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In attesa degli scrutini

Tra pochi giorni si terranno in tutte le nostre scuole gli scrutini conclusivi dell’anno scolastico, che per me saranno gli ultimi della carriera ma non diversi da quelli precedenti, perché fino all’ultimo continuo a ritenere validi i principi in cui ho creduto fin da quando ho cominciato ad insegnare. Il primo di essi, perché fondamentale, è quello di applicare ovunque criteri di giustizia ed equità verso gli studenti, che debbono essere trattati tutti allo stesso modo, senza favoritismi né penalizzazioni, secondo la bella definizione di Cicerone, il quale afferma che la giustizia consiste essenzialmente nel “dare a ciascuno il suo”. Questo principio comporta l’attribuzione di voti positivi e lusinghieri per chi ha raggiunto totalmente o parzialmente gli obiettivi didattici stabiliti all’inizio dell’anno scolastico, ma per la stessa ragione esso determina anche l’attribuzione di votazioni basse – e quindi il debito formativo o la non promozione nei casi più gravi – per chi questi obiettivi non ha conseguito, quali che ne siano state le cause. Così dovrebbe funzionare la valutazione conclusiva per ciascun studente, ma purtroppo molto spesso non è così: per una serie di cause di varia origine molto spesso le scuole riducono al minimo, o addirittura eliminano totalmente dai quadri valutativi di fine anno i casi di insuccesso scolastico, garantendo promozioni immeritate a persone che non hanno né le conoscenze né le competenze adeguate per affrontare gli studi nella classe successiva o per sostenere l’esame di Stato.
Quali sono quindi le cause di questi comportamenti scorretti da parte dei consigli di classe, che spesso promuovono cani e porci mettendo sullo stesso piano – e attribuendo loro gli stessi voti – chi si è impegnato veramente ed ha ottenuto con le proprie forze la sufficienza e chi invece ha mostrato un’applicazione scarsa e discontinua oppure non possiede le attitudini e le capacità per seguire il percorso formativo scelto? In certi casi il buonismo verso gli studenti scaturisce da residui ideologici di un lontano passato, il “mitico” ’68, quando la promozione era d’obbligo perché bocciare era “fascista”; in altri casi tale comportamento deriva da un malinteso senso di benevolenza verso gli alunni i quali, poverini, soffrirebbero troppo se si vedessero bocciati o anche solo gravati di qualche debito, e così l’amore paterno (e più spesso materno!) dei docenti si traduce in promozioni del tutto immeritate. Poi ci sono ragioni di opportunità: se in una scuola ci sono troppe bocciature c’è il rischio, secondo l’opinione comune, che gli studenti non vi si iscrivano più, perché si sa che oggi tutti vogliono ottenere il massimo utile con il minimo sforzo, e ciò comporta la minaccia di una riduzione delle classi e dei posti di lavoro; gli insuccessi scolastici quindi danneggerebbero l’immagine esterna dell’istituto, che oggi, con la diffusione del concetto di scuola-azienda, è diventata molto più importante della qualità didattica e formativa, cui ben pochi ancora credono. Ci sono poi anche motivazioni più meschine e inconfessabili, da cui purtroppo alcuni colleghi sono condizionati: una di esse è il timore della reazione di studenti e genitori di fronte ad una bocciatura, per cui risulta molto più conveniente dare la sufficienza a tutti e restare quindi in pace con tutte le altre componenti scolastiche. In certi casi, addirittura, l’attribuzione di voti sufficienti agli studenti deriva dalla consapevolezza di certi insegnanti di aver lavorato poco e male durante l’anno scolastico, per cui è meglio non sollevare problemi e far tutti contenti, oppure anche dall’indolenza di certe persone che limitano così il proprio impegno lavorativo, perché assegnando buoni voti a tutti non sono costretti a tenere corsi integrativi e prove di recupero del debito.
Questa è la triste realtà, purtroppo, per cui gli scrutini si riducono spesso ad una farsa dove sembra di trovarsi al mercato delle vacche e dove si gioca continuamente al rialzo, nel senso che i docenti fanno a gara ad aumentare i propri voti per far raggiungere agli studenti medie e crediti di alto livello, nella falsa convinzione che la scuola migliore e più formativa sia quella che ha il maggior numero di successi scolastici. E invece spesso, a mio parere, è vero l’esatto contrario, perché la scuola migliore è quella che garantisce la miglior formazione e applica la giusta selezione tra gli studenti, perché se non c’è selezione non c’è neanche qualità. Oserei anzi dire, soprattutto a beneficio dei buonisti ideologici e di quelli che agiscono per “umanità”, che la promozione immeritata non va affatto nell’interesse dello studente, non lo aiuta affatto ma anzi, al contrario, lo danneggia,e per due motivi: primo, perché lo illude di avere conoscenze e competenze che non ha e lo costringe ad una serie di insuccessi ed umiliazioni che subirà l’anno seguente, perché ammesso a frequentare una classe per la quale non ha la necessaria preparazione; secondo perché, da un punto di vista sociale, le promozioni di massa finiscono per favorire i ricchi ed i potenti, che hanno tutta una serie di relazioni sociali tali per cui, appena il figlio ha ottenuto il diploma o la laurea, trovano il modo di sistemarlo in posizioni redditizie e di grande responsabilità, mentre i figli di coloro che stanno nelle classi sociali inferiori avranno in mano soltanto un inutile pezzo di carta. Mettendo tutti alla pari, chi se ne avvantaggia è chi è già favorito dalla scala sociale; e questo dovrebbero meditare i demagoghi di origine sessantottina, che con l’idiozia dei “sei politico” credevano di avvantaggiare i proletari, mentre in realtà facevano tutto il contrario. Chi agisce così, inoltre, va anche contro la nostra Costituzione, la quale dice che “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Appunto, i capaci e i meritevoli,non tutti senza distinzione.
Ritengo quindi che la selezione nella scuola sia necessaria e vada nell’interesse degli studenti stessi e, più in generale, di un principio di giustizia ed equità che tutti dovremmo seguire. E mi fa specie che molti docenti, anche su Facebook o altri social, si lamentino di questa situazione e ne diano la colpa ai vari ministri in carica oppure, più perifericamente, ai loro Dirigenti scolastici, che impedirebbero le bocciature ed i debiti. Eh, no, cari colleghi, basta con lo scaricabarile! Se gli scrutini sono spesso una ridicola farsa la colpa è nostra, perché i ministri non sono presenti ai nostri consigli di classe, mentre il Dirigente è presente ma il suo voto conta per uno (vale doppio solo se due proposte hanno un numero pari di preferenze) e non può imporre la sua volontà a dieci docenti che possono benissimo metterlo in minoranza. Quindi smettiamola di dare la colpa agli altri per lavarci la coscienza! Se le cose vanno come vanno la colpa è nostra, inutile cercare di scrollarci da dosso le nostre responsabilità. Cominciamo ad assumercele, le responsabilità, ed a pensare che la promozione degli alunni non è un atto dovuto o un espediente per non avere fastidi, ma è il riconoscimento del raggiungimento di determinati obiettivi formativi. Chi non li ha raggiunti non ha diritto ad essere promosso, quali che ne siano state le motivazioni.

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Violenza a scuola: ricerca delle responsabilità

I recenti fatti di cronaca, corredati da disgustosi filmati come quello che abbiamo visto riferito ad un istituto di Lucca, ci inducono ad una serie di osservazioni circa i ripetuti episodi di violenza accaduti nella scuola a danno di alcuni insegnanti, insultati e persino picchiati da alunni delinquenti e da genitori irresponsabili. La pletora delle discussioni in televisione e sui giornali non aiuta molto a comprendere le radici del problema, anche perché tra le opinioni espresse continuano ancor oggi ad essere prevalenti quelle dei buonisti nostrani – dai pedagogisti, razza maledetta, ai preti – che addossano a tutti la colpa di quanto accade tranne che a coloro che sono i veri colpevoli, cioè questi teppisti che purtroppo continuano ancora ad esser presenti in gran numero e ad inquinare la scuola e la società. Il libertarismo eccessivo ha prodotto questi risultati, unito alla quasi certezza di rimanere impuniti: se infatti il Consiglio di Istituto di quella scuola ha confermato la bocciatura di tre di quei delinquenti (il Consiglio di Classe ne aveva chieste cinque), sicuramente poi i genitori faranno ricorso al TAR e otterranno la revoca del provvedimento. Non sarebbe certo né la prima né l’ultima volta che questo succede, a causa dell’esagerato garantismo che esiste in Italia, dove non è più lecito prendere alcun provvedimento disciplinare contro chicchessia senza la minaccia del ricorso e del conseguente ribaltamento della situazione.
Una volta accertate le precise responsabilità di quanto avvenuto, la soluzione sarebbe estremamente semplice: bocciatura ed espulsione da tutte le scuole d’Italia per gli studenti, denuncia penale e condanna ad alcuni anni di reclusione (senza condizionale né sconti di pena) per i genitori, senza alcuna facoltà di presentare appello né ricorso. In questo modo gli episodi di violenza finirebbero subito e definitivamente, ma nessuno da noi si assumerebbe l’incarico di procedere in questo senso, perché il buonismo, il “benaltrismo”, il garantismo ormai imperano in ogni campo della vita sociale, ed anch’io in altri post ho avuto occasione di ricordarlo. E’ inutile che qui mi ripeta: in questo post, infatti, non mi ripropongo di individuare la responsabilità di quanto avviene, che appartiene esclusivamente a chi mette in atto simili comportamenti, ma di ricercare le cause per le quali siamo arrivati alla situazione attuale, quella cioè per la quale i docenti non hanno più non dico il riconoscimento della loro professionalità (quello è finito da tempo) ma neanche la certezza della propria incolumità fisica.
So di ripetermi per l’ennesima volta, ma io sono certo che la “prima radice” di quanto avviene oggi in certe scuole sia da ricercare nel ’68 e nella distruzione del principio di autorità e di disciplina che c’era prima di quel movimento e delle sue farneticazioni: fu allora che nacque l’eccessiva familiarità tra professori e alunni (io ebbi al liceo un docente di matematica che ci obbligava a dargli del tu!), idiozie come il “sei politico” e le promozioni di massa, perché allora si usava dire che bocciare era “fascista”. Anche se sono passati 50 anni, il seme della rovina fu gettato allora e la mala pianta è cresciuta a dismisura nel corso dei decenni successivi, coadiuvata da leggi irresponsabili e provvedimenti ministeriali tutti a vantaggio degli studenti e a danno dei docenti. Si parte con i decreti delegati del ’74 che fecero entrare i genitori nella gestione della scuola, per proseguire con le leggi del ’77 che cambiarono i programmi ed inserirono progetti e attività diversi dalla normale attività curriculare, per arrivare al famigerato “Statuto delle studentesse e degli studenti” di Luigi Berlinguer (non a caso proveniente dalla parte politica che aveva fatto il ’68), con il quale la disciplina nella scuola veniva praticamente abolita, perché punire uno studente indisciplinato diventava di fatto complicato a causa di lacci e lacciuoli legali, oltre alla facoltà dei genitori di mettere bocca in tutte le decisioni prese a scuola e di poter fare ricorso contro ogni provvedimento. Neanche i governi di centro-destra hanno mai modificato alcunché, perché al buonismo sessantottino e delle teorie pedagogiche da esso derivato si unì la mentalità aziendalistica di chi non dava alcun rilievo alla disciplina e ragionava solo in base agli interessi di mercato, per cui quel che contava era soltanto l’immagine esterna di una scuola sul territorio e quel che di sconveniente vi accadeva doveva di fatto esser nascosto, proprio per evitare danni all’immagine stessa e subire magari un calo di iscrizioni: una scuola che boccia o che sanziona chi sbaglia non è appetibile, si sa, e si preferisce iscriversi altrove. Per questo motivo molti Dirigenti scolastici (non dico tutti, ovviamente) si sono subito adeguati a questo andazzo, e si sono preoccupati solo di curare l’immagine del proprio Istituto sul territorio, svalutando il lavoro didattico che non si vede all’esterno e dando invece impulso a progetti e attività visibili sul territorio. A questi dirigenti, ovviamente, conviene insabbiare tutto ciò che di sconveniente o di compromettente avviene nella loro scuola, ed evitare quindi di prendere provvedimenti sanzionatori contro chiunque, che con il buonismo attuale ovunque diffuso non gioverebbero certamente al loro buon nome.
In molti casi, in conseguenza di quanto detto, i docenti a scuola sono indifesi, perché c’è il rischio fondato che le loro note o richieste di provvedimenti verso gli studenti restino lettera morta e lascino ovunque il tempo che trovano. Eppure, nonostante ciò, io penso che una delle cause di quanto oggi avviene risalga anche ai docenti stessi, per due ragioni fondamentali. La prima è che siamo noi stessi, molto spesso, a colpevolizzarci quando accade qualcosa di spiacevole: ho sentito molti colleghi, in questi anni, dare la colpa a se stessi degli insuccessi formativi di alcuni loro allievi, senza pensare che il masochismo non ha mai portato nulla di buono a nessuno e di fatto, se lo studente non si impegna o non ha le capacità per seguire un certo corso di studi, non è abbassando la guardia o dando a se stessi la colpa che quello studente maturerà o avrà risultati migliori. La seconda ragione è che molti colleghi sono deboli caratterialmente e non riescono a farsi rispettare dagli alunni; ed in conseguenza di ciò, procedendo per gradi, si arriva da parte di certuni al dileggio ed alla mancanza di rispetto verso l’insegnante, che in certi casi può assumere anche dimensioni macroscopiche come ciò che è avvenuto a Lucca ed in altre località. L’autorevolezza (non l’autoritarismo) è un carattere essenziale che ogni docente dovrebbe possedere, e ciascuno di noi dovrebbe evitare di dare confidenza agli alunni, pretendere il rispetto dei ruoli e reagire con decisione ad ogni violazione del codice comportamentale. C’è chi riesce a farlo e chi no, come dimostra il fatto che gli stessi studenti, delle medesime classi, si comportano in maniera diversa a seconda del docente che hanno di fronte, ne rispettano alcuni e ne sbeffeggiano altri. Quindi sta anche a noi, soprattutto a noi, mettere le carte in tavola fin dal primo giorno di scuola e stabilire limite e compiti reciproci; altrimenti non possiamo lamentarci se nella massa viene fuori qualcuno che approfitta vigliaccamente della libertà concessagli per superare i limiti e scadere in comportamenti vergognosi. Se la legge non ci difende occorre che ci difendiamo da soli, finché è possibile, con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione, anche quelli coercitivi e “repressivi”, poco curando ciò che potrebbero dire studenti e genitori. Chi pecora si fa lupo la mangia, dice il proverbio: e finché ci saranno professori “pecore” ci saranno sempre anche studenti “lupi”, da tenere a bada anche col bastone, se necessario, prima che siano loro a darcelo in testa, e non solo metaforicamente.

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Sul comportamento di alcuni docenti

Il professore, si sa, è una figura che dovrebbe ispirare fiducia agli studenti, essere per loro un modello di virtù, come diceva l’antico retore latino Quintiliano (I° secolo d.C.); o almeno, se non si pretende tanto, sarebbe auspicabile che non mostrasse cattive abitudini e che si comportasse in modo consono al suo ruolo di educatore. Ma da alcuni decenni, dopo le novità del “mitico” ’68, la figura del docente è andata progressivamente cambiando e la peculiarità della sua funzione si è costantemente annacquata fino a sparire del tutto, almeno in certi casi. Un tempo il professore era una persona distinta, vestito in modo adeguato alla sua funzione, che manteneva ben visibile la distinzione dei ruoli senza dare troppa confidenza ai propri alunni; e se aveva abitudini non proprio edificanti, cercava almeno di nasconderle durante le ore che passava a scuola, proprio per non dare ai giovani un esempio da non imitare.
Oggi purtroppo non sono molti i professori che mantengono la dovuta distinzione dei ruoli e un decoro comportamentale consono al compito di educatori che dovrebbero avere. Molto spesso assistiamo ad una familiarità eccessiva tra docenti e studenti, che si spinge ad eccessi come battute spiritose sconvenienti, scherzi di cattivo gusto, comunicazione di notizie sulla vita privata degli uni e degli altri, e così via. Dal mio punto di vista di docente rimasto a prima del ’68, io giudico sconveniente che un professore si interessi di ciò che i suoi studenti fanno al di fuori della scuola, a meno che non si tratti di problemi che incidono sul rendimento scolastico; ma in tal caso deve essere lo studente o la sua famiglia a comunicarli, non l’insegnante a fare il confidente privato o a intromettersi nella vita altrui. Nei rapporti personali il professore non deve essere arcigno o troppo severo, ma nemmeno fare l’amico dei suoi studenti, perché il suo ruolo non è quello; una certa distanza deve sempre rimanere tra l’uno e gli altri, anche per evitare che qualche alunno maleducato o poco perspicace (e ce ne sono sempre), avendo a che fare con un professore “amicone”, superi il limite e si senta autorizzato a prendersi libertà ed a mancargli di rispetto, cosa che puntualmente avviene in queste circostanze. E poi fa sorridere il fatto che alcuni colleghi si lamentino dell’indisciplina degli studenti nei loro confronti quando sono loro stessi che, concedendo troppa confidenza, li hanno di fatto indotti a quel comportamento. E va anche detto che i ragazzi, se sul momento possono accogliere con piacere il professore “amicone”, in un secondo tempo, quando saranno divenuti più maturi e responsabili, non avranno di lui un buon ricordo, ma l’avranno invece di quei docenti che sono stati veri formatori, che hanno veramente trasmesso qualcosa dal punto di vista culturale ed umano e che sono stati per i giovani un modello di vita, anche se sul momento sembravano eccessivamente “seriosi” e distaccati.
Confesso di avere una forma mentis non in linea con l’uso comune attuale, quando dilagano le amicizie su facebook tra docenti e studenti, le comunicazioni via cellulare di notizie che dovrebbero restare segrete tipo le decisioni prese agli scrutini o agli esami, gli incontri fuori della scuola che qualche volta, purtroppo, danno adito anche a voci non proprio onorevoli per gli uni e per gli altri. Ma ci sono anche altri aspetti del comportamento di certi professori che, sia pure non illeciti dal punto di vista strettamente legale, sono comunque sconvenienti e persino ridicoli. Se vogliamo fare qualche esempio, il primo che mi viene in mente è l’abbigliamento, il modo di presentarsi a scuola. Ormai non c’è più nessuno (neanche io) tra i docenti uomini che metta giacca e cravatta, e questo è comunemente accettato; ma vi sono colleghi che si pongono in maniera trasandata, con magliette scritte, jeans strappati alla maniera dei ragazzi e persino qualcuno, in estate, che si presenta con sandali e bermuda alle riunioni. E la stessa eccentricità si riscontra anche in alcune colleghe che, avendo magari passato la sessantina, si vestono ancora come ragazzine, con jeans o minigonne che le rendono ridicole perché assomigliano alla vecchia signora del trattato Sull’umorismo di Pirandello, imbellettate per cercare disperatamente di nascondere l’età che avanza. Anche in questo aspetto del loro comportamento molti docenti non sanno seguire la giusta via di mezzo di aristotelica memoria, che in questo caso consisterebbe nell’evitare del pari l’eccessiva eleganza (ormai non più apprezzata) ma anche l’altrettanto eccessiva sciatteria.
Oltre a questi che ho descritto, ci sono purtroppo comportamenti ancora peggiori che certi colleghi mettono in atto: battute di spirito sconvenienti e persino oscene pronunciate in presenza degli studenti, turpiloquio ormai diffuso anche nella nostra categoria, esternazione senza ritegno di vizi dannosi come il fumo di sigaretta e l’uso del cellulare eccessivo e maleducato. Si tratta di episodi gravi, che ogni dirigente scolastico dovrebbe censurare e ricorrere, se necessario, e provvedimenti disciplinari, perché farsi vedere dagli alunni a fumare o a usare il cellulare in classe costituisce una violazione del codice comportamentale che esiste in tutti gli edifici pubblici. Ciò è ancor più grave se consideriamo il ruolo di educatori che, nostro malgrado, tutti noi abbiamo; e come possiamo pretendere che gli studenti si comportino in modo corretto, che non fumino e non usino il cellulare in classe, quando sono alcuni di noi che fanno queste cose apertamente e spudoratamente? Io stesso ho visto colleghi giocare con il cellulare, ricevere e mandare messaggini durante le riunioni o gli esami, quando tra gli astanti erano presenti anche molti studenti, ai quali si ha il coraggio di chiedere di non fare quello che noi stessi facciamo. A tal proposito io credo di essere ormai un caso isolato, perché non solo non ho mai fumato in vita mia, ma sono uno dei rarissimi italiani a non usare il cellulare, dato che non voglio rendermi schiavo di un oggetto come purtroppo quasi tutti sono oggi diventati; e quanto al linguaggio, una brutta parola può scappare a tutti, ma occorre stare ben attenti a non farsi sentire dagli studenti, perché sarebbe un esempio pessimo, del quale io mi vergognerei a vita.
In base a ciò che ho detto in questo post, che molti considereranno retrogrado e bacchettone, mi rallegro vivamente di aver abbandonato da tempo l’idea di fare il Dirigente scolastico, perché se lo fossi diventato avrei certamente condotto una vita grama; non sopportando infatti certi comportamenti degli studenti – e dei docenti in ancora maggior misura – avrei preso una serie di provvedimenti restrittivi e disciplinari che mi avrebbero provocato certamente vertenze e denunce di ogni genere, con sindacati e giudici propensi ormai da decenni a dar ragione sempre ai sottoposti nei confronti dei loro superiori o datori di lavoro. Sotto questo ed altri profili ritengo che la posizione del Dirigente scolastico sia molto difficile e che occorra un carattere “diplomatico” per svolgerla al meglio. Si tratta di una qualità che io proprio non possiedo, incline come sono a dire in faccia agli altri ciò che non mi piace ed a prendere decisioni drastiche; è molto meglio quindi relazionarsi con gli studenti in classe nel modo che ritengo più opportuno e consono alla mia funzione, pur essendo consapevole dell’arretratezza ideologica che i “modernisti” troveranno in ciò che dico.

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Ansie e incertezze di inizio anno scolastico

Il nuovo anno scolastico è già iniziato per quanto riguarda le riunioni preparatorie dei docenti, e tra pochi giorni cominceranno anche le lezioni. Sul blog torno a parlare dell’argomento che più mi interessa, cioè la scuola, alla quale ho dedicato praticamente tutta la vita; sono però riuscito a mantenere la promessa fatta a giugno di non parlarne per tutte le vacanze estive, in realtà molto più brevi di quanto si potrebbe credere.
Il nuovo anno comincia con tante incertezze e interrogativi dovuti all’attuazione della legge cosiddetta “La buona scuola”, che d’ora in poi comincerà a far sentire i suoi effetti, purtroppo più negativi che positivi. Le novità introdotte non fanno presagire nulla di buono. Le mie preoccupazioni più forti sono relative alla cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, che quest’anno diventa obbligatoria nelle classi terze e quarte dei Licei e degli altri istituti superiori, e al rinnovato obbligo, sostenuto dal Ministero, dell’aggiornamento didattico. Il primo problema è certamente invasivo, checché se ne dica, perché 200 ore di attività lavorativa extrascolastica in un triennio sono tantissime, e non si può pensare che vengano svolte tutte nei periodi di vacanza; ciò comporterà inevitabilmente grossi disagi per il regolare svolgimento delle lezioni e per la completezza dei programmi. E’ inaccettabile, a mio giudizio, il consiglio che alcuni danno in questi casi, quello cioè di “tagliare” alcuni argomenti a vantaggio di altri: come è possibile, ad esempio in una materia come la letteratura italiana, parlare di Manzoni e non di Leopardi, o viceversa? Oppure, in storia, parlare della seconda guerra mondiale se non si è prima affrontato il problema delle cause, dei regimi totalitari precedenti, della prima guerra mondiale e via dicendo? Si possono eliminare gli argomenti secondari ed i corollari, ma non quelli fondamentali che vanno trattati in ogni modo, pena la perdita del senso complessivo e del valore formativo di ogni disciplina. Io non so come si organizzeranno i colleghi, ma prevedo grosse difficoltà; spero soltanto che il tempo da dedicare alle lezioni ed alle verifiche (che vanno fatte anch’esse, e non in maniera superficiale o sbrigativa) resti comunque tale da consentirci di espletare i programmi in maniera decente. Dico ciò in nome dell’obiettivo primario della formazione degli studenti, ma anche in vista dell’esame di Stato: c’è infatti l’eventualità che un commissario esterno si lamenti dell’esiguità del lavoro svolto e che di ciò dia la colpa al collega interno, senza tener conto di tutto il tempo-scuola che se ne va nelle molteplici attività extra- o parascolastiche.
Il secondo motivo di ansia riguarda il cosiddetto “aggiornamento in servizio”, che tutti i governi succedutisi negli ultimi vent’anni hanno sollecitato e talvolta imposto ai docenti. Anche qui io sono fortemente scettico, e non perché pensi che aggiornarsi non sia utile e anzi indispensabile, ma perché molto spesso questi corsi sono inconcludenti e tenuti da persone che poco si intendono dei veri problemi che il docente trova nella pratica quotidiana della sua professione, tanto che i loro interventi si risolvono in fiumi di parole poco spendibili nella fattispecie quotidiana. Molti di questi corsi riguardano le nuove tecnologie (sulle quali siamo già informati abbastanza per quel che ci serve, anche perché esse sono soltanto strumenti operativi ma non sostituiscono le facoltà umane), oppure si rifanno ad un pedagogismo ormai vecchio e banale che si esprime in un linguaggio astruso e del tutto avulso dalla realtà effettiva. Questi signori, in pratica, parlano quasi sempre della classe e degli alunni ideali, che esistono solo nella loro fantasia, non di quelli veri, in carne ed ossa, che ci troviamo di fronte tutti i giorni. E il Ministero, con questa insistenza paranoica sui cosiddetti BES e DSA, ha rincarato la dose di trito pedagogismo. L’unico corso di aggiornamento che io vorrei è quello specifico sulle mie discipline, che mi propone argomenti e contenuti nuovi, approfondimenti critici, suggerimenti bibliografici per migliorare effettivamente le mie competenze; un docente, per quanto preparato sia, ha sempre qualcosa da imparare, anche perché gli studi filologici, storici, filosofici ecc. proseguono il loro cammino, ed è bene ch’egli ne venga messo a conoscenza.
Altra notevole incertezza è quella che riguarda le novità della legge sull’impiego e la gratificazione del personale docente. Da quando è stato istituito il cosiddetto “organico potenziato” in tutte le scuole c’è un certo numero di professori in più rispetto al necessario, che vengono utilizzati in vari modi: in certi casi fanno soltanto le supplenze per le assenze dei colleghi, in altri casi fanno compresenze con altri docenti per determinate esigenze della scuola, in altri ancora tengono i corsi di recupero per gli studenti meno brillanti, ecc. Da quest’anno c’è però la novità, chiarita da una circolare ministeriale, ch’essi possono essere anche utilizzati al posto dei docenti curriculari, affidando cioè loro l’insegnamento annuale in alcune classi. Io condivido questa impostazione, perché non trovo giusto che questi colleghi giovani siano occupati per poche ore settimanali mentre a noi “vecchi” insegnanti della scuola tocchi l’orario intero delle 18 ore, con tutto ciò che comporta i termini di preparazione, correzione degli elaborati riunioni ecc. Ma come potranno i Dirigenti scolastici distinguere tra i vari docenti a disposizione e decidere cosa sia più vantaggioso per ciascuna classe? C’è il rischio che, comunque vada, le scelte non siano le più eque e che a sostenere il peso maggiore dell’insegnamento siano sempre i docenti con più esperienza e che danno ai Dirigenti maggiori garanzia di efficacia e di gradimento per studenti e genitori. Potrebbe accadere che chi s’impegna meno, chi provoca problemi relazionali con le altre componenti scolastiche, chi è meno preparato e didatticamente inefficace goda di un impegno minore e faccia, in pratica, la bella vita, limitandosi a qualche ora di supplenza o di corso di recupero. Non dico che ovunque avverrà questo, ma è molto probabile che accada piuttosto spesso, in virtù del potere che la legge della “Buona scuola” concede ai Dirigenti, gravati però proprio in base a questo potere di una forte responsabilità. Questo presupposto, peraltro, vale anche per quanto riguarda il famigerato “bonus premiale”, cioè il limitato vantaggio economico concesso ad una ridotta percentuale di docenti di ogni scuola,  ritenuti eccellenti rispetto agli altri. Non voglio tornare sull’argomento dei criteri in base ai quali sono state fatte le scelte, su cui ho già espresso sinceramente il mio pensiero. Aggiungo solo una cosa: ho notato che nella maggior parte degli istituti è stata compilata la lista dei premiati ma non sono stati resi noti i loro nomi, forse per reticenza dei Dirigenti che in tal modo vogliono evitare liti e malumori tra gli insegnanti della loro scuola. Se però qualcuno – esclusi i presenti – aspirava ad ottenere il bonus non per quei pochi soldi che si aggiungono allo stipendio ma per il prestigio che la collocazione in quella lista poteva apportargli a livello di scuola e di territorio, in questo modo è rimasto, come si suol dire, con un palmo di naso. Che gratificazione può venire a un docente “premiato” se nessuno viene a sapere di questo premio? Mi sembra di risentire una storiella che mi raccontava mio padre quand’ero bambino e che riferiva di un tale che, alla domenica, dava al proprio figlio una banconota da cinquanta lire (si parla di un secolo fa circa) perché facesse bella figura con gli amici quando usciva, ma poi alla sera pretendeva di rivederla intera, senza che il figlio avesse speso neanche un centesimo. Forse chi ha escogitato questa bella trovata avrebbe dovuto essere più esplicito e prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Ma questo è chiedere troppo a chi legifera senza mai aver messo piede in una scuola.

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A quali docenti andrà il bonus?

Sul sito web del quotidiano “Repubblica” è uscito ieri un interessante articolo dedicato ad uno degli eventi più attuali della vita scolastica nazionale: il famoso “bonus” economico con cui in ciascuna scuola verranno premiati, a partire da questo stesso anno scolastico, i docenti ritenuti più validi e meritevoli. Ciò in prima applicazione della legge detta della “Buona scuola” approvata dal Parlamento nel luglio dello scorso anno. Sappiamo che la decisione finale sulle persone a cui dare questo “bonus” (che si ridurrà a poche decine di euro mensili) spetterà ai Dirigenti scolastici, i quali dovranno avvalersi dei criteri stabiliti dal Comitato di valutazione eletto in ogni istituto; ciò nonostante non sarà facile per i Dirigenti, che non possono essere competenti di ogni disciplina insegnata nella loro scuola, e neanche possono conoscere nei particolari il metodo di lavoro, l’impegno e la preparazione di ciascun insegnante, individuare i docenti “migliori”, più bravi o più solerti nel loro lavoro. Così, a quanto riferiva l’articolo di “Repubblica”, in molte scuole si stanno distribuendo questionari anonimi a studenti e genitori, per conoscere il giudizio degli “utenti” sul servizio loro prestato dagli insegnanti.
A proposito della questione generale voglio premettere che, ad onta delle proteste di molti colleghi e sindacati, io continuo ad essere favorevole alla valutazione di noi docenti ed anche ad una, se pur minima, differenziazione dello stipendio, perché ritengo ingiusto e mortificante trattare tutti allo stesso modo, perché è ben noto che non tutti abbiamo lo stesso carico di lavoro, le stesse competenze e lo stesso amore per la professione, non tutti abbiamo la stessa efficacia didattica o lo stesso rapporto professionale ed umano con i nostri alunni, e l’egualitarismo finora vigente mortifica chi mette l’anima ed il cuore nello svolgere i propri compiti quando vede che il collega impreparato o fannullone riceve lo stesso trattamento e la stessa considerazione sociale. Riconosco però che è estremamente difficile per i Dirigenti effettuare una simile distinzione, perché il nostro lavoro non è valutabile oggettivamente, dal momento che non è un’attività operativa materiale in cui si possano contare le casse di frutta scaricate da un magazziniere o i tavoli di un ristorante apparecchiati da una cameriera. Per noi nessun parametro può esser preso per oggettivamente indiscutibile, neanche quello, unico (e non sempre) accertato dai concorsi, della preparazione nelle proprie materie; nella mia esperienza ho conosciuto infatti colleghi bravissimi, veri e propri cultori della materia e vincitori di concorso, che però non riuscivano a trasmettere questo loro sapere agli alunni, non riuscivano a volte neanche a mantenere la disciplina in classe, non avevano la misura dei tempi in cui un programma deve essere svolto, tanto che l’esito del loro insegnamento si è rivelato un autentico fallimento.
Per questi motivi molti Dirigenti, nel tentativo di limitare i danni (in termini di risentimenti, proteste e ricorsi) che inevitabilmente faranno da strascico alle loro scelte, distribuiscono i questionari per sapere dagli studenti chi tra gli insegnanti è da loro più stimato ed apprezzato. E mi viene da pensare – perché è logica conseguenza di quanto detto prima – che anche chi non si avvarrà dei questionari scritti dovrà comunque tenere conto dei giudizi che studenti e genitori danno sui docenti, giudizi che girano per le scuole come voci di corridoio ma che spesso si concretizzano anche in visite, telefonate ed e-mail al Dirigente dove emergono, più che le lodi, le lamentele contro certi insegnanti. Il problema però, a mio avviso, è che questi giudizi poco lusinghieri di studenti e genitori non avvengono, se non di rado, a motivo di una scarsa preparazione o altrettanto scarsa dedizione al proprio lavoro, ma piuttosto nei confronti dei docenti più esigenti e meno generosi nelle valutazioni. Per questo trovo pericoloso affidarsi al giudizio di coloro che usufruiscono direttamente del servizio scolastico, perché ho il fondato timore che molti (se pur non tutti) alunni e genitori tendano a premiare non il docente più preparato e coscienzioso, ma quello che distribuisce a pioggia voti alti e magari impegna poco la classe con i compiti a casa, e non colui che mantiene la giusta distanza nei rapporti personali dovuta alla distinzione tra i rispettivi ruoli, ma quello che fa l'”amicone” con i ragazzi, scherza e gioca con loro dando confidenza e magari sottraendo così il tempo alle lezioni. Se proprio si vuole acquisire il parere degli “utenti” (termine che metto tra virgolette perché la scuola non è l’Enel o la Telecom), sarebbe più giusto, a mio parere, interpellare gli ex studenti, coloro che sono stati allievi di un docente negli anni precedenti e che attualmente sono all’Università o nel mondo del lavoro; solo costoro, infatti, non più condizionati dall’interesse e dalle passioni del momento, potrebbero dire con sicurezza quanto l’insegnamento di quel determinato docente è stato loro utile nella propria formazione culturale, professionale ed umana.
In ogni caso, pur continuando ad essere favorevole a questa parte della legge della “Buona scuola”,riconosco che una valutazione oggettiva ed asettica di ogni docente da parte dei Dirigenti scolastici è molto difficile; e questa difficoltà condurrà senz’altro a fraintendimenti dello spirito della legge e a decisioni a dir poco opinabili, come quella di attribuire il bonus ai collaboratori del Dirigente, a coloro che organizzano progetti, partecipano a riunioni di stesura del Pof o altre simili attività, che peraltro sono già retribuite dal fondo di Istituto e comunque hanno poco o nulla a che vedere con la validità didattica del docente, l’unico elemento che meriterebbe oggettivamente il premio. A questi problemi vanno aggiunte le accuse di clientelismo ed i malumori che si manifesteranno dopo l’attribuzione del bonus in ogni scuola; ragion per cui, se finora non ho mai invidiato lo status di Dirigente scolastico, adesso lo invidio ancor meno. Quello di cui ho parlato, per concludere, è senza dubbio un compito ingrato, a cui molti presidi rinuncerebbero volentieri; ed io li comprendo pienamente, ed almeno in questo sono del tutto solidale con loro.

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Deve esistere ancora il “posto fisso”?

Come tutte le domeniche, anche oggi ho seguito (almeno all’inizio, poi generalmente ho altro da fare) la trasmissione “L’Arena”, condotta da Massimo Giletti su Rai 1. Dico subito che non ho molta simpatia per questo programma, perché molto spesso esagera nel mettere alla berlina le inefficienze e la corruzione della pubblica amministrazione, generalizzando e fornendo un’immagine del tutto negativa di una realtà che sicuramente ha dei difetti e dei malfunzionamenti, ma che nella maggior parte dei casi funziona bene o almeno in maniera accettabile; e così facendo, presentando cioè un quadro a tinte fosche dell’operato dei nostri politici ed amministratori, finisce per portare acqua al mulino dell’antipolitica e per favorire così il qualunquismo ed il disfattismo di Grillo e della sua banda di incapaci a 5 stelle. Per questo non mi piace quel programma, ma oggi l’ho ascoltato volentieri perché l’argomento in discussione era il licenziamento di alcuni dipendenti di un’ospedale di Salerno i quali, anziché andare regolarmente a svolgere il loro lavoro, timbravano il cartellino di presenza e poi se andavano al mare o altrove a farsi i fatti loro. Il dibattito è stato interessante perché tutti, più o meno, si sono detti d’accordo con questo provvedimento, anche perché – come ha sottolineato l’on. Salvini – è una vergogna che dei dipendenti pubblici, che sono regolarmente pagati a fine mese, si comportino in tal maniera quando ci sono centinaia di migliaia di giovani senza lavoro che sarebbero ben felici di poter timbrare quel cartellino e poter lavorare. Ma il lato più curioso del programma è stato l’intervento di un sindacalista della UIL, il quale non ha assolutamente difeso i licenziati, ma ha anzi affermato che il suo sindacato si costituirà parte civile nei processi a carico degli assenteisti, perché un simile comportamento va assolutamente impedito. Quel che mi ha fatto sorridere, appunto, è stato l’atteggiamento del sindacalista, in netto contrasto con l’azione del suo e degli altri sindacati della “triplice” (CISL e CGIL), i quali invece per decenni si sono fatti paladini e difensori degli assenteisti e dei fannulloni, opponendosi a qualunque provvedimento censorio o punitivo sulla base di un’ideologia garantista che, da sempre condivisa dai partiti di sinistra, ha provocato la permanenza sui posti di lavoro di persone indegne e incapaci. Meno male che adesso il sindacato si è accorto dell’errore e ha cambiato idea. Meglio tardi che mai!
Uno degli argomenti in discussione è stato appunto il garantismo eccessivo che abbiamo avuto ed abbiamo ancora in Italia, per cui un licenziamento nella pubblica amministrazione diventa più difficile di una scalata dell’Everest: il dipendente sanzionato, infatti, ha diritto a fare ricorso agli organi competenti ed al Tar, a chiedere l’aiuto del sindacato, dell’Ispettorato del lavoro, della magistratura ordinaria ecc. che quasi sempre gli danno ragione in modo aprioristico, determinando non solo il reintegro nel “posto fisso” che indegnamente occupa, ma costringono spesso anche il Dirigente che ha comminato la sanzione a pagare di persona, anche economicamente, le spese processuali ed a rifondere il lavoratore. Questo spiega largamente il motivo per cui molti dirigenti lasciano correre comportamenti scorretti ed illegali dei dipendenti, per timore di perdere poi la causa ed essere costretti a rimetterci i soldi e la pure la faccia. In queste condizioni, pertanto, è difficile dare torto a questi dirigenti.
Per fare un accenno al settore dell’istruzione pubblica, di cui mi intendo un poco per averci passato una vita, debbo dire che la situazione è quella descritta sopra, forse anche peggiore di quella delle altre amministrazioni pubbliche: tutti sappiamo, infatti, che insegnanti assenteisti o impreparati ce ne sono purtroppo, anche se in minima percentuale. Verso costoro, comunque, i Dirigenti scolastici (o presidi come si chiamavano una volta) non possono in sostanza fare nulla, perché al minimo provvedimento disciplinare contro un docente (anche una semplice censura o sospensione di pochi giorni) subito intervengono i sindacati a difendere il docente “perseguitato”, viene messa in atto contro il dirigente una vertenza fatta di ricorsi agli organi competenti, di lettere minatorie di avvocati, di cavilli legali legati ad errori di forma e quant’altro che sia, di modo che il provvedimento punitivo viene quasi sempre cancellato, anche in casi di evidente inosservanza dei propri doveri stabiliti dal contratto della categoria. In molti casi, inoltre, il comportamento scorretto di un docente è difficilmente sanzionabile perché non verificabile con certezza; se un professore, invece di andare in classe, va al mare l’irregolarità è del tutto evidente, ma se, al contrario, si presenta regolarmente in classe ma non spiega, non conosce la propria materia, compie ingiustizie nella valutazione degli alunni e provoca in loro disgusto anziché amore per lo studio, tutto ciò è difficile se non impossibile da dimostrare, perché la parola degli alunni può agevolmente essere confutata dal docente e nessuno può andare in classe a verificare se quel professore è veramente degno della cattedra che ricopre e dello stipendio che riceve.
Sono contento del fatto che, almeno a livello generale, qualcosa si stia muovendo, perché sta crescendo ovunque l’indignazione contro gli assenteisti e gli incapaci, come dimostra anche l’annuncio del Presidente del Consiglio secondo cui, dopo l’approvazione di un apposito decreto del Consiglio dei ministri, sarà possibile licenziare queste persone entro 48 ore; dubito però che ciò possa veramente accadere, perché in Italia è ancora talmente forte il garantismo, il mito del “posto fisso” intoccabile, e tante sono le pastoie burocratiche che mi stupirei moltissimo se dovesse cambiare in poco tempo un malcostume che dura da 50 anni e più. Quel che occorrerebbe fare subito, a mio vedere, è dare ai Dirigenti delle varie amministrazioni (anche ai presidi delle scuole) la facoltà di poter licenziare chi non lavora o lavora male, o almeno di poterlo sospendere per un periodo di alcuni mesi; in questo modo il dipendente avrebbe modo di riflettere e rendersi conto del suo errore, e una volta reintegrato nel suo posto avvertirebbe senza dubbio la necessità di comportarsi diversamente per non incorrere nel licenziamento definitivo. Soprattutto andrebbe eliminata la possibilità del dipendente di rivalersi sul dirigente a livello economico, perché questo è il vero freno che impedisce l’adozione di provvedimenti più che necessari. Il mito del “posto fisso” deve finire per sempre, perché non si può più permettere a certa gente di rubare lo stipendio per una vita e, nel caso della scuola, di rovinare intere generazioni di studenti. Naturalmente – e non è neanche il caso di rammentarlo – prima di prendere provvedimenti punitivi un Dirigente deve avere prove inconfutabili delle inadempienze compiute, per evitare che qualcuno sia sospeso o licenziato per antipatie personali o per altri motivi altrettanto abietti di quelli di coloro che non compiono il proprio lavoro. La verità, come dice un saggio detto, sta nel mezzo, e gli eccessi vanno sempre evitati.

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Preoccupazioni di inizio anno scolastico

Ci siamo quasi: domani 1° settembre il Collegio dei docenti, che si terrà in molte scuole, aprirà ufficialmente il nuovo anno scolastico 2015/16. E’ un anno pieno di incertezze e di preoccupazioni legate all’applicazione della “riforma” scolastica targata Renzi-Giannini, che ha portato e porterà con sé tante proteste e critiche ma che dirà anche qualcosa di nuovo nell’ambito del sistema dell’istruzione. Pur potendosi prevedere in parte quel che accadrà, molti aspetti della “buona scuola” sono ancora alquanto nebulosi, per mancanza di chiarezza nelle norme in vigore ma anche per la sostanziale differenza tra la teoria e la pratica, cioè tra il dettato della legge e la sua effettiva applicazione. Intanto, già prima che inizi l’anno scolastico, la nostra scadente televisione ci ripropina, ancora una vota in modo banale e pedestre, la solita polemica sui libri di testo, il cui costo dissanguerebbe le famiglie dei poveri studenti. Sull’argomento ho già detto quel che penso in alcuni post di settembre degli scorsi anni e non voglio quindi ripetermi, tranne per quanto riguarda un concetto: che cioè la polemica sul costo dei libri è assurda e pretestuosa, soprattutto da parte di quelle famiglie (e sono l’assoluta maggioranza) che si sentono svenate quando debbono comprare i libri ai figli, ma che spendono senza battere ciglio migliaia di euro in zaini firmati, vestiti alla moda o smartphones di ultima generazione, di cui ormai quasi tutti gli studenti sono dotati. Per costoro la cultura vale meno di un telefonino o di un paio di orribili jeans sdruciti.
Ma torniamo ai problemi di inizio di anno scolastico. La nuova riforma ha messo e metterà in ruolo migliaia di insegnanti precari, ma non si sa bene quale sarà il loro impiego. Una parte andrà a ricoprire ovviamente i posti vacanti, ma un’altra dovrebbe essere impiegata per il cosiddetto “organico funzionale”, che prevede la presenza di alcuni docenti in più rispetto ai posti ordinari, che dovrebbero servire a potenziare la cosiddetta “offerta formativa” di ciascun Istituto scolastico. In pratica, però, non è chiaro come saranno utilizzati: per ore di materie aggiuntive che saranno deliberate dal Collegio dei docenti, per le supplenze o per altro ancora? Non mi pare che questo concetto sia stato ben illustrato dagli estensori della legge di riforma; in ogni caso ciò che si dovrebbe evitare (e che spero vivamente non avvenga) è che questi docenti in più siano lasciati liberi di far poco o nulla in attesa di occupazione, mentre i professori già in servizio nella scuola debbano continuare a svolgere l’intera attività didattica, non solo quella frontale in classe ma anche il lavoro domiciliare. Se ci sono nella scuola insegnanti in più rispetto all’organico, allora mi sembrerebbe giusto ripartire l’impegno didattico tra tutti, magari diminuendo di qualche ora settimanale l’orario dei professori già in servizio perché possano dedicarsi con più agio alla programmazione o alla gestione complessiva della scuola.
Altro punto imbarazzante della riforma è quello che concerne la valutazione dell’Istituto (di cui una bozza è stata già compilata) ma soprattutto dei singoli docenti. Ho detto più volte che molti di noi si considerano intoccabili e provocano un’alzata di scudi non appena un qualsivoglia governo introduce anche solo lo spettro di una valutazione individuale; io invece da tanti anni sostengo apertamente che vorrei essere valutato, e gradirei moltissimo la presenza in classe, durante le mie lezioni, di persone competenti che potessero giudicarne l’efficacia, la completezza ed il valore didattico. Ma dove si troveranno funzionari di questo tipo? Un tempo c’erano gli ispettori ministeriali che visitavano le scuole ed erano in grado di svolgere un compito simile; ma adesso gli ispettori sono pochi e utilizzati male, ed oltretutto sono spesso incompetenti per quanto riguarda la didattica, perché si è voluto fare di loro (come dei Dirigenti, del resto) soltanto degli organizzatori, dei burocrati. Quel che la “Buona Scuola” prevede in questo ambito mi lascia invece molto perplesso: a valutare i professori sarà infatti il Dirigente scolastico, dopo che i criteri per la valutazione stessa (ossia i fattori atti a stabilire quali siano gli insegnanti più meritevoli) saranno determinati da un comitato costituito da tre docenti, uno studente, un genitore e una persona esterna alla scuola di cui nulla si sa di preciso. Ora, pur dando per scontata la buona fede di tutti, non mi pare che in queste condizioni sia possibile cogliere pienamente l’obiettivo: i Dirigenti infatti, non essendo ovviamente al corrente dei metodi didattici di ciascun docente, né competenti in tutte le discipline, finiranno per premiare soprattutto coloro che li hanno coadiuvati nell’elaborare progetti o nella gestione della scuola (i vicari, ad esempio), mentre molto minor rilievo avranno la preparazione specifica dell’insegnante nelle sue discipline e l’efficacia della sua azione didattica.  Di fatto, tuttavia, prevedo che le domande per ottenere i vantaggi derivanti da una buona valutazione saranno pochissime, sia perché molti di noi non accettano di essere giudicati, sia perché l’aumento di stipendio previsto per i “bravi” (15-20 euro al mese al massimo) è talmente esiguo da far apparire tutto questo come un’operazione di facciata ed un’ulteriore presa in giro della categoria.
C’è infine un’altra cosa in questa riforma che mi preoccupa molto: la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, un’altra bella invenzione dell’utilitarismo e del materialismo attuali. In merito, trovo naturale che gli alunni degli istituti tecnici e professionali facciano un’esperienza lavorativa già durante il corso di studi, che conoscano il mondo della produzione, l’industria e l’artigianato, perché quella è la finalità principale di questo tipo di studi. Ma i licei, per i quali sono previste addirittura 200 ore annuali di esperienza scuola-lavoro, che ci azzeccano, come direbbe qualcuno a sud di Roma? I licei non hanno finalità utilitaristiche, o per lo meno non dovrebbero averne; si tratta infatti di scuole che debbono fornire una formazione completa della personalità mediante una cultura che non deve essere “pratica” nel senso consueto del termine, ossia vagante tra officine, laboratori e cantieri. La cultura liceale non deve “servire”, ma “formare” lo studente e prepararlo agli approfondimenti ed alle specializzazioni che compirà durante il percorso universitario. Come si possono conciliare materie come la filosofia, il latino, la matematica con il mondo dell’artigianato e dell’industria? Io temo che ci troveremo di fronte ad una colossale perdita di tempo che finirà per confondere i nostri studenti, sospesi tra gli studi teorici e attività pratiche per le quali hanno poco interesse e che sono del tutto avulse dalla loro mentalità. Questa, ovviamente, è solo la mia opinione, quella di un conservatore che guarda con sospetto alle novità che non lo convincono. Posso anche sbagliarmi, per carità, ed attendo di essere smentito; ma per adesso resto dell’idea che non sempre il nuovo è necessariamente positivo, e che se deve rovinare quel che di buono c’era prima, è meglio tenersi il vecchio, e tenerselo ben stretto.

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Libertà di insegnamento e ribellismo dei docenti

Per la conclusione dell’anno scolastico il ribellismo barricadero di molti docenti e dei loro sindacati ha annunciato guerra senza quartiere alla riforma della “Buona scuola”, arrivando a prospettare il boicottaggio degli scrutini, mentre già è stato attuato in molti casi quello delle prove Invalsi. Di fronte a questo atteggiamento da guerriglieri alla Che Guevara non posso che dirmi esterrefatto e indignato, perché mi vergogno del fatto che nella mia categoria, che dovrebbe prima di tutto educare le nuove generazioni al rispetto delle leggi, emergano comportamenti che non esito a definire eversivi: il blocco degli scrutini, tanto per cominciare, è illegale, e l’invito di certi docenti agli alunni perché non svolgano le prove Invalsi, previste per legge, costituisce un atto non solo di insubordinazione ma anche di istigazione a non compiere un preciso dovere, cioè il contrario di ciò che dovrebbe fare ogni professore che abbia la dignità di chiamarsi tale.

La protesta è legittima di per sé, ma va anzitutto motivata, cosa che non sempre avviene, perché molti salgono sulle barricate per puro ribellismo o per nostalgia di un periodo storico, quello del ’68 e degli anni ’70, quando l’essere contro il “sistema” era la prassi quotidiana; ora qualcuno vorrebbe tornare a quel periodo, ed urla per le piazze senza nemmeno conoscere il testo della riforma e blaterando su un’ipotetica “dittatura” che il governo attuerebbe o facendo previsioni catastrofiche e non veritiere su quello che potrà essere il futuro della scuola. E poi, a mio parere, la protesta deve essere, oltre che motivata, anche circoscritta agli strumenti legali: ed il blocco degli scrutini non lo è.

Si dice che a pensar male si fa peccato, ma qualche volta ci si indovina. Così a me, che sono notoriamente sfiduciato, è venuto il sospetto che il gran clamore sollevato da certi sindacati contro la riforma altro non sia che un tentativo di recuperare la fiducia (ed il contributo economico) di molti lavoratori che, giustamente, se ne sono allontanati negli ultimi anni. E quanto ai docenti, penso che l’atteggiamento di molti risenta di uno smisurato orgoglio che è una delle patologie più diffuse nella categoria degli insegnanti: molti di noi, in effetti, si sentono perfetti, onniscienti, intoccabili, e quindi non sopportano l’idea che qualcuno possa giudicarli e valutarli. Preferiscono restare in questo avvilente egualitarismo che gratifica e retribuisce tutti allo stesso modo, senza distinguere tra chi lavora con competenza e passione e gli assenteisti o incompetenti che purtroppo, benché in numero limitato, esistono nella scuola e che con queste loro caratteristiche vanificano il sacrosanto diritto degli studenti ad avere professori capaci e preparati.

Per cambiare questa mentalità occorrerebbe rivedere (non abolire) il famoso principio della libertà di insegnamento, peraltro sancito dall’art. 33 della Costituzione. Questo principio, di cui tutti si fanno schermo ed invocano ad ogni piè sospinto, significa a mio giudizio che un docente è libero di impostare secondo i suoi princìpi l’azione didattica, ma non comporta necessariamente la licenza di ciascuno di chiudere la porta della propria aula e fare quel che vuole senza che nessuno possa controllarlo o anche solo eccepire qualcosa sul suo operato. In tutte le professioni il lavoratore, che sia operaio, impiegato o professionista, ha sempre un codice deontologico da rispettare, e la sua attività può essere controllata dal diretto superiore (datore di lavoro o dirigente che sia), il quale ha il diritto di impartire consigli o chiedere lo svolgimento di determinati compiti. Perché nella scuola questo non deve essere possibile? Perché il docente deve sentirsi intoccabile, insindacabile, un vero padreterno, padrone assoluto della propria cattedra? Io non vedo nulla di male nel fatto che lo Stato, che è il nostro datore di lavoro, controlli ciò che facciamo e possa anche darci indicazioni didattiche, correggere i nostri errori, ed anche – al limite – sanzionarci o licenziarci se non facciamo il nostro dovere, se siamo assenteisti o se non conosciamo in modo adeguato le discipline che insegniamo; ed è ovvio che lo Stato, nel nostro caso, è rappresentato dai dirigenti scolastici, che dovrebbero poter esercitare un’azione di controllo sull’operato dei dipendenti, anche servendosi di una commissione formata dai capi-dipartimento o dai docenti più anziani della scuola. Chi sa di compiere nel modo adeguato il proprio lavoro non dovrebbe avere nulla da temere, ed è quindi largamente ingiustificato questo allarmismo e questo rigurgito di libertarismo sessantottino che ha portato i sindacati e molti professori a ribellarsi in questo modo isterico e persino illegale.

Come già ho detto, io non temo affatto l’aumento di potere dei dirigenti scolastici, trattati in questo periodo dai sindacati come se fossero tutti banditi o mafiosi, pronti a sistemare l’amico ed il parente, trasformando le scuole in conventicole clientelari. Non credo che ciò possa avvenire: primo perché ci saranno comunque organi di controllo (il consiglio di istituto, il collegio dei docenti) che avranno voce in capitolo nelle assunzioni e nella definizione dell’offerta formativa delle scuole, come prevede un emendamento al disegno di legge già approvato; secondo, perché i presidi saranno pagati in base al numero delle classi ed alla valutazione dei loro istituti, e non credo perciò ch’essi abbiano interesse a squalificare la propria scuola mediante l’assunzione di incapaci e incompetenti soltanto perché sono loro amici. E’ vero che certi docenti, che saranno comunque di ruolo e quindi regolarmente pagati, potranno restare fuori da certe scuole, ma ciò dovrebbe stimolarli ad aggiornarsi e migliorare la loro preparazione, proprio per evitare un’eventualità del genere. Del resto in molti paesi esteri, che spesso imitiamo quando ci conviene, la chiamata diretta dei docenti è una realtà e garantisce la miglior qualità dell’insegnamento. Perché non provarla anche da noi? Chissà che le Cassandre di oggi, capaci di profetizzare soltanto sciagure, non debbano ricredersi un giorno. Per me, senza dubbio, sarebbe una grande soddisfazione.

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Perché io non sciopero il 5 maggio

Come molti sanno, per il prossimo 5 maggio è stato proclamato uno sciopero unitario di tutto il personale della scuola da parte dei principali sindacati, i quali, dopo un immobilismo durato decenni ed una contrapposizione frontale tra di loro, si sono adesso impegnati a fare muro comune contro la riforma della scuola avviata dal governo Renzi. Pare che l’adesione sarà imponente, almeno nelle città; ma ci saranno anche tanti docenti che, come il sottoscritto, hanno deciso di non aderire a questa forma di protesta perché non ne condividono le ragioni ed i presupposti. Da parte mia i motivi per i quali non intendo affatto scioperare sono principalmente due; potranno sembrare pochi, ma sono di assoluto rilievo. Il primo motivo concerne la natura stessa dello sciopero, che a mio giudizio è ormai diventato uno strumento di rivendicazione del tutto arcaico e obsoleto, che poteva giustificarsi negli anni ’60-’70, quando effettivamente c’era in Italia un clima di “lotta di classe”, tanto per usare un’espressione cara ad una parte politica che non è la mia e che anzi io ho sempre avversato. Oggi nel 2015 esistono altri modi per far sentire la propria voce che non siano la pura e semplice astensione dal lavoro; e se questo vale per le altre categorie, figuriamoci per la scuola, dove lo sciopero, oltre che obsoleto, è anche totalmente inefficace, direi anzi che è controproducente. Quali disagi provochiamo noi docenti alla società se facciamo sciopero? Nessuno, anzi finiamo per avvantaggiare proprio quel governo contro il quale vogliamo protestare, perché lo Stato risparmia circa 70-80 euro per ogni dipendente che si astiene dal lavoro (scusate se è poco!). A parte questo, nient’altro otteniamo, perché il nostro sciopero non provoca alcuna conseguenza: lo Stato risparmia, gli studenti sono contenti di saltare una giornata di lezione e tutto finisce a tarallucci e vino, e gli unici a restare scornati e danneggiati siamo proprio noi operatori della scuola. Ma c’è anche un secondo motivo che mi induce a rifiutare la logica dello sciopero in relazione alla riforma scolastica annunciata da Renzi e dal ministro Giannini, e cioè l’avversione preconcetta che i sindacati e molti docenti hanno per qualunque modifica venga introdotta, da qualsiasi governo, nel mondo della scuola. In questo caso poi le previsioni di molti colleghi, vere e proprie Cassandre del 2000, sono state catastrofiche: con la riforma finirebbe la libertà di insegnamento, si distruggerebbe la scuola pubblica, i docenti diventerebbero schiavi dei dirigenti ecc. ecc. Ci manca solo l’invasione delle cavallette e poi stiamo al completo. Io ho letto più volte il disegno di legge in discussione alla Camera e francamente non vi ho trovato tutte queste catastrofi annunciate. Prima di tutto il superpotere dei Dirigenti scolastici, che sceglierebbero i docenti e potrebbero trasferirli dopo tre anni è già stato superato nei primi passi dell’iter parlamentare: adesso, con le modifiche introdotte, saranno investiti di questi compiti anche gli organi collegiali della scuola, e quindi non ci sarà affatto il preside-padrone di cui si aveva tanto timore. Personalmente, poi, ho sempre pensato che un certo aumento del potere dei dirigenti sarebbe opportuno, soprattutto nei confronti di quei docenti (che sono una minoranza, ma che purtroppo esistono) che non meritano il posto che ricoprono, o per incompetenza nelle proprie discipline o per totale mancanza d’impegno nello svolgere i propri compiti; in questi casi, a mio giudizio, i dirigenti dovrebbero avere il potere di licenziare queste persone che rubano lo stipendio che ricevono, senza tutto quel garantismo sindacale che ha fatto sì che a tutt’oggi, in spregio a quanto si dice e si è detto sui “fannulloni”, certe persone continuino a restare in cattedra indisturbati, nonostante la loro azione sia inutile o addirittura dannosa per intere classi di studenti. Quel che mi stupisce e mi addolora di queste proteste e di questo ribellismo che porta allo sciopero, è il dover notare che molti colleghi non vogliono assolutamente essere valutati, ed anche per questo si oppongono alla riforma. A me sembra che se un docente è in buona fede, sa di essere preparato nelle sue discipline e di avere un’efficace azione didattica, non dovrebbe aver timore di nulla, anzi dovrebbe egli stesso chiedere di essere valutato, soprattutto se a tale valutazione corrispondesse un qualche beneficio economico. Personalmente io auspico e mi auguro che un ispettore ministeriale, competente nelle mie discipline, venga in classe ad ascoltare e valutare le mie lezioni; anzi, la cosa mi farebbe soltanto piacere e da ciò troverei gratificazione. Non vedo quindi il motivo per cui c’è tutta questa paura della valutazione da parte di molti colleghi, che scioperano anche per questo motivo. Forse sono in malafede, o non sono sicuri di se stessi? Se così fosse, non farebbe certo onore ad una categoria che rappresenta la parte intellettuale del Paese ed ha una funzione insostituibile nella società, quella di formare i cittadini di domani. Ed inoltre, non si sostiene forse da molte parti che bisogna prendere esempio dai paesi stranieri? In molti di questi paesi c’è la valutazione delle scuole e dei docenti, perché quindi non introdurla anche da noi, differenziando poi gli stipendi in base al merito? C’è anche da dire che, almeno da parte mia, io trovo in questa riforma annunciata (che probabilmente non andrà mai in porto) anche degli elementi positivi, che i rivoluzionari colleghi non considerano affatto: l’organico funzionale, che se ben realizzato potrà consentire alcuni miglioramenti del’azione didattica come la diminuzione degli alunni per classe; il riconoscimento del merito individuale, per quanto limitato a pochi casi; l’istituzione di un fondo di 500 euro per l’aggiornamento di ogni docente ed altro ancora. Il problema è che da noi protestare, urlare, insultare, salire sulle barricate, impedire a chi la pensa diversamente di parlare sono diventati lo sport nazionale; il non essere mai contenti di nulla, il dover sempre dire di no a tutto e a tutti, il giudicare negativamente qualunque cosa provenga dal governo in carica sono ormai gli atteggiamenti abituali nel nostro Paese, anche a livello di dibattito politico: basti vedere i modi incivili con cui certe opposizioni, come il movimento 5 stelle, si comportano nelle sedi parlamentari. L’esempio che arriva dall’alto scende facilmente in basso, tra i comuni cittadini, soprattutto quando è un esempio negativo; ed è molto più facile distruggere che costruire, come dimostra il fatto che i politici di opposizione ed i sindacati scioperanti contro la riforma Renzi sono stati capaci solo di dire no, senza entrare nel merito e senza chiarire affatto qual è la scuola che vorrebbero e come si dovrebbe realizzare.

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La pagella per i prof.

Augusto Cavadi, filosofo e docente di liceo con un’anzianità di 40 anni, ha pubblicato di recente (il 16 ottobre) un articolo su “Repubblica”, sezione di Palermo, in cui prende parte al dibattito, molto attuale, circa la tanto discussa valutazione delle scuole e dei docenti. La sua proposta, apparentemente provocatoria, mi pare invece attuabile più di altre e soprattutto molto concreta: poiché infatti egli ritiene che ogni docente debba fare carriera in base al merito e non all’anzianità, e che nessuno possa arrivare in cattedra se non per meriti accertati e non tramite sanatorie, avanza la proposta di compilare una “pagella” per ciascun docente in ogni scuola, allo scopo di distinguere i professori veramente preparati e impegnati nel loro lavoro da coloro che avrebbero dovuto scegliere un altro mestiere. Consiglia pertanto di formare commissioni costituite da un docente del consiglio di classe, un rappresentante del personale ATA, un genitore e tre studenti, o meglio tre ex-studenti, che abbiano lasciato la scuola di appartenenza da non più di tre anni. A questi studenti andrebbero rivolte una serie di domande che porterebbero, in base alle risposte, ad assegnare dei voti ai professori e stilarne quindi la pagella. Le domande suddette potrebbero essere, ad esempio: “Il tuo prof. era puntuale a lezione?” “spiegava in modo appassionato o svogliato?”, “faceva monologhi eruditi o si faceva capire bene dagli alunni e li coinvolgeva nella spiegazione?”, “utilizzava bene l’ora a disposizione?”, “era veloce nella revisione dei compiti scritti?”, “sapeva instaurare un buon rapporto con la classe, in modo da evitare sia l’instaurazione di un clima di terrore sia il lassismo e l’indisciplina?”. Secondo Cavadi le risposte più attendibili le fornirebbero gli studenti usciti dalla scuola da non meno di un anno (perché in caso contrario potrebbero avere ancora simpatie o risentimenti verso alcuni docenti), e da non più di tre, perché un tempo troppo lungo potrebbe offuscarne la memoria.
Debbo dire che fino ad ora non conoscevo se non di nome il prof. Cavadi, ma il suo articolo mi trova sostanzialmente d’accordo, tranne che sulla composizione della commissione per la pagella ai professori: non vedo infatti cosa c’entri in essa la partecipazione del personale ATA, che, con tutto il rispetto, non ha certo la competenza per giudicare il lavoro dei docenti. Io vedrei volentieri in questa commissione, oltre al genitore ed agli ex studenti, anche il dirigente scolastico e un docente anziano della scuola che appartenga al medesimo ambito disciplinare del docente da valutare. Chi infatti meglio del Dirigente e dei colleghi anziani può giudicare l’effettivo valore di ogni docente della scuola, che essi conoscono certamente per esperienza? Sono invece d’accordissimo nell’affidare questo compito agli ex-studenti e non agli studenti in corso, perché questi ultimi hanno sì la capacità, ma non la maturità necessaria per giudicare oggettivamente i loro insegnanti. Mi spiego: i ragazzi sanno benissimo chi dei loro professori è più o meno efficace didatticamente, ma sono condizionati dalle valutazioni loro assegnate, alle quali tengono moltissimo: se quindi dovessero dare un parere sui loro insegnanti, non favorirebbero i migliori, ma quelli che danno loro i voti più alti e che li fanno studiare di meno. E non mi si dica che non è vero, perché tutti abbiamo avuto 15-17 anni, e tutti ci saremmo comportati così; una volta usciti dalla scuola, invece, le cose cambiano e lo studente, quando è ormai giunto all’università o nel mondo del lavoro, si rende conto che i docenti didatticamente più validi erano proprio quelli che assegnavano voti bassi e facevano studiare di più, perché solo così si crea la preparazione e la formazione culturale della persona umana. Basta parlare con un ex studente e ci accorgiamo subito che non ha alcuna stima per quei professori che assegnavano voti sufficienti per principio, perché di quelle materie, non essendo stato costretto a studiarle, non ricorda nulla; apprezza invece proprio quei professori che, con la minaccia del voto negativo, costringevano gli alunni a studiare, perché solo così si riesce ad imparare qualcosa.
E’ certo comunque, al di là della proposta di Cavadi, che la valutazione dei docenti andrebbe effettivamente realizzata, perché è profondamente ingiusto e nocivo per l’intera comunità nazionale il fatto che continuino a restare in cattedra persone incompetenti o peggio demotivate, giacché è palese che il primo che deve dimostrare entuasiasmo ed interesse per le proprie discipline è proprio il professore, altrimenti non si può pretendere che gli studenti, che sono in età adolescenziale e quindi estremamente fragili, studino con impegno e volontà. A parer mio, tanto per dirne una, non si dovrebbe permettere ai docenti di esercitare altre attività lavorative (studi legali, professionali ecc.), ma dovrebbero dedicarsi totalmente all’insegnamento, perché è una professione che, se fatta bene, assorbe talmente tante energie da non lasciare spazio ad altro. Ed è una vera e propria catastrofe, secondo me, anche l’intenzione del governo di assumere 150.000 precari senza sottoporli ad un concorso serio e selettivo che ne accerti la reale disposizione all’insegnamento e l’oggettiva preparazione nelle loro discipline. Le immissioni in ruolo “ope legis”, cioè le sanatorie, non esistono in altri ambiti: chi assumerebbe un chirurgo o un pilota di aerei senza un preventivo accertamento delle sue capacità? Alle sanatorie si è fatto invece ricorso – purtroppo – nella scuola italiana molto spesso, a partire dagli anni ’70, e ciò ha provocato disastri inenarrabili, mettendo in cattedra persone assolutamente inadatte a questa professione, che è sì stancante, usurante e difficile, ma anche fondamentale per ogni Paese che voglia definirsi moderno e civile, e non meno importante di quella del chirurgo o del pilota.

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L’angoscia di fine anno scolastico

E’ passato un altro anno scolastico (ahimé, anche un anno di vita!), e siamo giunti ancora una volta agli adempimenti conclusivi, scrutini ed esami di Stato. E puntuali, con queste operazioni, arrivano per il sottoscritto e per molti altri colleghi angosce e arrabbiature, provocate per lo più dal comportamento della maggior parte dei colleghi, sempre più inclini al pressappochismo e ad una forma di ostinato buonismo che, francamente, non si vede quale utilità possa avere per la scuola e per gli studenti stessi. Promuovere tutti o quasi, considerare la bocciatura come un’autentica sciagura che colpisce gli alunni e le loro famiglie peggio di un terremoto o una malattia mortale, aumentare sistematicamente le valutazioni a tutti come se ciò fosse un obbligo o una benemerenza, sono eventi che si verificano in ogni scrutinio, o quasi. E’ sconcertante l’incoerenza di certi docenti, che per tutto l’anno scolastico hanno ostentato severità e professionalità, si sono detti sempre favorevoli alla non promozione di certi alunni, e poi invece, misteriosamente, si presentano allo scrutinio con tutte sufficienze e caldeggiano la promozione proprio di coloro che fino a pochi giorni prima avevano asserito di voler bocciare. Di questi atteggiamenti si incolpano di solito i Dirigenti, ma spesso non è così: un Dirigente non può opporsi alla non promozione di un alunno se questo presenta diffuse e gravi insufficienze; sono i docenti che abdicano vergognosamente alla loro professionalità, senza curarsi della pessima figura che fanno di fronte ai colleghi ed agli stessi studenti, giudici più obiettivi di noi per quanto concerne la valutazione di ciascuno di loro.
Mi sono chiesto tante volte da cosa dipenda questo buonismo assurdo che vanifica l’azione educativa di un intero anno scolastico ed è causa di profonde ingiustizie, prima fra tutte quella di porre sullo stesso piano (con gli stessi voti e lo stesso credito) coloro che hanno raggiunto la sufficienza piena con uno studio serio e costante e coloro che invece si sono dati alla bella vita e non hanno mai meritato la promozione. Fino a qualche anno fa vedevo la causa principale del buonismo nel perdurare della nefasta ideologia sessantottina, dalla quale molti docenti erano stati contaminati benché spesso non direttamente (anche perché troppo giovani, nel ’68 e nei primi anni 70), e nel pedagogismo deteriore che ancor oggi mantiene pericolosi strascichi, come rivelano certe opinioni espresse anche sui blog scolastici dove si parla ancora di “scuola libertaria”, di lotta al cosiddetto “autoritarismo” (ma chi l’ha visto mai?) o di altre scemenze simili. Di recente però, con l’attenuarsi della politicizzazione e con il declino delle ideologie, è forse da supporre che le cause di questa sciatteria e di questo buonismo scolastico siano altre: un malinteso senso di paternità, ad esempio, o più spesso di maternità, che induce certi docenti a considerare i loro alunni quasi come fossero tutti loro figli, da coccolare e da viziare con ogni mezzo. Niente bocciature quindi, ché altrimenti i poveri figlioli ci restano male, subiscono un trauma psicologico irrimediabile. A me sembra che il trauma più grave che possa subire uno studente è l’essere costretto, con una promozione non meritata, a seguire un programma e dei contenuti per la cui comprensione non ha le basi, il che lo porterà l’anno successivo a sostenere una fatica superiore alle sue forze; a meno che non si comporti come l’anno precedente, convinto che in qualche modo continuerà a farla franca. Ma l’imperante buonismo deriva anche da ragioni meno nobili, che sono però molto presenti e condizionanti nella nostra scuola: la paura di perdere classi, ad esempio, con relativa diminuzione delle ore di servizio e quindi di posti di lavoro. Questa motivazione, benché inaccettabile, è però comprensibile da parti di docenti che potrebbero rischiare, l’anno successivo, di essere sbattuti a 100 km di distanza dalla loro sede. Ma a questa se ne aggiunge sovente un’altra ben più ignobile e meschina, il desiderio cioè di non avere fastidi da parte dei genitori, del Dirigente o di altri ancora: meglio promuovere tutti, così nessuno si lamenterà, nessuno protesterà per un insegnamento carente di chi non merita il posto che ricopre e lo stipendio che riceve, poiché si sa che i genitori, quando importunano i Dirigenti con le lamentele contro i docenti, non lo fanno se questi ultimi sono didatticamente inefficaci o impreparati nelle loro discipline, ma soltanto quando assegnano valutazioni basse. Si alzano quindi i voti a tutti, si largheggia con i 9 e i 10, così i genitori potranno vantarsi con gli amici della bravura dei loro figli e si dimenticheranno anche dei casi in cui i docenti di italiano compiono errori di ortografia o quelli di matematica non riescono a determinare l’esatto risultato degli esercizi.
Purtroppo questo succede nella scuola italiana, da moltissimi anni; ma se prima c’era la copertura ideologica, oggi ci sono ragioni molto meno confessabili. E’ triste questa situazione, che a me procura ogni anno angoscia e depressione, perché da sempre credo di avere il senso della giustizia e ritengo inammissibile porre sullo stesso piano studenti con capacità e rendimento totalmente diversi. Lo scrivo qui sul blog nella speranza che qualcuno che ha in mano le leve del potere lo legga e ne prenda coscienza. So che è ben difficile che qualcosa cambi, perché in oltre trent’anni di insegnamento ho sempre combattuto contro il buonismo ipocrita di certi colleghi, che mi hanno messo in minoranza nei consigli di classe e quindi costretto ad accettare le loro cialtronerie; ma la speranza, come si dice, è l’ultima a morire, e poi, se non otterrò alcun risultato, avrò almeno la soddisfazione di essermi sfogato.

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