molti ragazzi hanno a causa soprattutto della pressione dei genitori, i quali molto spesso desiderano buoni voti non tanto per il benessere dei figli, quanto per potersi vantare con gli amici ed esibire risultati che gratificano più l’orgoglio e l’autostima loro che non quella dei ragazzi. Da parte del docente, tuttavia, ritengo che sarebbe necessario seguire alcune semplici regole per rendere l’interrogazione un pacato colloquio piuttosto che un interrogatorio poliziesco, fermo restando che la valutazione dovrà comunque corrispondere alla reale preparazione degli studenti, senza regali e beneficenze per nessuno. Io personalmente mi attengo a questi semplici criteri: 1) prima ancora di iniziare le verifiche, informare gli alunni circa il loro reale peso valutativo, cercando cioè di far comprendere che un voto negativo in una singola prova non costituisce affatto una condanna definitiva, perché ci sarà comunque tutto l’agio ed il tempo per rimediare. L’interrogazione non deve essere considerata come una questione di vita o di morte, perché è proprio questo errato giudizio che scatena l’ansia e danneggia l’autostima. 2) ascoltare le esigenze della classe, distinguendo le ragioni reali dalle scuse ingiustificate. Se stiamo vivendo un periodo in cui la pressione valutativa dei singoli docenti è particolarmente forte, occorrerà essere disponibili a collocare le verifiche in modo da non far rischiare allo studente di dover preparare tre o quattro discipline per lo stesso giorno. 3) essere disponibili, se non sempre almeno nei periodi di più intensa attività didattica, ad accettare la programmazione delle verifiche e la presenza dei cosiddetti “volontari”. Lo so che così c’è il concreto rischio che gli alunni si mettano alle spalle una disciplina finché non arriva il giorno dell’interrogazione e la studino tutta insieme in uno o due pomeriggi, ma le verifiche a sorpresa hanno effetti anche peggiori, come le assenze di massa o le giustificazioni fasulle e la diffusione di un clima di terrore che non giova a nessuno. E poi, almeno nel mio caso, io interrogo su tutto il programma svolto, quindi se anche le verifiche sono programmate ciò non esime lo studente dal doversi preparare in modo organico e completo. 4) Durante l’interrogazione, porre allo studente domande chiare e ben collegate al lavoro effettivamente svolto, senza divagare o pretendere intuizioni geniali. Nei casi di alunni particolarmente bravi è anche possibile porre quesiti più complessi e per i quali c’è bisogno di un’elaborazione critica dei contenuti, ma in altri casi ciò non è auspicabile. 5) Lasciar parlare lo studente, senza interromperlo continuamente, magari per “fargli lezione” durante la verifica. Solo se si smarrisce e non riesce più ad orientarsi, il docente dovrà intervenire cercando di riportarlo all’argomento richiesto o ponendogli la domanda in modo diverso. 6) astenersi da qualunque atteggiamento punitivo o peggio derisorio nei confronti dello studente. Se non è preparato, se non ha studiato, prenderà un voto negativo, questo non si discute; ma la dignità personale e l’autostima di ciascuno vanno sempre rispettate. Non ha molto senso dire con aria severa “Ma io questo l’ho spiegato!”, oppure “Sul libro c’è”, perché affermazioni simili hanno un effetto deprimente, non aiutano lo studente a comprendere il proprio esito didattico, che sarà ben chiarito dal voto finale. 7) Non discutere mai con gli studenti il voto dell’interrogazione. E’ il docente che decide, con il massimo senso di giustizia e senza fare alcuna distinzione tra i suoi alunni, i quali spesso non si rendono bene conto del loro rendimento. Perciò non vanno assolutamente accettate contestazioni o proteste, perché se è vero che lo studente deve essere messo a suo agio il più possibile nel sostenere la prova, è altrettanto vero che la valutazione compete al docente e soltanto a lui.
Con queste semplici annotazioni non ho inteso fare scuola a nessuno, perché ciascuno ha le proprie convinzioni ed in base a quelle deve agire; ho voluto soltanto esternare quello che è il mio personale metodo di lavoro nell’ambito della valutazione, un metodo che deriva da quasi 35 anni di esperienza di insegnamento e che, almeno fino a questo momento, sembra aver dato buoni risultati, visto il giudizio che ne hanno espresso fino ad ora studenti e genitori.

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La pagella per i prof.

Augusto Cavadi, filosofo e docente di liceo con un’anzianità di 40 anni, ha pubblicato di recente (il 16 ottobre) un articolo su “Repubblica”, sezione di Palermo, in cui prende parte al dibattito, molto attuale, circa la tanto discussa valutazione delle scuole e dei docenti. La sua proposta, apparentemente provocatoria, mi pare invece attuabile più di altre e soprattutto molto concreta: poiché infatti egli ritiene che ogni docente debba fare carriera in base al merito e non all’anzianità, e che nessuno possa arrivare in cattedra se non per meriti accertati e non tramite sanatorie, avanza la proposta di compilare una “pagella” per ciascun docente in ogni scuola, allo scopo di distinguere i professori veramente preparati e impegnati nel loro lavoro da coloro che avrebbero dovuto scegliere un altro mestiere. Consiglia pertanto di formare commissioni costituite da un docente del consiglio di classe, un rappresentante del personale ATA, un genitore e tre studenti, o meglio tre ex-studenti, che abbiano lasciato la scuola di appartenenza da non più di tre anni. A questi studenti andrebbero rivolte una serie di domande che porterebbero, in base alle risposte, ad assegnare dei voti ai professori e stilarne quindi la pagella. Le domande suddette potrebbero essere, ad esempio: “Il tuo prof. era puntuale a lezione?” “spiegava in modo appassionato o svogliato?”, “faceva monologhi eruditi o si faceva capire bene dagli alunni e li coinvolgeva nella spiegazione?”, “utilizzava bene l’ora a disposizione?”, “era veloce nella revisione dei compiti scritti?”, “sapeva instaurare un buon rapporto con la classe, in modo da evitare sia l’instaurazione di un clima di terrore sia il lassismo e l’indisciplina?”. Secondo Cavadi le risposte più attendibili le fornirebbero gli studenti usciti dalla scuola da non meno di un anno (perché in caso contrario potrebbero avere ancora simpatie o risentimenti verso alcuni docenti), e da non più di tre, perché un tempo troppo lungo potrebbe offuscarne la memoria.
Debbo dire che fino ad ora non conoscevo se non di nome il prof. Cavadi, ma il suo articolo mi trova sostanzialmente d’accordo, tranne che sulla composizione della commissione per la pagella ai professori: non vedo infatti cosa c’entri in essa la partecipazione del personale ATA, che, con tutto il rispetto, non ha certo la competenza per giudicare il lavoro dei docenti. Io vedrei volentieri in questa commissione, oltre al genitore ed agli ex studenti, anche il dirigente scolastico e un docente anziano della scuola che appartenga al medesimo ambito disciplinare del docente da valutare. Chi infatti meglio del Dirigente e dei colleghi anziani può giudicare l’effettivo valore di ogni docente della scuola, che essi conoscono certamente per esperienza? Sono invece d’accordissimo nell’affidare questo compito agli ex-studenti e non agli studenti in corso, perché questi ultimi hanno sì la capacità, ma non la maturità necessaria per giudicare oggettivamente i loro insegnanti. Mi spiego: i ragazzi sanno benissimo chi dei loro professori è più o meno efficace didatticamente, ma sono condizionati dalle valutazioni loro assegnate, alle quali tengono moltissimo: se quindi dovessero dare un parere sui loro insegnanti, non favorirebbero i migliori, ma quelli che danno loro i voti più alti e che li fanno studiare di meno. E non mi si dica che non è vero, perché tutti abbiamo avuto 15-17 anni, e tutti ci saremmo comportati così; una volta usciti dalla scuola, invece, le cose cambiano e lo studente, quando è ormai giunto all’università o nel mondo del lavoro, si rende conto che i docenti didatticamente più validi erano proprio quelli che assegnavano voti bassi e facevano studiare di più, perché solo così si crea la preparazione e la formazione culturale della persona umana. Basta parlare con un ex studente e ci accorgiamo subito che non ha alcuna stima per quei professori che assegnavano voti sufficienti per principio, perché di quelle materie, non essendo stato costretto a studiarle, non ricorda nulla; apprezza invece proprio quei professori che, con la minaccia del voto negativo, costringevano gli alunni a studiare, perché solo così si riesce ad imparare qualcosa.
E’ certo comunque, al di là della proposta di Cavadi, che la valutazione dei docenti andrebbe effettivamente realizzata, perché è profondamente ingiusto e nocivo per l’intera comunità nazionale il fatto che continuino a restare in cattedra persone incompetenti o peggio demotivate, giacché è palese che il primo che deve dimostrare entuasiasmo ed interesse per le proprie discipline è proprio il professore, altrimenti non si può pretendere che gli studenti, che sono in età adolescenziale e quindi estremamente fragili, studino con impegno e volontà. A parer mio, tanto per dirne una, non si dovrebbe permettere ai docenti di esercitare altre attività lavorative (studi legali, professionali ecc.), ma dovrebbero dedicarsi totalmente all’insegnamento, perché è una professione che, se fatta bene, assorbe talmente tante energie da non lasciare spazio ad altro. Ed è una vera e propria catastrofe, secondo me, anche l’intenzione del governo di assumere 150.000 precari senza sottoporli ad un concorso serio e selettivo che ne accerti la reale disposizione all’insegnamento e l’oggettiva preparazione nelle loro discipline. Le immissioni in ruolo “ope legis”, cioè le sanatorie, non esistono in altri ambiti: chi assumerebbe un chirurgo o un pilota di aerei senza un preventivo accertamento delle sue capacità? Alle sanatorie si è fatto invece ricorso – purtroppo – nella scuola italiana molto spesso, a partire dagli anni ’70, e ciò ha provocato disastri inenarrabili, mettendo in cattedra persone assolutamente inadatte a questa professione, che è sì stancante, usurante e difficile, ma anche fondamentale per ogni Paese che voglia definirsi moderno e civile, e non meno importante di quella del chirurgo o del pilota.

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Osservazioni sugli esami di Stato 3. Dalla parte degli studenti

Ho già dimostrato, nel primo post di questa “trilogia” sugli esami di Stato della scuola superiore, che l’impegno degli studenti è gravoso, dovendo essi essere preparati sui programmi dell’intero anno scolastico conclusivo in quasi tutte le materie del loro corso. Questa formula d’esame, inaugurata nel 1999 dall’allora ministro Berlinguer, non è affatto semplice, ed i risultati spesso positivi non debbono ingannare chi non è addentro alla questione. Qui però desidero affrontare un altro argomento, collegato ai primi due, e cioè: come vivono gli studenti questa prova che debbono affrontare? Vi si avvicinano nel modo corretto oppure compiono degli errori di prospettiva piuttosto gravi?
Ovviamente la risposta a quest’ultimo interrogativo è sì, e vediamo perché. Il primo e più diffuso errore degli studenti, a ciò abituati da un andazzo facilone che esiste nel nostro Paese dai tempi del ’68, è quello di pensare che la promozione sia cosa certa e scontata. Non è così: la commissione d’esame, per promuovere un alunno, deve avere comunque degli appigli, dati dalle prove scritte o da quelle orali; se questi punti di forza non ci sono, se cioè vengono fallite sia le prove scritte che il colloquio, la bocciatura è nella logica delle cose, è probabile e del tutto corrispondente alle leggi vigenti. Anzi, è più facile adesso che con il vecchio esame, perché allora veniva fatto un bilancio al 50 per cento (o quasi) tra i risultati ottenuti nel corso degli studi e quelli delle prove d’esame, per cui uno studente, se pur aveva avuto qualche esito positivo in precedenza, poteva salvarsi; ma oggi il voto finale è dato da una pura somma di voti, in cui il credito scolastico (che rappresenta appunto l’andamento dei tre anni precedenti) conta solo per il 25 per cento; se quindi tale punteggio, sommato a quello delle prove scritte ed orali d’esame, non raggiunge i 60 centesimi, lo studente è bocciato e non c’è nulla da aggiungere o da rimarcare.
Un altro diffusissimo errore degli studenti è quello di sottovalutare l’esame e non prepararlo nel modo dovuto. Alcuni di loro pensano che sia sufficiente conoscere il proprio argomento iniziale (la cosiddetta “tesina”), che è invece sempre meno valutata dalle commissioni attuali. La tesina non ha alcuna influenza sulle prove scritte, mentre al colloquio le sono riservati, di norma, i primi dieci minuti, dopo di che si passa alle domande specifiche su tutte le materie. Molti studenti, appunto, non prendono in considerazione questo dato di fatto e si presentano all’esame con una preparazione raffazzonata e spesso superficiale, senza tener presente che debbono portare il programma di un intero anno scolastico di quasi tutte le materie del loro corso. Che questo sia un atteggiamento molto comune si nota anche dal fatto che mentre noi, che pure (lo ripeto) avevamo un esame molto più semplice e basato su due sole materie scritte e due orali, passavamo pomeriggi e notti a studiare e spesso non frequentavamo più la scuola nel mese di giugno proprio per prepararci, gli studenti attuali vengono a scuola fino all’ultimo giorno (anche per organizzare festicciole e perdere tempo) e si fanno vedere di pomeriggio in giro per i luoghi di divertimento, come se l’esame non ci fosse o non toccasse proprio a loro.
Il terzo e gravissimo errore di studenti e genitori è quello di non avere un’esatta consapevolezza della propria preparazione. Molti si illudono di essere preparati, di sapere tutto, di fare bella figura, e invece poi subiscono all’esame un’amara delusione. Certe persone, anche durante l’anno scolastico, sono convinte di essere brillanti e di avere capacità che in realtà non hanno; ed in questo campo specifico i genitori sono peggiori degli studenti, perché molti di loro credono erroneamente che il loro figlio sia un genio, un Einstein in miniatura, salvo poi scoprire a loro spese che non è così. Questo accade anche perché i genitori proiettano sui figli le loro frustrazioni, pretendono di veder raggiunti da loro i traguardi ch’essi non sono stati capaci di raggiungere nella vita, e finiscono per sopravvalutarli; perciò, se poi i risultati non sono quelli sperati, ne consegue una forte delusione e una colpevolizzazione dei professori, che diventano così il capro espiatorio. La colpa è sempre dei professori, specie dei membri interni che non hanno sostenuto abbastanza il povero studente. E non si rendono conto, invece, che spesso non c’era nulla da sostenere, che di fronte a prove miserevoli non c’è nessuno che possa falsare la realtà di fatto.
In conclusione, alla fine dell’esame non c’è nessuno che sia contento del voto ricevuto, perché tutti erano convinti, nella loro presunzione, di meritare di più. Questo riguarda purtroppo anche i più bravi, quelli che se ne escono con valutazioni alte, perché poi fanno i confronti con i compagni e ciascuno presume di essere più bravo degli altri, per cui il voto gli sta sempre stretto. Oltretutto c’è una falsa convinzione che gira per le scuole: che cioè lo studente bravo, che ha avuto sempre buoni risultati, debba prendere per forza il massimo dei voti, 100 centesimi. Ed invece non è così: i 100 centesimi, cioè il massimo, vanno attribuiti soltanto alle eccellenze vere e proprie, ai casi di bravura eccezionale, e non genericamente a tutti quelli che hanno avuto un buon rendimento; anche voti come 98, 96, 94, 90 e persino 85 sono alti e denotano un merito individuale di indubbio rispetto, per cui chi li ottiene dovrebbe comunque essere soddisfatto. Ed invece non è così: tutti avrebbero voluto di più, tutti (genitori e studenti, ugualmente presuntuosi) pensavano di meritare di più. E la colpa del mancato risultato di chi è? Non dello studente, che ha fallito delle prove scritte o ha detto sciocchezze varie all’orale. No. La colpa è sempre dei professori, brutti e cattivi, che non vogliono aiutare i poveri ragazzi e pretendono perfino che lo studente sappia commentare un testo o sapere quando è iniziata la prima guerra mondiale. Cosa importa conoscere queste bazzecole? Tanto c’è internet, dove si trova tutto; la scuola può andare a farsi benedire.

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Osservazioni sugli esami di Stato 2. L’infelice condizione del membro interno

Nella mia lunga esperienza di esami di Stato mi sono trovato più volte a svolgere sia la funzione di membro interno, per me obbligatoria ogni due anni perché al liceo Classico si alternano in questo ruolo il docente di italiano e quello di latino e greco, che quella di commissario esterno o di presidente di commissione; e debbo dire, in tutta sincerità, che preferisco di gran lunga questa seconda situazione, sebbene vi sia da fare un viaggio piuttosto disagiato, specie nelle giornate più calde, per raggiungere sedi situate all’altro capo della provincia.
Perché dico questo? Il presidente o commissario esterno, che va ad esaminare alunni non suoi, è molto più tranquillo dato che, non conoscendo nessuno degli studenti che esaminerà, non è al corrente del loro reale livello culturale, delle capacità, dell’impegno profuso negli studi ecc., e quindi può giudicare oggettivamente, senza troppo coinvolgimento emotivo. Dovrà solo ricordarsi che ha lasciato nella sua scuola i propri alunni, che non necessariamente sono più bravi o preparati di quelli che andrà a giudicare in un’altra sede; dovrà evitare quindi (ma non tutti lo fanno, purtroppo) di assumere atteggiamenti censori o troppo esigenti, di mettere in difficoltà i ragazzi dei colleghi ed ostentare una severità che certamente non ha mostrato l’anno o gli anni precedenti, quando ha svolto la funzione di membro interno.
E quest’ultimo invece, il malcapitato che porta all’esame i propri studenti, come si sente? Male, molto male, specie quando sa che tra i suoi alunni ci sono alcuni che mantengono le lacune accumulate in tutto il quinquennio e mai superate, alunni che il Consiglio di classe ha deciso di ammettere all’esame ma che lo affrontano tra mille paure e difficoltà. E a tal proposito aggiungo che la mia convinzione è quella secondo cui sarebbe di gran lunga preferibile evitare il buonismo deleterio che molto spesso è diffuso nelle nostre scuole, e bocciare prima (o comunque non ammettere all’esame) persone che non sono in grado di superarlo se non per buona sorte o per estremo lassismo delle commissioni. E invece si preferisce quasi sempre lasciare alla commissione d’esame le patate bollenti, sperando nella fortuna e nella clemenza della corte.
Ciò detto, torniamo a parlare dello stato d’animo del membro interno. Egli ha dentro di sé una scala di valori dei propri alunni, e logicamente vorrebbe che fosse rispettata; ma molto spesso non è così, perché succede frequentemente che chi ha sempre avuto un buon rendimento si emozioni e si perda nelle prove d’esame, così come può accadere, all’inverso, che il lavativo di turno incontri una giornata felice, abbia fortuna nelle domande rivoltegli o comunque faccia buona impressione ai commissari e ottenga così valutazioni più alte di chi si è sempre impegnato ed ha avuto per cinque anni un andamento scolastico migliore. Questo è nella logica delle cose, ma dispiace a chi ha in sé il senso di giustizia che vorrebbe fosse rispettato; e del resto non si può nemmeno insistere con i colleghi esterni facendo presente la disarmonia uscita fuori dalle varie prove, perché essi generalmente ti rispondono che dei risultati di profitto precedenti si è già tenuto conto nel punteggio del credito scolastico, e che l’esame ha una vita propria. Ma proprio qui sta l’iniquità, secondo me: con il vecchio esame, quello delle due materie scritte e due orali, si verificava un sostanziale equilibrio, nell’attribuire il voto finale, tra i giudizi che la scuola elaborava circa l’andamento dello studente negli anni precedenti e le prove d’esame; adesso invece il voto conclusivo è ottenuto mediante una pura e semplice sommatoria di punteggi, nella quale il credito scolastico (cioè il punteggio dato sulla base delle medie ottenute dallo studente nei tre anni conclusivi del ciclo di studi) conta soltanto per il 25 per cento, mentre il 75 per cento deriva dalle prove d’esame. Di qui le frequenti incoerenze che si riscontrano nelle valutazioni finali, delle quali ben pochi sono contenti, ben pochi si riconoscono nel voto ricevuto.
Aggiungo un’ultima considerazione. Il membro interno, nell’immaginario collettivo, è sempre stato concepito come il paladino degli studenti, quello che li difende a spada tratta in tutte le situazioni e cerca quindi di far lievitare tutte le valutazioni; e ci sono in effetti molti membri interni che continuano a comportarsi così, suggerendo persino le risposte ai ragazzi durante le prove scritte, comunicando in anticipo le domande della terza prova o spingendo al colloquio per ottenere voti assolutamente non meritati. E su questo blog ho detto più volte perché costoro agiscono così: non tanto per il bene degli studenti, ma per se stessi, nel senso che se una classe ha buoni voti all’esame ciò è una gratificazione per i docenti che li hanno preparati durante l’anno scolastico, che così risultano più bravi. Ma io, che in molti casi la penso diversamente dalla maggioranza dei miei colleghi, non credo affatto che questo sia il compito del membro interno, ma che egli debba piuttosto cercare di far rispettare, per quanto possibile, la scala dei valori dei suoi studenti, cercando di premiare i migliori e non i peggiori. Ciò significa, in molti casi, fare il contrario di quel che si è detto sopra, cioè impegnarsi non per aumentare ma per diminuire certe valutazioni eccessive, che la commissione esterna a volte attribuisce per mancata conoscenza degli studenti, per cui – come dicevo sopra – chi si presenta bene o ha un colpo di fortuna riesce ingiustamente a passare avanti a chi si è sempre impegnato. Io credo molto nel merito individuale e odio ogni forma di ingiustizia e di massificazione, per cui chi ha sempre mostrato capacità ed impegno costante dovrebbe, a mio giudizio, ottenere i voti migliori. E non bisogna dimenticarsi che con la forma attuale dell’esame di Stato, diversamente dal precedente, il membro interno è parificato agli esterni nella commissione, deve correggere gli scritti e porre le domande al colloquio orale; è necessario perciò che sia obiettivo, che evidenzi gli errori quando ci sono e non mistifichi la realtà facendo passare per bravi e meritevoli studenti che non lo sono affatto. Ricordiamoci che la Verità paga sempre, la menzogna e l’ingiustizia sono invece prerogative delle persone meschine, non di uomini e donne che debbono essere, oltre che docenti delle loro materie, anche maestri di vita.

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Osservazioni sugli esami di Stato 1. Il perché degli insuccessi

Leggo in questi giorni, sui forum di alcuni siti specializzati ed in particolare quello di “Orizzonte Scuola”, le lamentele di molti docenti che sono stati impegnati nell’esame di Stato delle scuole superiori che si è concluso da pochi giorni. Alcuni di loro riaffermano l’assoluta necessità di cambiare la struttura dell’esame e la composizione delle commissioni, altri se la prendono con i colleghi ed i presidenti, altri addirittura invocano l’abolizione totale dell’esame stesso, considerato un’inutile fatica per docenti e studenti.
Potremmo dire anzitutto che l’esame finale dei vari corsi di studi non si può eliminare “tout court”, perché è previsto dalla nostra Costituzione; ma poi, oltre a questo dato oggettivo, la mia opinione è che esso vada mantenuto perché è l’unico momento in cui i giovani si mettono veramente in gioco, si confrontano con persone che non hanno mai conosciuto prima, imparano insomma a crescere e ad affrontare le difficoltà della vita, comprendendo finalmente (anche sulla loro pelle) che non tutto è dovuto e che occorre impegnarsi in prima persona per ottenere un qualche risultato. Sotto questo profilo l’esame ha una funzione educativa e formativa e credo quindi che vada mantenuto; resta però da stabilire se vada bene così com’è adesso o se invece andrebbe in qualche modo modificato. Lasciando da parte per il momento la questione, che non compete a noi ma agli organi legislativi, cerchiamo invece di parlare della realtà attuale restando, per così dire, con i piedi per terra, senza elucubrazioni che lasciano per lo più il tempo che trovano.
Sulla base della mia esperienza mi sembra di dover suggerire alle scuole e ai docenti di preparare meglio durante il percorso scolastico gli alunni a sostenere questo impegno. Mi spiego: ai miei tempi portavamo all’esame solo due materie scritte e due orali (che oltretutto sceglievamo noi, diciamo la verità) e pertanto, anche se la verifica su quelle materie era più approfondita di quanto avviene adesso, la struttura dell’esame consentiva però di prepararsi al meglio, perché potevamo tranquillamente trascurare tutte le discipline che non fossero quelle che avevamo scelto. Oggi non è più così. La terza prova scritta, tanto per cominciare, è per lo più organizzata nei Licei con domande a risposta aperta (con numero limitato di righe) su quattro o cinque materie e su argomenti spesso specifici che non sempre lo studente può ricordare perché magari svolti all’inizio dell’anno scolastico. Al colloquio orale, per giunta, il malcapitato deve passare, nello spazio di mezz’ora o 40 minuti, di fronte a tutti i commissari, che lo interrogano su 9-10 materie quasi contemporaneamente. Vengono ovviamente fatte poche domande per ogni materia, ma lo studente deve comunque essere preparato – e riferire in poco tempo – sui programmi dell’intero anno scolastico di tutte o quasi le discipline del suo corso di studi. Questo è molto gravoso, non possiamo negarlo, e conduce molto spesso a risultati deludenti e molto inferiori a quelli ottenuti dai ragazzi durante l’anno scolastico nelle singole materie; io stesso, da commissario interno, ho sempre verificato questa situazione, dovendo constatare che purtroppo all’esame gli studenti rendono molto meno di quanto avveniva in precedenza, tanto che spesso non sono preparati su argomenti che ben conoscevano soltanto un mese prima. A cosa dobbiamo attribuire questo fallimento? Talvolta ad uno scarso impegno degli allievi, che sottovalutano l’esame e pensano di potersela cavare con la sola “tesina”; ma il più delle volte la vera ragione dell’insuccesso è la massa pletorica degli argomenti da studiare e da coordinare tra di loro, cosa a cui non sono abituati durante l’anno scolastico, quando le verifiche scritte e orali vengono organizzate quasi a compartimenti stagni, nel senso che se una settimana c’è la verifica di storia non c’è quella di matematica, se c’è il compito di latino non si può interrogare nello stesso giorno ecc. In pratica, gli studenti non sono abituati ad orientarsi contemporaneamente su argomenti afferenti a diverse discipline, né a collegare i contenuti tra di loro: ecco perché all’esame, costretti a galleggiare in un fuoco di fila di domande diverse ed argomenti molto vasti, finiscono per annaspare e qualche volta, purtroppo, per annegare del tutto. Come si può affrontare concretamente il problema, cercando di ridurre almeno, se non di eliminare, il disastro dell’esame? Occorrerebbe cambiare la didattica dell’intero percorso quinquennale, ad esempio, dando spazio agli argomenti interdisciplinari ed abituando gli alunni a operare collegamenti e confronti, non a studiare a compartimenti stagni come se frequentassero tanti corsi diversi tra di loro. Si potrebbe anche (e qualche scuola lo fa, in verità) organizzare delle simulazioni non solo della terza prova scritta, ma anche del colloquio orale, magari al di fuori dell’orario curriculare: alcuni pomeriggi ad esempio potrebbero essere dedicati a colloqui interdisciplinari su tutte le discipline studiate, con la partecipazione di tutti i docenti del consiglio di classe. So bene che questo è un impegno aggiuntivo che non viene retribuito, ma la nostra funzione di insegnanti e di formatori ci impone di fare qualche sforzo in più per il bene dei nostri studenti e anche di noi stessi; se infatti la nostra classe – sia che abbiamo svolto o meno la funzione di membri interni – ha un insuccesso globale all’esame e voti molto più bassi di quelli che ci saremmo aspettati, è una delusione anche per noi, la constatazione di un fallimento, di una vanificazione dell’impegno che abbiamo profuso durante tutto il corso di studi. Meglio lavorare qualche ora in più, anche senza retribuzione aggiuntiva, che piangersi poi addosso per il deludente esito dei nostri studenti; meglio abituarli prima a sostenere l’esame, senza buonismo e senza ipocrisie, piuttosto che vedere poi durante le prove scritte lo sconcio spettacolo di alcuni membri interni che vanno girando per i banchi suggerendo le risposte agli alunni o che tentano di falsificare totalmente l’esito del colloquio orale proponendo valutazioni improponibili a chi non ha saputo rispondere nemmeno alle domande più elementari. La nostra dignità professionale, dico io, dovrebbe venire prima di tutto.

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