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Il futuro esame di Stato

E’ mia abitudine, totalmente diversa da quella di tante altre persone, accogliere con benevolenza le leggi e le riforme che si presentano come un rinnovamento dell’esistente; magari poi mi debbo ricredere, ma sul momento non sono mai pregiudizialmente contrario a ciò che viene presentato come nuovo, specie in ambito scolastico. Così avvenne nel 2015 per la riforma scolastica del governo Renzi, detta “La buona scuola”, che all’inizio io accolsi quasi con entusiasmo, soprattutto perché introduceva finalmente il principio della rimunerazione dei professori in base al merito, ossia il famoso “bonus” concesso dal dirigente scolastico ad alcuni docenti di ogni scuola; poi però, quando ho constatato che il premio veniva concesso non ai docenti più bravi per preparazione o competenza didattica ma a coloro che organizzano attività extrascolastiche, gite o comunque eventi che nulla c’entrano con la didattica, ho cambiato completamente idea. Speriamo che questo non si verifichi per il nuovo esame di Stato della scuola secondaria di II° grado, che dovrebbe partire dal prossimo anno 2019.
Per dare un giudizio definitivo su questo cambiamento (io non lo definirei proprio una riforma) occorre ovviamente attendere la sua applicazione, almeno nel primo anno; per adesso, tuttavia, la nuova proposta mi sembra positiva per diversi aspetti, mi pare cioè che renda giustizia a studenti e professori più di quanto non sia avvenuto finora. Può darsi che mi sbagli e che il mio ottimismo venga smentito fin dal primo anno, com’è avvenuto con il “bonus docenti” della legge 107; per adesso, però, voglio sperare che sia un effettivo miglioramento, anche perché mi pare strano che ogni volta che si mette mano alla scuola si commettano sempre errori ed orrori, come il pessimismo nostrano tende a credere.
Nella struttura del nuovo esame ci sono, a mio giudizio, almeno tre elementi positivi: l’aumento del credito scolastico (da 25 punti a 40), cioè la percentuale che sul voto finale avrà l’andamento didattico dello studente negli ultimi tre anni, l’abolizione della terza prova scritta e quello della cosiddetta “tesina”, l’argomento cioè che i candidati dovevano scegliere di loro iniziativa ma che spesso era scadente, poco coerente con il corso di studi scelto e non di rado persino copiato di sana pianta da internet. Anche la terza prova è bene che sia stata abolita, perchè era un salto nel buio con domande piuttosto nozionistiche e afferenti a materie molto diverse tra loro (es. latino, storia, scienze, matematica), che finiva per accertare soltanto il possesso di nozioni e dati oggettivi senza che da ciò emergessero le qualità intuitive, argomentative e logiche dello studente. Quanto al credito, io ritengo che si dovrebbe arrivare addirittura ad attribuigli 50 punti su 100, cioè la metà del totale, perché non mi pare giusto ciò che spesso è accaduto finora, quando uno studente dal profitto sempre eccellente, magari per una prestazione non brillante in sede d’esame, si vedeva attribuire un voto molto più basso di quel che avrebbe meritato; e d’altra parte va detto che in diverse occasioni avveniva anche il contrario, cioè che studenti dallo scarso impegno e capacità, magari per un colpo di fortuna durante il colloquio d’esame, ottenevano voti molto più alti del dovuto. Il curriculum scolastico e l’esame dovrebbero avere lo stesso peso nel giudicare un alunno, in modo che la valutazione finale sia equa ed obiettiva.
Per quanto attiene specificamente al Liceo Classico, scuola dove ho insegnato latino e greco per 40 anni, io accolgo con grande soddisfazione la notizia del cambiamento cui sarà sottoposta la seconda prova scritta, quella che riguarda le materie caratterizzanti il corso di studio. Dal 1923 (riforma Gentile) al 2018 – quindi per quasi un secolo – questa prova è consistita nella traduzione in italiano di un brano di prosa latina o greca, senza contestualizzazione, senza alcuna nota e senza che gli studenti potessero scegliere alcunché; questa prova quindi, antiquata e sempre uguale a se stessa, non ha mai subito alcuna modifica, mentre negli altri licei ci sono stati cambiamenti significativi: allo scientifico, ad esempio, gli studenti potevano scegliere tra due problemi e dieci quesiti, e ovviamente sceglievano quelli che sapevano svolgere meglio. Al Classico tutto fermo, bloccato per quasi un secolo, con brani da tradurre che sono diventati sempre più difficili nel corso degli anni, in netto contrasto con quella che è la realtà dei giovani di oggi, che non hanno più neanche lontanamente le conoscenze e le capacità necessarie per tradurre brani astrusi e dottrinari come quello di Aristotele assegnato quest’anno, al cospetto del quale quello che tradussi io nel 1973, quando detti l’esame di maturità, era una sciocchezza. Ho sempre pensato che questo inasprimento dei brani da tradurre fosse dovuto ad un piano preordinato per penalizzare il Liceo Classico, al fine di distruggere una scuola che forma le coscienze e crea il pensiero autonomo spingendo gli studenti a non iscrivervisi in quanto “scuola difficile”. Altri miei colleghi mi hanno detto però che io sbagliavo a tracciare questa dietrologia, e che il motivo di scelte così assurde e inopportune da parte del Ministero fosse frutto di semplice incompetenza. Comunque sia, l’ingiustizia che subivano gli studenti del Classico nei confronti dei compagni di altri licei era evidente, tanto più che al giorno d’oggi le traduzioni autonome sono molto rare, i ragazzi molto spesso scaricano le versioni da internet e non si mettono più col vocabolario a passare ore a “fare la versione”, come facevamo noi studenti di 40 anni fa. Il diffondersi di internet e delle nuove tecnologie, che sviluppano determinate qualità mentali ed inibiscono proprio quelle che sono necessarie per l’analisi dei testi, ha fatto il resto, e la conclusione ovvia è che la traduzione dal latino e dal greco è ormai diventata un lavoro da esperti filologi, non più alla portata di studenti liceali. Di qui la necessità del cambiamento, dalla constatazione della situazione di fatto, che non si può nascondere facendo finta che i nostri ragazzi siano ancora in grado di tradurre un difficilissimo brano di Aristotele in poche ore, cosa che è del tutto falsa. Si tratta di pura ipocrisia, dimostrata non solo dai funzionari ministeriali, ma anche da quei colleghi conservatori, sostenitori dell’insegnamento pedante e minuzioso, che vede nella traduzione l’unica competenza degna di essere presa in considerazione per valutare un alunno. No, signori, la realtà è ben diversa: la traduzione è solo uno dei tanti metodi per avvicinarsi al mondo classico; esistono tanti altri approcci come quello artistico, letterario, filosofico, antropologico ecc. che resteranno certamente nella mente degli studenti più delle regole grammaticali e delle eccezioni fatte imparare a memoria.
Adesso la nuova seconda prova del Liceo Classico consisterà in un brano da tradurre lungo circa la metà dei precedenti; e si spera che chi lo sceglierà si orienti verso testi di tipo storico-narrativo, gli unici in cui gli studenti hanno una qualche probabilità di riuscire. Alla traduzione si affiancheranno domande di tipo formale (lingua, stile, retorica) ma anche storico-letterario, forse anche dell’altra materia rispetto a quella del brano da tradurre; la prova potrà infatti riguardare sia il greco che il latino, così come avverrà allo Scientifico con matematica e fisica. Ciò consentirà una valutazione più equa ed equilibrata dello studente, perché anche chi ha difficoltà nella traduzione (cioè la grande maggioranza dei ragazzi di oggi) avrà modo di rispondere alle domande e mettere in luce almeno una parte della sua preparazione. Il cambiamento era assolutamente necessario, e per questo io ho combattuto per anni anche da questo blog e scrivendo più volte al Ministero, da cui ho ottenuto risposte concilianti. Non si tratta di una resa, di una facilitazione dell’esame, come i barbogi conservatori chiusi nella Torre d’Avorio del classicismo continuano a sostenere; si tratta di un adeguamento della scuola alla società ed alla scuola attuali, che non possono più essere quelli del 1923, se si considerano gli enormi cambiamenti del costume avvenuti anche solo negli ultimi trent’anni. Con l’ipocrisia di chi voleva far sembrare che nulla fosse cambiato e che il Liceo Classico fosse ancora quello dei tempi di Gentile, cosa si è ottenuto? Che all’esame di Stato la versione veniva copiata da internet, oppure che i professori la svolgevano e poi la passavano agli alunni, del tutto incapaci di farla da soli. Non mi pare che questo comportamento sia in linea con i principi di trasparenza e di onestà che, in uno Stato civile, l’istituzione scolastica dovrebbe considerare come la sua prima e più importante funzione.

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La presenza del latino nei nostri Licei

Per parte mia ho sempre sostenuto che il latino, inteso come studio sia della lingua che della storia letteraria corredata dalla lettura diretta dei classici, è una materia altamente formativa, sia perché la nostra cultura italiana ha in gran parte origine da quella degli antichi Romani sia per il fatto che tale studio sviluppa le capacità intellettive e critiche dell’individuo; di questo sono stato e sono fermamente convinto, tanto che qualche volta, con buona pace di chi la pensa diversamente, mi sono anche spinto a dire – forse esagerando – che i corsi liceali dove manca il latino non sono da considerarsi veri licei ma piuttosto istituti tecnici camuffati sotto falso nome.
Senza rientrare qui nel secolare problema dell'”utilità” del latino (e del greco per quanto riguarda il Liceo Classico), un concetto per il quale rimando al bellissimo libro di Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile, ed. Bompiani, su cui ho scritto un post su questo blog un paio di anni fa, vorrei adesso posare lo sguardo sullo stato reale in cui si trova questa disciplina nei licei italiani, dove evidentemente qualcosa non va sotto questo profilo. Al Liceo Scientifico, dopo le proteste dei tecnocrati che lamentavano il fatto che in quella scuola il latino avesse addirittura più spazio della matematica (orrore!), è intervenuta la malfamata riforma Gelmini a tagliare drasticamente le ore settimanali dedicate alla materia: da 4/5 nel biennio e 4/3 nel triennio si è passati a 3 ore settimanali in tutto il quinquennio, lasciando però inalterati i programmi. Si è voluto così, come si dice in Toscana, “fare le nozze con i fichi secchi”, sottoponendo docenti ed alunni ad una maggior fatica per poi ottenere risultati inferiori, perché è evidente che ciò che si faceva in cinque ore non lo si può fare in tre; l’esito dell’operazione è stato un forte abbassamento del livello culturale raggiunto dagli studenti, benché in molti Licei Scientifici (tra cui quello della mia città) i docenti abbiano continuato a lavorare seriamente e con grande professionalità. La perdita comunque c’è stata, non lo si può negare; e questo, cari signori sostentori della scienza e della tecnica, non avvantaggia certamente i ragazzi di quel Liceo, che si vedono parzialmente privati di una fonte di cultura che era fondamentale nella loro formazione e che li aiutava a ragionare autonomamente e criticamente. Ancora peggiore è la situazione nei licei Linguistico e delle Scienze Umane, dove le ore dedicate al latino sono talmente esigue da non consentire uno studio serio della materia, a prescindere dal valore didattico e culturale dei docenti. Al Linguistico addirittura il latino è presente solo nei primi due anni di corso, con due ore settimanali: in queste condizioni credo che neanche Cicerone in persona sarebbe capace di insegnare in qualche modo la sua lingua e la sua letteratura.
Nella fattispecie quindi, ad eccezione del Classico, negli altri Licei lo studio del latino è diventato poco più di una pura formalità, che lascia poco o nulla nel bagaglio culturale degli studenti dopo i cinque anni di corso. Allora io lancio una proposta, che non è nuova ma che non tutti conoscono e che spesso anche chi conosce dimentica: piuttosto che tormentare i ragazzi con la grammatica e la sintassi, di cui poi non rimane nulla, non sarebbe meglio abolire del tutto lo studio linguistico del latino, riservandolo soltanto al Classico? Piuttosto che fare poco e male, con alunni che dopo anni di corso non conoscono ancora le declinazioni nominali e le coniugazioni verbali, non potremmo trasformare la materia da “Lingua e cultura latina” in “Cultura classica”? Mi spiego. Potrebbe essere introdotto in tutti i corsi liceali un insegnamento di letteratura e civilizzazione greca e latina che preveda la conoscenza degli autori principali (anche con opportuni confronti con i poeti e gli scrittori moderni), letti però non in lingua ma in traduzione. Oggi esistono in commercio ottime traduzioni di tutti i principali autori antichi, alle quali si potrebbe ricorrere per far conoscere direttamente le loro opere agli studenti, i quali li leggerebbero in italiano e potrebbero quindi comprenderli senza scervellarsi con il vocabolario per tradurre, in modo osceno ed imprecando, dei pezzettini isolati di prosa. I testi tradotti potrebbero essere contenuti in manuali di storia letteraria che introducano le varie epoche storico-letterarie ed illustrino il pensiero ed il valore letterario de singoli autori. Del resto, non è forse vero che tutti noi utilizziamo le traduzioni quando vogliamo leggere un’opera scritta in una lingua che non conosciamo? Io, ad esempio, sono un appassionato di letteratura russa, ho letto tutto Dostoevskij tanto per fare un esempio, eppure non conosco una parola di russo. Perché non si può fare lo stesso con gli autori antichi, estendendo la conoscenza di essi anche al mondo greco e dando così anche ai ragazzi che non scelgono il Liceo Classico la possibilità di conoscere i grandi testi del mondo antico che hanno fortemente influenzato e formato la nostra cultura moderna? A questo riguardo è inutile che mi si dica che gli autori classici (specie i poeti) vanno letti nella loro lingua per essere veramente compresi. E’ vero, ma se ragioniamo così noi limitiamo la conoscenza di quel mondo ai pochi, pochissimi filologi che sanno orientarsi bene nelle lingue antiche, cosa che attualmente non riesce bene neanche agli studenti del Classico. E’ da ipocriti far finta di non sapere che oggi gli studenti di tutti i Licei dove c’è il latino non traducono più da soli ma scaricano le versioni già tradotte da internet; diventa quindi una farsa inutile pretendere quello che non è più possibile. E se al Classico deve giustamente restare lo studio linguistico e debbono essere tenacemente ostacolate le copiature, esso potrebbe tranquillamente essere abolito negli altri corsi, dove ormai è diventato una formalità senza valore. E’ arrivato il momento, secondo me, di avvicinare gli studenti di quei Licei al mondo classico in altra maniera, utilizzando testi tradotti ed illustrati dai manuali e dai docenti. Sono certo che a quegli alunni resterebbe molto più latino di quanto non ne resti oggi, quando ormai è diventato una Cenerentola, una materia trascurata e spesso inutile.

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Esame di Stato 2017: errori e incoerenze del MIUR

Le contraddizioni e le incoerenze del Ministero dell’istruzione in materia di esami di Stato e di concorsi sono a tutti note, tanto che c’è appena la necessità di ricordarle, e del resto ne ho parlato in alcuni post degli anni precedenti. Quest’anno però, in particolare nei Licei Classico e Scientifico, si sono verificate ulteriori incoerenze che dimostrano l’assoluta incompetenza dei funzionari ministeriali per quanto attiene al funzionamento effettivo del nostro sistema scolastico. Al Liceo Classico si attende da anni la riforma della seconda prova scritta, perché è noto a tutti che la traduzione pura e semplice di un unico brano imposto dal Ministero e non ben calibrato dal punto di vista della difficoltà è ormai un esercizio pressoché inaccessibile alla maggior parte degli studenti; avvverrà così, come già è ampiamente attestato in tanti licei, che la “versione” sarà copiata da internet tramite cellulare oppure si troverà qualche professore compiacente che darà… un aiutino ai ragazzi (eufemismo per non dire che la farà al posto loro). Da anni molti di noi si sono attivati per ottenere una modifica di questa prova, ovviamente non sopprimendo del tutto il lavoro di traduzione, ma affiancandolo con domande di civiltà classica o storia letteraria, in modo da dare alla maggioranza degli studenti la possibilità di evitare il fallimento totale.
Oltre a questo problema irrisolto, quest’anno se n’è aggiunto un altro, mai verificatosi prima: l’italiano è materia affidata al commissario esterno per il secondo anno consecutivo, e ciò è insolito ma comunque prevedibile; la cosa più strana e controproducente, invece, è che per questa materia sono stati nominati commissari titolari nella classe A052 (materie letterarie, latino e greco). Ora, è cosa lampante e a tutti nota il fatto che i docenti della A052 insegnano normalmente nel triennio conclusivo del Liceo Classico soltanto latino e greco, mentre l’italiano è affidato di norma ai colleghi della classe A051. E’ vero che chi è di ruolo per la A052 è abilitato anche per l’insegnamento dell’italiano, ma quasi sempre lo insegna soltanto al biennio, e non ha quindi una preparazione e un’esperienza tali da consentirgli di ricoprire in modo dignitoso e autorevole la funzione di commissario esterno, perché il programma delle classi quinte (la letteratura dei secoli XIX e XX e il Paradiso di Dante) va conosciuto in modo appprofondito per poter sostenere la correzione degli elaborati d’esame ed il colloquio orale. Ciò provocherà (anzi ha già provocato) una marea di rinunce da parte dei docenti nominati come esterni per l’italiano, tranne quei pochi (come il sottoscritto) che hanno deliberatamente chiesto al proprio Dirigente di poter avere l’insegnamento dell’italiano nel triennio del Classico. E da ciò nasce il caos delle sostituzioni e della ricerca dei sostituti da parte degli Uffici provinciali e delle scuole, con relativa perdita di tempo e di energie.
Un altro pasticcio il Ministero l’ha fatto al Liceo Scientifico, dove si attendeva da qualche anno la seconda prova scritta di fisica anziché la tradizionale di matematica. Dopo aver lasciato credere a tutti che tale sarebbe stata la prova, e dopo aver spedito alle scuole anche esempi di svolgimento di prove di fisica, il Ministero ha cambiato idea l’ultimo giorno utile (sembra per intervento dello stesso ministro Fedeli) e ha riproposto la prova di matematica, inserendo però la fisica tra le materie affidate al commissario esterno. Anche qui si è creato il caos, perché i docenti di matematica delle varie quinte sono impegnati come membri interni per le loro classi, e non possono quindi essere nominati come esterni per la fisica. Chi svolgerà quindi questo compito? Probabilmente i docenti del biennio, che insegnano solo matematica (o al massimo la fisica ma nel biennio), che quindi anch’essi – come i colleghi della classe A052 al Classico – non hanno in genere la necessaria conoscenza di un programma complesso e da poco rinnovato qual è quello della fisica nelle classi terminali dello Scientifico.
Queste che ho trattato sono le due cialtronerie fatte dal Ministero di cui io sono a conoscenza, ma certamente ci saranno anche altre incoerenze e contraddizioni, alle quali purtroppo siamo abituati. La sensazione che io ho di questa situazione è che al Ministero dell’istruzione s’intendano di tutto fuorché di didattica, e che la burocrazia irrazionale, oggi aiutata e peggiorata anche dall’informatica, la faccia da padrona. Ritengo quindi vero ciò che molti da tempo stanno pensando: che se il sistema scolastico italiano si regge ancora in piedi il merito di ciò sta nella buona volontà e nel grande impegno di molti docenti, i quali sono ormai avvezzi a “tappare i buchi” fatti da altri e continuare a tirare la carretta per non veder crollare tutto l’edificio. Speriamo che ci sia sempre chi ama questa professione al punto da farne una missione, sopportando così tutte le cialtronate e gli errori che vengono dall’alto. Ma la pazienza ha un limite, e questo limite per molti è sempre più vicino.

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Bilancio dell’anno scolastico trascorso

Con la conclusione dell’esame di Stato, con il quale i miei studenti sono stati tutti felicemente promossi, è terminata l’attività didattica di quest’ultimo anno scolastico 2015/16 e sono iniziate anche per noi le vacanze. Detto per inciso che queste vacanze non sono così lunghe come l’opinione pubblica mostra di credere, poiché a fine agosto saremo di nuovo a scuola per le prove di recupero dei debiti formativi, è tempo di fare un bilancio dell’anno scolastico trascorso, che non è stato esattamente uguale ai precedenti; vi sono state infatti novità di tipo legislativo che riguardano la scuola nel suo insieme, ma anche una percezione diversa del mio lavoro dal punto di vista personale.
Per quanto concerne il primo aspetto, vi sono stati elementi nuovi legati alla legge cosiddetta della “Buona scuola”, che non mi hanno particolarmente entusiasmato, anzi mi hanno in gran parte deluso. In primo luogo ho notato che è stato immesso in ruolo un gran numero di docenti, alcuni dei quali senza un effettivo accertamento delle proprie capacità culturali e didattiche. Tutti sostengono di aver “vinto un concorso”, ma molto spesso si è trattato di stabilizzazione di rapporti lavorativi precedenti prestati con abilitazioni conseguite in modo vario e non sempre rigoroso; è vero che questo è sempre successo, in quanto i docenti vincitori di concorso ordinario a cattedre saranno al massimo il venti per cento del personale in servizio, ma stavolta la sanatoria mi è sembrata veramente enorme, anche perché avvenuta in seguito a uno dei soliti diktat dell’Europa di cui noi italiani siamo sudditi più che protagonisti. Ma ciò che è più bizzarro è che questa sanatoria non si è limitata a coprire i posti vacanti, ma sono stati immessi in ruolo addirittura circa 50.000 docenti in più rispetto agli organici, quelli che sono andati a formare il cosiddetto “potenziamento”: in base a ciò ogni scuola ha avuto un certo numero di insegnanti in più rispetto al necessario, che sono stati impiegati per lo più in supplenze e corsi di recupero, ma che in realtà hanno passato molto tempo a girovagare per i corridoi o a giocare col cellulare in sala docenti mentre noi, professori di ruolo con sede assegnata in precedenza, abbiamo dovuto continuare a fare le nostre 18 ore, con relativo impegno pomeridiano nella correzione dei compiti, nell’aggiornamento ecc. A me questa situazione è parsa un po’ bizzarra, soprattutto il fatto che, con la crisi economica e il debito pubblico che ci ritroviamo, siano stati pagati così tanti stipendi in più del dovuto. Francamente mi è sembrato uno spreco di denaro pubblico; ma può darsi che mi sbagli e che questa impressione derivi dal mio noto conservatorismo.
A questa bella novità se ne sono aggiunte altre, come la famigerata alternanza scuola-lavoro, che quest’anno ha coinvolto le classi terze ma che è destinata, entro due anni, a toccare tutte le classi del triennio conclusivo degli studi. Non so per quanto dovrò sopportare questa situazione perché sono vicino alla pensione; ma la cosa in sé mi è sembrata un assurdo per i Licei, che forniscono una formazione culturale rivolta all’astrazione ed al pensiero autonomo che ben poco ha a che vedere con le aziende ed il lavoro manuale. Più che altro questo provvedimento mi sembra un’ulteriore concessione del governo a quella mentalità aziendalistica ed economicistica che purtroppo da tempo coinvolge anche il nostro sistema educativo. Secondo questa mentalità bisogna studiare solo ciò che “serve” nella pratica quotidiana, e questo è quanto di più assurdo ed alieno possa esservi dall’impostazione culturale su cui si sono basati per decenni i Licei, specie il Classico e lo Scientifico. Ma anche questa mia contrarietà può spiegarsi con il mio conservatorismo e con la mia età: si sa, dopo i sessant’anni non si può più andare al passo coi tempi e soprattutto con il pensiero delle nuove generazioni che ci stanno governando o aspirano a governarci.
Queste novità legislative sono quelle che più mi hanno colpito e reso perplesso di quest’ultimo anno scolastico; ma qualcosa è cambiato anche dal punto di vista mio personale, all’interno della mia scuola e delle altre del territorio che ben conosco. Ho avuto l’impressione che quel che oggi più conta nell’attività del docente non sia più la sua preparazione, la sua efficacia didattica, i principi morali e civili che riesce a trasmettere ai suoi alunni, bensì la capacità di assumersi incarichi al di fuori del lavoro in classe, la volontà di organizzare eventi e progetti che giovino all’immagine esterna dell’istituto, la tendenza a creare con gli studenti un rapporto “tranquillo” che non provochi tensioni o problemi con le famiglie e che alla fine lasci tutti contenti. Un po’ è sempre stato così, il professore molto esigente che dà anche voti bassi quando è necessario viene osteggiato, mentre quello che fa l’amico dei ragazzi e li gratifica con buoni voti è sempre risultato più simpatico; ma adesso mi sembra che questo andazzo sia andato rafforzandosi e che si stia diffondendo l’abitudine di attirarsi la simpatia di alunni e famiglie con atteggiamenti compiacenti, amichevoli, a volte anche adulatori, che francamente non mi sembrano confacenti ad una visione seria ed efficace del rapporto educativo. Io probabilmente sbaglio nel senso opposto perché ho ritenuto ed ancora ritengo che il bravo docente sia colui (o colei) che insegna con competenza le sue materie e non concede troppa confidenza agli alunni, non crea un rapporto di “complicità” che all’inizio sembra piacevole ma che poi risulta deleterio per la formazione dei ragazzi e la loro futura capacità di affrontare i problemi della vita. Chi ha sempre la strada spianata non riuscirà ad affrontare la prima difficoltà che gli si porrà davanti. Io la penso così, ma forse anche questo va attribuito al mio conservatorismo ed alla mia età ormai non più verde; oltretutto mi sto accorgendo che noi docenti “anziani” stiamo andando incontro alla “rottamazione”, ad essere soppiantati dai colleghi più giovani, la generazione per intenderci dai 35 ai 50 anni, dotati di uno slancio vitale e di un entusiasmo ben maggiori dei nostri, legati come siamo ad una visione della scuola ormai inveterata. E’ il nuovo che avanza, nel bene e nel male.
Detto questo, mi propongo per tutta l’estate di non parlare più di scuola, perché le vacanze debbono essere anche mentali, nel senso che occorre liberarsi per un po’ dai problemi quotidiani del nostro lavoro che ci affliggono per dieci mesi e più all’anno. In questo periodo, almeno fino a settembre, parlerò d’altro: questioni sociali e politiche, recensioni di libri o altri argomenti culturali, fatti di cronaca. Con la scuola voglio chiudere, almeno per qualche settimana, anche perché il blog non è stato creato a senso unico ma per tutto ciò che mi può interessare o in cui sento di avere qualcosa da dire.

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Il dibattito sulla seconda prova del Liceo Classico

Dopo aver commentato negativamente, dal mio punto di vista, la scelta del MIUR di assegnare come seconda prova dell’esame di Stato del Liceo Classico un lungo e non facile brano di Isocrate, vorrei esprimere la mia opinione su un dibattito che si è riacceso in questi ultimi tempi, quello cioè sull’utilità delle traduzioni fatte dagli studenti e, di conseguenza, sulla necessità di cambiare o meno la suddetta prova d’esame. Questa, lo sottolineo, consiste per i ragazzi del Liceo Classico in una traduzione pura e semplice, buttata là dal Ministero e non contestualizzata, che è rimasta, sottolineo ancora, invariata per quasi un secolo (dalla riforma Gentile del 1923), mentre in tutti gli altri Licei vi sono state variazioni e possibilità di scelta da parte degli studenti tra due problemi, due temi o alcuni quesiti. Chi ha seguito questo dibattito, anche sul gruppo Facebook “Il greco antico” cui anch’io sono iscritto, sa che gli argomenti in campo sono due, perché, oltre alla questione della prova del Classico, ci si è spinti a parlare dell’utilità della traduzione dalle lingue classiche in generale.
Ai poli opposti della questione stanno due eminenti personalità della cultura italiana: il filologo Maurizio Bettini, direttore dell’Istituto AMA (antropologia del mondo antico) dell’Università di Siena, che ha pubblicato un articolo su “Repubblica”, e la scrittrice ed ex insegnante liceale Paola Mastrocola, che ha replicato a sua volta sul “Sole 24 ore”. Altri studiosi hanno detto la loro opinione, ma sarebbe troppo lungo enumerarli tutti. Mi riferirò quindi solo a questi due ed alle loro argomentazioni.
Tanto per chiarire, Bettini non ha mai affermato che l’esercizio di traduzione non serva o che vada abbandonato. Ha soltanto detto che la sola traduzione, tra l’altro di un brano sconosciuto e messo davanti agli studenti la mattina dell’esame, non deve essere l’unico parametro per valutare le loro competenze della materia; se proprio si vuole che i ragazzi traducano un brano di greco, lo si proponga più breve di quello assegnato e gli si affianchino domande di stile, di cultura greca o latina, dalle quali emergano le conoscenze dello studente non limitate al puro aspetto linguistico. La Mastrocola ribatte, anche con il titolo provocatorio del suo articolo (Contro la scuola facile) che così facendo si impoverisce il contenuto dell’esame, lo si rende troppo semplice e banale, togliendo alla scuola uno dei pochi esercizi “difficili” e quindi formativi che ancora vi rimangono, cioè la traduzione. E fa paragoni poco pertinenti, quando ad esempio dice che cambiare la seconda prova del Classico equivarrebbe a ciò che fanno in certe città inquinate dallo smog, dove, invece di rendere l’aria più salubre, abbassano la soglia di pericolo.
Tra queste due posizioni contrastanti io abbraccio totalmente la prima, e per diverse ragioni. Anzitutto la Mastrocola interpreta male le affermazioni di Bettini in quanto le vede come un invito ad abbandonare lo studio linguistico e l’esercizio di traduzione, cosa che lui non ha mai affermato. E’ chiaro che nel Liceo Classico si deve continuare a studiare grammatica greca e latina ed a fare traduzioni, ma è certamente eccessivo fondare la valutazione di uno studente soltanto su queste capacità; perché è vero che esiste anche la terza prova e l’orale dove emergono altre competenze, ma la prova scritta conta da sola 15 punti, che incidono non poco sul voto finale. Non si tratta quindi di abolire lo studio linguistico, ma solo di integrare la traduzione della prova d’esame con altre domande ed esercizi, con una contestualizzazione del testo proposto che permetta allo studente di ragionarvi sopra, di comprendere ciò che ha tradotto e di collocarlo nel contesto storico e culturale in cui quell’autore si è espresso. Non mi sembra affatto una facilitazione, è invece la richiesta di una comprensione più completa ed esaustiva. Del resto, aggiungo io, è più facile che negli anni futuri gli studenti ricordino il pensiero di Orazio o di Isocrate piuttosto che l’ablativo assoluto o l’aoristo passivo.
Bisogna però dire che Bettini è un professore universitario che non conosce molto la realtà dei Licei, mentre la Mastrocola è stata sì un’insegnante, ma adesso è in pensione da tempo e fa la scrittrice; non è in quindi in contatto diretto con la scuola, ed in più mostra di avere di essa una concezione romantica e idealizzata che non corrisponde alla verità. E qui mi inserisco io con le mia argomentazioni. Tutti noi vorremmo la scuola ideale, quella in cui gli studenti sanno tradurre benissimo dal greco e latino, sanno risolvere i più astrusi problemi di matematica, parlano perfettamente inglese, sono veri e propri programmatori informatici e via dicendo. Ma purtroppo non è così, la realtà è molto diversa da quella ideale che la Mastrocola ha in mente. Oggi i ragazzi arrivano ai Licei che spesso non sanno neppure cosa siano il soggetto e il complemento, come in matematica spesso non sanno neanche le tabelline. Come è possibile in cinque anni trasformarli in geniali traduttori, considerato anche tutto il tempo che perdiamo in assemblee, gite, conferenze, vacanze e chi ne ha più ne metta? Dirò anzi di più: che con questa buffonata dell’alternanza scuola-lavoro, d’ora in poi gli studenti impareranno anche meno delle discipline tradizionali, perché avranno oggettivamente meno tempo da dedicare allo studio. Riguardo al latino ed al greco, di cui mi intendo un po’ perché li insegno da 36 anni, c’è anche altro: la presenza di internet è stata micidiale per queste discipline, non solo perché i ragazzi non esercitano più le qualità d’intuito, di riflessione e di ragionamento, dato che al minimo dubbio c’è Wikipedia che soccorre e che offre tutto bello e pronto senza doverci arrivare col proprio cervello, ma anche perché proprio le traduzioni, che la Mastrocola ama tanto, vengono ormai scaricate e copiate da certi siti (che io chiamo siti canaglia) che le mettono a disposizione gratis e senza alcuno sforzo. In queste condizioni, come si può pretendere che degli studenti che ormai non traducono più autonomamente nonostante i richiami continui dei docenti (vox clamantis in deserto) e che non hanno neanche adeguate basi linguistiche di italiano, possano tradurre con precisione sintattica e terminologica testi come quello proposto (anzi imposto) quest’anno, il quale, pur non essendo difficilissimo, era però largamente al di sopra della portata della maggior parte dei ragazzi. Continuare a pretendere quello che gli studenti non possono più dare è una follia, secondo me; e quindi la seconda prova scritta del Liceo Classico va assolutamente modificata. Altrimenti è facile prevedere cosa succederà: che gli studenti riusciranno a copiare ugualmente, nonostante il minaccioso divieto di usare i cellulari durante l’esame (una grida manzoniana) oppure i professori faranno la traduzione al posto loro. Questo sta già avvenendo, e così l’esame di Stato si trasforma in una farsa senza alcun valore. Meglio allora abolire del tutto questi esami, anziché far credere ipocritamente che si sta facendo una cosa seria. Inutile pretendere quello che non si può avere. Questa è la realtà: la traduzione dal latino e dal greco è ormai un lavoro da esperti filologi, non da studenti liceali. Quindi delle due l’una: o si rimette il latino alle medie, si fa studiare seriamente la grammatica italiana, si aumentano le ore destinate alle discipline classiche, si abolisce l’alternanza scuola-lavoro, si ritorna – in una parola – alla scuola prima del ’68, oppure si smette una buona volta di vivere tra le nuvole e immaginare una realtà che non esiste.
Ribadisco tuttavia che io non intendo affatto proporre uno svilimento dello studio delle lingue classiche e dell’attività di traduzione nel corso del quinquennio, che anzi secondo me va potenziato, anche perché sappiamo che per intendere veramente ciò che i classici hanno detto e ancora ci dicono occorre leggerli nella loro lingua: un Lucrezio, un Orazio, un Virgilio in traduzione perdono almeno il 90 per cento del loro valore letterario ed artistico. Ma anche qui c’è un però. Nel Liceo Classico è indubbio che si debba agire così, ma negli altri Licei, dove il greco non c’è e dove il latino è ridotto a poche ore e studiato superficialmente e di malavoglia, forse sarebbe il caso di ripensare all’utilità dello studio grammaticale e prevedere anche l’esistenza di corsi liceali dove il latino (e perché no anche il greco) vengano insegnati a livello di storia letteraria e di lettura di classici nella sola traduzione. Anche questo sarebbe utile, a mio giudizio. Che ci sarebbe di male se gli studenti dello Scientifico o del Linguistico leggessero Omero, Euripide, Seneca e Tacito in traduzione? In fondo tutti noi abbiamo letto romanzi tedeschi o russi senza conoscere il tedesco o il russo, li abbiamo letti in traduzione. Certo non abbiamo colto tutte le sfumature del messaggio che promana da quelle opere, ma ne conosciamo almeno il contenuto, riusciamo a comprendere loro tramite molti aspetti della loro epoca e della loro civiltà. Perché non fare lo stesso anche con il latino? In quei licei in cui il latino c’è ufficialmente ma di fatto è trascurato a volte anche dagli stessi insegnanti, non è forse meglio leggere tutta l’Eneide in traduzione piuttosto che duecento versi in lingua sbuffando e imprecando? Io mi pongo di queste domande, e credo sarebbe l’ora che se le ponesse anche chi di dovere, anziché gettarci addosso a ogni cambio di governo riforme malsane e compilate da chi di scuola non ha alcuna competenza.

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Perché l’esame di Stato, così com’è, non funziona

Sono appena reduce dall’esperienza di Presidente di una commissione d’esame di Stato in un Liceo Scientifico,e da ciò ho tratto alcune riflessioni circa le modalità con cui questo evento si svolge. In realtà non è la prima volta che svolgo questa funzione, perché ormai regolarmente, ogni due anni, vengo nominato Presidente di commissione, senza peraltro averne maggior diritto rispetto ad altri colleghi. Questa volta però, benché non sia accaduto nulla di particolarmente rilevante durante queste tre settimane di durata dell’esame, e sebbene i candidati siano stati tutti promossi, ho potuto constatare con più accuratezza del solito che così com’è questo appuntamento fisso di ogni anno presenta difetti e incoerenze piuttosto vistose e che quindi il Ministero dovrebbe pensare seriamente a introdurre alcune modifiche.
Non tutto dipende dal Ministero, però, molte mancanze derivano invece dal comportamento scorretto non solo degli studenti ma anche – sia pure in casi limitati – dei professori. Già il fatto che i membri interni, tranne lodevoli eccezioni, facciano di tutto per aumentare i voti a dismisura, è profondamente sbagliato: nella struttura attuale dell’esame, infatti, i commissari interni hanno gli stessi compiti di quelli esterni e dovrebbero esaminare i propri alunni in modo oggettivo ed equilibrato, come si presume che abbiano fatto durante l’anno scolastico. Invece molti non agiscono così, ma cercano di favorire i propri alunni in ogni modo, aiutandoli durante gli scritti (qualche volta anche svolgendo gli esercizi al posto loro) e comunicando in anticipo i quesiti della terza prova e persino le domande che rivolgeranno loro durante il colloquio orale. A me Presidente, anni fa, è successo di trovare una collega membro interno che aveva su un suo quaderno già scritte tutte le domande che avrebbe fatto. Si trattava solo di un promemoria personale, come disse lei giustificandosi? Io ebbi i miei dubbi, o meglio le mie certezze, ma senza prove non potevo accusarla di una tale mancanza di professionalità; avrebbe potuto denunciarmi per calunnia. Così restai muto, ma mi accorsi che al colloquio i ragazzi rispondevano subito e senza indugio ai quesiti che venivano posti da lei, e non credo proprio che tutti fossero così pronti e preparati. Ed il bello è che questi colleghi scorretti e poco professionali non agiscono così per amore degli studenti, ma per fare bella figura loro, nell’errata convinzione che agli occhi degli osservatori esterni una scuola che licenzia i suoi studenti con voti alti sia una scuola di alta qualità. Spesso è vero il contrario, ma purtroppo la credenza comune è quella.
Oltre agli errori dei professori ci sono poi quelli del Ministero, che riguardano soprattutto il cosiddetto “colloquio” orale, una parola che contiene una certa dose di ipocrisia perché molto spesso non di colloquio si tratta, bensì di una vera e propria interrogazione analoga a quelle svolte durante l’anno scolastico, ma su tutte le materie studiate (o quasi), il che mette facilmente in difficoltà gli studenti, non abituati a questo genere di prova. Nella legislazione attuale generica e nell’ordinanza ministeriale che ogni anno disciplina lo svolgimento dell’esame di Stato non c’è nulla che dica con chiarezza come questo colloquio debba essere condotto, né di come attribuire la valutazione. Molti interrogativi rimangono, tra cui ad esempio cito i seguenti. Se in una commissione ci sono due docenti competenti della stessa materia (tipo, al liceo Classico, il docente interno di italiano e latino e quello esterno di latino e greco), a chi spetta far domande sul latino, materia comune a entrambi? Oppure: per le materie che prevedono la lettura di testi (italiano, latino, greco), al colloquio vanno fatti leggere, interpretare e commentare brani di Dante, di Leopardi, Lucrezio, di Platone oppure è opportuno limitarsi a domande generali di storia letteraria, visto il carattere “colloquiale” e “multidisciplinare” della prova ed il poco tempo disponibile? E inoltre: le varie materie debbono avere tutte lo stesso peso oppure a quelle caratterizzanti il corso di studi (per es., allo Scientifico, matematica e fisica) va attribuito un rilievo maggiore? E chi deve proporre la valutazione del colloquio? Il Presidente? Ma costui non è competente in tutte le materie, ma solo in alcune, e questo vale anche per i singoli commissari. Sembra una questione semplice, ma posso assicurare che è molto difficile valutare, tanto che la commissione può talvolta essere influenzata dalle parole di un singolo commissario che giudica tenendo presente solo la sua materia; e per un Presidente è un’impresa ardua e improba mettere d’accordo tutti su una proposta comune.
Su questi problemi il Ministero, interpellato con le cosiddette FAQ, non ha mai dato risposte precise. E poi c’è un altro aspetto dell’esame che andrebbe cambiato, nel senso che dovrebbe esser dato maggior rilievo al curriculum dello studente, che oggi concorre solo per il 25% al voto finale, il punteggio cioè derivante dal credito scolastico. In genere i commissari esterni, quando gli interni si lamentano perché non viene rispettata dalle valutazioni d’esame la scala dei valori ch’essi hanno in mente perché conoscono gli studenti, rispondono dicendo che l’andamento scolastico di ciascuno è già stato considerato nei punti del credito, e che l’esame deve avere una vita autonoma. Dicendo così però si dimenticano che la percentuale del 75% assegnata all’esame è troppo alta e quindi può facilmente accadere che un ragazzo dai risultati sempre ottimi per cinque anni, solo perché in una prova d’esame rende meno del solito, si trovi alla fine un voto più basso di un compagno più fortunato, al quale magari sono state chiesti i soli argomenti che conosceva. In effetti il colloquio dura al massimo un’ora per ogni candidato, le domande delle singole materie sono poche e su tematiche molto ristrette, per cui accade di frequente che l’andamento del colloquio stesso non corrisponda affatto alla preparazione reale degli studenti. E’ vero che nella vita la fortuna è un elemento che esiste e può influenzare molte cose, ma nella scuola dovremmo cercare di essere giusti ed obiettivi, per quanto possibile. Perciò io da Presidente, quando abbiamo svolto i colloqui orali nelle classi a me assegnate, ho cercato di proporre valutazioni che tenessero conto in primo luogo dell’andamento reale della prova, ma anche in parte del curriculum precedente; e non credo di aver sbagliato di molto ad agire così.
Concludo dicendo che la mia pluriennale esperienza di esaminatore e di Presidente di commissione mi ha posto dinanzi agli occhi infinite e diverse situazioni, dalle quali ho tratto le impressioni esposte sopra. Non voglio dire che questo tipo di esame sia del tutto inefficace, perché sarebbe eccessivo; ma senza dubbio vi sono molte cose da cambiare e da rivedere. E ci auguriamo che ciò avvenga per il bene dei nostri giovani, ammesso che chi ci governa abbia a cuore le sorti delle nuove generazioni almeno quanto li abbiamo a cuore noi che con loro lavoriamo da tanti anni.

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Ancora la solita versione!

Nonostante gli sforzi di autorevoli intellettuali e classicisti come Maurizio Bettini e molti altri, nonostante la battaglia per cambiare la seconda prova scritta all’esame di Stato del Liceo Classico, alla quale modestamente anch’io ho partecipato in questo blog, quest’anno i nostri alunni hanno dovuto di nuovo affrontare la classica “versione” di latino immutata da 90 anni, alla faccia del modernismo e del tecnologismo che impera nella società moderna. Tutto è cambiato nella scuola da dieci anni a questa parte, sono stati introdotti i mezzi informatici e multimediali, sono stati rinnovati i programmi ed i corsi di studio, sono state promulgate molte norme nuove per adeguarsi ai tempi. Una sola cosa è rimasta ferma ed immutabili e statuaria dai tempi di Gentile (1923): la versione di latino o di greco alla maturità del Liceo Classico, un esercizio sì importante – quello della traduzione – ma che ormai i giovani di oggi non sanno più svolgere per una serie di motivi che vanno dalla diffusione della tecnologia al cambiamento dei programmi della scuola primaria e media, e per altri fattori. Sta di fatto che gli studenti del Classico sono ancora penalizzati rispetto a quelli di altri licei (scientifico, linguistico ecc.) le cui prove hanno subito adeguamenti ai tempi attuali, o comunque sono state facilitate concedendo agli studenti la possibilità di scegliere tra vari esercizi; al Classico, invece, nessuna scelta, ma sempre la vecchia versione da tradurre, senza alcun supporto e spesso anche senza contestualizzazione. Come dicevo, sono pervenute al Ministero molte richieste da ogni parte per adeguare questa prova alla realtà attuale, che ben conosce chi insegna in un triennio di un Liceo Classico, come il sottoscritto; e se proprio non si vuole rinunciare alla traduzione, sarebbe però quanto meno opportuno che, accanto a questa, fosse richiesto anche un commento di tipo filologico o storico-letterario sul brano proposto, o magari alcune domande di storia letteraria sempre inerenti all’autore del brano stesso. Si darebbe così ai nostri studenti la possibilità di scegliere o comunque di dimostrare le proprie conoscenze anche al di fuori del piano semplicemente linguistico, che non è l’unica competenza che il corso di studi deve fornire, perché conoscere il mondo classico non può significare soltanto sapere l’aoristo terzo o l’ablativo assoluto, ma anche conoscere la civiltà greca e romana, la letteratura, l’arte, la filosofia. E’ anche (se non soltanto) su questo piano che gli studenti del Classico andrebbero valutati, anche perché è molto più probabile che tra cinque o dieci anni essi ricordino il contenuto ed il valore delle opere letterarie ed artistiche piuttosto che la sintassi greca e latina. In base alla mia esperienza ho constatato che la traduzione dalle lingue classiche è ormai un esercizio da esperti filologi e risulta molto difficile, in certi casi proibitiva, per i ragazzi del 2015, ed è quindi assurdo e vessatorio volerli valutare solo su questa competenza. Ma al Ministero non hanno ascoltato le nostre richieste, ed io credo che sia vero il proverbio secondo cui non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire; non credo infatti che questa sordità derivi da semplice ignoranza come qualcuno ritiene, penso invece che ci sia da parte di qualcuno la volontà di penalizzare il Liceo Classico e di affossarlo più di quanto già non sia a vantaggio di altri corsi di studi ritenuti più “moderni” o più “utili”. Si continua a imporre la vecchia versione, come 90 anni fa, proprio per far passare il Classico come scuola “vecchia” e “inadeguata” e contribuire così alla sua rovina. Il Liceo Classico abitua a ragionare e forma esseri pensanti, e forse è proprio questo che chi sta al potere teme di più e cerca quindi di impedirlo. Vorrei poi far notare una cosa che riguarda la versione assegnata quest’anno, un brano di Tacito dagli “Annales” riferito alla morte dell’imperatore Tiberio. Forse pochissimi dei miei lettori lo sapranno, ma si tratta dello stesso brano che moltissimi anni fa (nel 1983) fu assegnato al concorso ordinario per la classe di concorso 52 (Materie letterarie, latino e greco) con cui io vinsi la mia cattedra. Ora io mi chiedo se si possa accettare che un certo passo di Tacito, pur non tra i più difficili di questo scrittore, venga assegnato a degli specialisti laureati che sostengono un pubblico concorso e, oltre 30 anni dopo, a dei ragazzi di liceo, che notoriamente hanno meno competenze linguistiche non solo rispetto ai laureati in discipline classiche, ma anche ai loro colleghi del passato. A me tutto questo sembra follia, una follia lucida però, animata dalla volontà di danneggiare la formazione umanistica, che pure illustri scienziati oggi difendono e vorrebbero rilanciare. Con ciò non voglio dire che questo passo di Tacito fosse di una difficoltà eccezionale: qualche studente più preparato ed incline a questo tipo di esercizio l’avrà certamente tradotto bene, ma si tratta comunque di casi di eccellenza e quindi minoritari, come dimostra il fatto che da molti licei, sia di grandi città che di provincia, sono pervenute anche quest’anno lamentele sulla difficoltà della versione. Si sa che la sintassi tacitiana non è semplice: la sua “brevitas”, infatti, è causa di molti termini sottintesi, di costruzioni brachilogiche, di parallelismi non sempre facili ad intendere e del ricorso a costrutti particolari come l’infinito storico o l’aggettivo neutro che regge l’interrogativa indiretta (incertum an…), tutti fenomeni che non sono certo di immediata comprensione per gli studenti di oggi, non più abituati a tradurre continuativamente come facevamo noi ai tempi nostri. A mio giudizio siamo di fronte ad una situazione talmente chiara e lampante che solo chi vuol essere cieco e sordo (o fa finta di esserlo) può ignorare. A tal proposito penso anche un’altra cosa: che in questa disparità di trattamento fra studenti di scuole diverse possa ravvisarsi persino una violazione dell’art. 3 della Costituzione, quello che garantisce l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Se qualcuno si assumerà l’incarico di proporre un ricorso alla Corte Costituzionale contro questa ingiustizia, io sono pronto a firmare, anche subito. E comunque continuerò a scrivere sul blog e a mandare messaggi ai dirigenti del Ministero perché venga al più presto sanata questa contraddizione che ancora esiste all’esame di Stato e perché il Liceo Classico venga finalmente rinnovato anche sul piano delle competenze richieste agli studenti, che non sono esseri strani o alieni solo perché hanno scelto questo tipo di scuola, ma sono ragazzi e ragazze come tutti gli altri.

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Ancora sulle traduzioni e la seconda prova del Classico

Fino a poco tempo fa credevo di essere il solo a pormi il problema dell’impellente necessità di modificare radicalmente la seconda prova scritta dell’esame di Stato del Liceo Classico, una scuola che continua a perdere iscritti anche perché non c’è mai stata, da parte del Ministero dell’istruzione, la volontà di adeguarla alla realtà attuale e soprattutto alle reali capacità ed attitudini degli studenti di oggi; è infatti assurdo, controproducente e persino crudele, a mio avviso, non volersi rendere conto del fatto che l’esercizio di traduzione dal greco e dal latino, raffinatissima prova d’ingegno, non è più alla portata dei nostri studenti del 2015 (tranne poche e lodevoli eccezioni), e continuare pervicacemente a pretendere che questi sventurati, all’esame di Stato, traducano in italiano corretto e magari elegante lunghi brani di Aristotele, Platone, Seneca, Tacito ecc., che creano problemi anche a esperti filologi, è pura follia, per non dire stupidità. Anzi, io ho pensato più volte che i signori ispettori ministeriali che scelgono questi brani siano in malafede, vogliano cioè a tutti i costi danneggiare il Liceo Classico e spingere i giovani a fare altre scelte scolastiche, perché non è credibile che persone esperte e con ruoli dirigenziali non si rendano conto che stanno pretendendo l’impossibile. Perché gli altri Licei, in particolare lo Scientifico, hanno visto cambiare più volte la tipologia della loro seconda prova d’esame, mentre al Classico siamo rimasti al 1923, alla riforma Gentile, senza cambiare una virgola? Eppure la società, in questo periodo, mi sembra che un po’ sia cambiata, specie dal punto di vista dell’istruzione, della formazione dei giovani, delle fonti di cultura ecc. ecc. Che non se ne siano accorti mi pare poco credibile, per cui alla fine il sospetto ti viene, cioè che la cosa sia fatta apposta per affossare il Liceo Classico e favorire altri ordini di scuole.
Quando ho scritto il precedente post sull’argomento non ero a conoscenza dell’articolo dell’illustre latinista Maurizio Bettini (direttore del Centro “Antropologia del mondo antico” dell’Università di Siena) apparso su “Repubblica” il 5 marzo scorso. Non è neanche lontanamente ipotizzabile che uno studioso di questo livello non conosca il mondo classico o non si renda conto dell’importanza delle lingue antiche; ed infatti egli non nega questo, ma aggiunge che vi sono altri aspetti nello studio dell’Antichità che hanno un’importanza almeno pari: c’è la storia della letteratura, la filosofia, la civilizzazione, l’antropologia e via dicendo, conoscenze che oltretutto resteranno nella memoria dei ragazzi molto più di verbi, aggettivi ed ablativi assoluti, che col tempo sono destinati ad essere comunque dimenticati. Perché allora non richiedere agli studenti, in occasione dell’esame, QUESTE conoscenze, anziché limitarsi al solo aspetto linguistico? Ci sono alunni bravissimi in storia letteraria, storia dell’arte, filosofia ecc., ma che non riescono a tradurre in modo accettabile. Perché dunque penalizzarli e costringerli ad un esercizio unico e insindacabile qual è la traduzione imposta dal Ministero? Perché non sostituire la seconda prova scritta con un’analisi del testo ad esempio, o con un questionario di tipo letterario e storico-artistico, o altro che dir si voglia? E se proprio non si vuole rinunciare alla traduzione, la si potrebbe proporre in alternativa ad altri esercizi, in modo che possa essere scelta da quei pochi o pochissimi che ancora intendono votarsi a questo tipo di sacerdozio. Questo propone Bettini, ed io sono totalmente in sintonia con lui, anche se ho cominciato molto prima di lui a sostenere questo punto di vista, ed ho cercato anche, al proposito, di trovare contatti con i funzionari ministeriali preposti all’organizzazione delle prove d’esame.
Perché trovo assurdo e disumano costringere migliaia di giovani a questo esercizio, che si fonda solo ed unicamente sulle conoscenze linguistiche? Perché, insegnando da oltre trent’anni latino e greco in un triennio di un Liceo Classico, ho potuto seguire per tutto questo tempo l’evoluzione degli studenti e del loro rendimento. Quando andavamo a scuola noi si studiava latino alle medie, si imparavano alla scuola primaria tutte le strutture dell’italiano: analisi grammaticale, logica e del periodo erano un “trio” che tutti ben conoscevamo. Oggi, per vari motivi che sono ormai noti, questo non avviene più. Allora l’unico strumento di cultura erano i libri, mentre adesso i giovani apprendono da internet, con i tablets, gli smartphones ecc., strumenti che non richiedono più capacità di ragionamento autonomo, ma forniscono le informazioni già bell’e pronte, così come le calcolatrici risolvono ogni tipo di operazione matematica, senza che ai ragazzi venga più richiesto di usare il cervello. Cosi, come non sanno più le tabelline, non sanno più neanche le strutture dell’italiano e sono quindi lontani anni luce dal saper tradurre decentemente dal latino e dal greco; e ciò avviene non perché i ragazzi di oggi siano meno intelligenti di come eravamo noi, ma perché esercitano e sviluppano altre qualità mentali, non più quelle su cui si fondava la nostra formazione di persone di mezzo secolo fa. E’ quindi necessario che la scuola cambi e che si dica finalmente che il re è nudo, anziché continuare all’infinito con i compromessi e le ipocrisie: la realtà, checché se ne voglia dire, è che la traduzione dal latino e dal greco è oggi divenuta un lavoro da esperti filologi, non più da semplici studenti. Sarebbe ora che tutti – docenti e Ministero dell’istruzione – riconoscessimo questa realtà, e ciò permetterebbe di evitare fenomeni sconcertanti e vergognosi come quelli che si verificano agli esami, dove certi professori fanno la versione al posto degli studenti, gliela passano e così risolvono il problema. Io mi sono sempre rifiutato di prostituire in questo modo la mia dignità professionale, ho dato solo indicazioni generali sul testo ed ho corretto gli elaborati con gli stessi criteri con cui correggo quelli svolti durante l’anno. Il risultato, però, è stato che i miei alunni hanno avuto all’esame i voti più bassi di tutta la provincia; il che mi dispiace, ma non sono disposto a scendere a squallidi compromessi come quello sopramenzionato. Purtroppo certi colleghi non la pensano così, e non solo fanno la versione all’esame al posto degli alunni, ma accettano anche che durante i normali compiti in classe essi scarichino la versione da internet con il cellulare, un fatto gravissimo e intollerabile che ormai si verifica dappertutto. Ora io dico: anziché scendere a questi sconci compromessi, non è meglio smettere di sottoporre gli alunni all’esercizio di traduzione, ormai del tutto estraneo alle loro capacità? Esistono altre competenze e conoscenze, altrettanto importanti, che è possibile verificare in modo altrettanto oggettivo ed eliminando anche il triste fenomeno delle copiature, giacché su internet non può trovarsi la risposta ad ogni quesito che un docente esperto può richiedere ai propri studenti.
Anticipando la più scontata obiezione al mio ragionamento voglio chiarire che, proponendo la modifica della seconda prova d’esame, io non intendo affatto auspicare la fine dello studio delle lingue greca e latina, che deve proseguire, specie nei primi due anni di corso (il Ginnasio), perché è indispensabile per l’analisi dei testi d’autore normalmente presenti nei programmi didattici del triennio liceale. Questa analisi deve comunque avvenire sotto la guida del docente, che affronterà la lettura dei classici (Catullo, Lucrezio, Virgilio, Omero, Platone ecc.) anche, ma non esclusivamente, basandosi sugli elementi formali (lingua, stile, metrica, retorica ecc.), che per gli antichi non erano certo ornamenti, ma elementi costitutivi e fondanti dell’opera letteraria e della sua valutazione estetica; ma non è un’attività, questa, che i ragazzi possano affrontare da soli, come dimostra il fatto che ormai nessuno o quasi traduce più autonomamente brani di greco o latino assegnati dal docente, perché tutti (o quasi) vanno su internet e scaricano la traduzione. Perché dunque volersi coprire ancora gli occhi alla realtà? Vorrei che qualcuno me lo spiegasse con argomenti decisivi, non come fanno certi romantici sostenitori della torre d’avorio degli studi linguistici come la scrittrice Paola Mastrocola, che su “Il Sole 24 ore” ha replicato a Bettini sostenendo la necessità di mantenere l’esercizio di traduzione a tutti i costi. La signora sarà anche una brava scrittrice (preferisco, al proposito, non esprimere il mio parere) ma nella scuola deve avere poca esperienza, benché si definisca “un’insegnante”; perché se fosse ancora a contatto con i ragazzi di oggi, tutti persi su Facebook, Twitter, Ask e capaci non più di tradurre ma solo di scaricare le versione già fatte e copiare i compiti con il cellulare, forse cambierebbe idea. Il Liceo che la Mastrocola ha in mente è ormai un sogno, una pura illusione; la realtà è ben diversa e ad essa, volenti o nolenti, ci dobbiamo adeguare.

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La “riforma” della scuola: i pro e i contro

Dopo lunga attesa, è stato finalmente presentato – a approvato dal Consiglio dei Ministri – il disegno di legge recante norme in materia di riforma della scuola, un provvedimento annunziato dal primo ministro Matteo Renzi già al momento dell’insediamento del suo governo. Trattandosi appunto di un disegno di legge, dovrà seguire la prassi consueta dell’iter parlamentare, durante il quale potrebbe subire modifiche anche rilevanti. Considerato ciò, sarebbe opportuno, per esprimere un giudizio motivato, attendere la conclusione di questo percorso; e tuttavia nel frattempo, pur consapevole del fatto che le osservazioni che qui esprimo potrebbero non essere più attuali tra qualche mese o qualche anno, sento la necessità di esprimere il mio parere su quello che adesso conosciamo delle intenzioni del governo e della loro eventuale applicazione alla realtà della nostra scuola.
Come ogni progetto, ogni iniziativa volta a cambiare o innovare l’esistente, anche la cosiddetta “buona scuola”, ossia la riforma targata Renzi-Giannini, presenta aspetti positivi e negativi, alcune proposte cioè che paiono ispirate al buon senso pratico ed altre che a mio giudizio sono discutibili, se non palesemente errate e peggiorative dell’attuale assetto del sistema scolastico nazionale. Qui di seguito esprimo un semplice parere su tutto quanto il disegno di legge, affidandomi soprattutto alla mia esperienza di docente “anziano” che ha ormai dovuto confrontarsi con tante “riforme”, o presunte tali, che ogni governo ha sentito l’impellente necessità di varare. A nessuno, d’altra parte, è venuto in mente che forse la scuola italiana, con opportuni correttivi, avrebbe potuto restare così com’era, anche perché quando si incensa il “nuovo” a tutti i costi si rischia sempre di aggravare la situazione e di adottare rimedi peggiori del male.
Comincio con gli aspetti della riforma renziana che mi sembrano positivi. Il primo – e qui penso che tutti dovrebbero essere d’accordo – è la concessione a tutti i docenti di un bonus di 500 euro annuali per l’aggiornamento, che potrà essere utilizzato per acquistare libri, strumenti didattici e informatici, o anche per visitare mostre e musei, oppure per assistere a spettacoli di provato interesse culturale. Su questo il governo merita tutta la nostra approvazione, purché il progetto si realizzi e soprattutto si riesca a reperire i fondi per renderlo operativo. Altro punto senz’altro positivo è l’eliminazione delle cosiddette “classi pollaio”, cioè quelle classi con 30 o più alunni nelle quali la didattica diventa veramente difficile sotto ogni punto di vista. Il compito di ridurre il numero degli alunni è demandato ai Dirigenti scolastici, i quali potranno, allo scopo, assumere docenti dall’organico funzionale, cioè da quel numero di professori che non hanno una sede fissa, ma saranno assegnati alle province ed alle scuole con un incarico della durata di un triennio, ma poi rinnovabile. A proposito del maggior potere concesso ai Dirigenti, che molti operatori scolastici e giornalisti stanno aspramente criticando, io dico che invece, per quanto mi riguarda, sono d’accordo e considero la chiamata diretta dei docenti da parte delle scuole un progresso ed un segno di civiltà. Del resto, dal momento che molte persone portano come esempio da imitare ciò che accade negli altri paesi europei, è giusto osservare che in molti di questi paesi la chiamata diretta dei docenti esiste da molto tempo; non si vede quindi il motivo per cui non la si dovrebbe sperimentare anche da noi. Io personalmente non vedo questo grave pericolo del clientelismo e del nepotismo che molti paventano, quando affermano che i Dirigenti si sceglieranno i docenti in base alle simpatie personali, ai gradi di parentela o anche a cose peggiori che non voglio qui nominare; credo invece che interesse di ogni Dirigente sia quello di avere nel proprio istituto persone preparate e competenti, non amici sprovveduti, perché di tal circostanza ne soffrirebbe l’intera scuola e quindi anche il Dirigente stesso vedrebbe calare non solo il proprio prestigio, ma anche quello di tutto il suo istituto ed anche – cosa ancor più temibile – il numero degli iscritti. Nel disegno di legge è infatti prevista (sebbene molto ridotta rispetto alle dichiarazioni iniziali) la valutazione del merito dei docenti, la cui progressione di carriera non sarà più legata soltanto all’anzianità. Ed anche questa, come più volte ho sostenuto in questo blog, è a mio parere un’evoluzione positiva del nostro rapporto di lavoro, finora appiattito in un egualitarismo squalificante che considera e retribuisce tutti allo stesso modo, mentre invece è pacifico che i docenti non sono tutti uguali, né hanno tutti lo stesso carico di lavoro.
Veniamo adesso agli aspetti negativi della riforma, quelli che non mi piacciono affatto perché temo che possano complicare la situazione attuale. Prima di tutto trovo assurda ed esagerata l’assunzione di oltre 100 mila docenti “precari” senza che siano stati sottoposti (tranne qualche caso) ad un reale e serio accertamento delle loro qualità professionali. Questo è dipeso dall’ignavia dei governi succedutisi negli ultimi anni, i quali non hanno più indetto concorsi ordinari a cattedre dai quali, pur con tutti i limiti che vi si possono individuare, si conseguiva almeno l’accertamento delle conoscenze relative alle materie di insegnamento. Quel che è stato fatto, invece, è stata la compilazione di graduatorie ad esaurimento in cui sono entrate persone che hanno sì effettuato servizio nella scuola anche oltre i 36 mesi stabiliti dalla Corte Europea per l’assunzione a tempo indeterminato, ma spesso li hanno svolti perché ve ne era la necessità da parte dell’Amministrazione, non perché ne avessero titolo in base ad accertate competenze. Questo è un grosso problema, perché la promessa assunzione dei precari si configura come una delle tante sanatorie che sono state compiute in ambito di impiego pubblico dagli anni ’70 in poi, sanatorie che hanno stabilizzato molte persone certamente idonee, ma anche altre che invece avrebbero dovuto svolgere altri mestieri, per il bene loro e della comunità. E adesso rischiamo di ritrovarci di nuovo in questa situazione, senza contare il fatto che questi docenti di nuova assunzione non avranno tutti una cattedra e saranno utilizzati dalle scuole (su chiamata del Dirigente) per supplenze o per la progettualità; così molti di loro, nella realtà effettuale, non avranno un vero impegno lavorativo continuo, mentre noi docenti di ruolo dovremo sostenere un carico di lavoro certamente maggiore, e questo a me pare ingiusto e assurdo.
Un altro aspetto non condivisibile della riforma scolastica è la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, cioè la partecipazione degli alunni dell’ultimo triennio delle superiore a “stages” o esperienze lavorative nelle fabbriche ed in altre aziende del territorio. Questa pratica, in realtà, esiste già, ma è giustamente riservata agli studenti degli istituti tecnici e professionali; adesso invece, con la riforma, si pretende di estenderla anche ai Licei, per un totale di 200 ore annue. A me questa norma pare un’assurdità, perché lo spirito dei Licei, soprattutto il Classico e lo Scientifico, è quello della formazione dello studente sulla base della cultura umanistica e scientifica, e non si vede cosa vada a fare in una fabbrica un alunno abituato a studiare latino, greco, filosofia, storia dell’arte, scienze naturali, matematica ecc. E’ chiaro che tutte le esperienze possono essere utili, ma sottrarre 200 ore ad un calendario scolastico che è già esiguo ed insufficiente per lo svolgimento dei normali programmi significa non realizzare bene nulla, né l’esperienza lavorativa né l’apprendimento delle materie curriculari: diciamo piuttosto che questo è un ulteriore passo compiuto con la volontà di vanificare nei giovani una formazione logica e capace di formare un pensiero autonomo, per avvicinarli ancor più al mondo del mercato, della produzione e del consumismo, proprio quei fenomeni sociali dai cui pericoli noi docenti dei Licei cerchiamo di metterli in guardia. Sempre in questa ottica, ci sono pure due altre proposte di questa riforma che non mi trovano affatto d’accordo: la presenza ossessiva dell’inglese e dell’informatica, i due principali idoli della pseudocultura contemporanea, e la concessione di sgravi fiscali alle famiglie che intendono iscrivere i propri figli alle scuole private (o paritarie che dir si voglia). Quest’ultimo punto è chiaramente un espediente, che non ci si attenderebbe da un governo costituito in gran parte da un partito di centrosinistra, per aggirare il dettato costituzionale, che riconosce sì il diritto all’esistenza delle scuole private, ma sancisce chiaramente ch’esse debbono operare “senza oneri per lo Stato”.
Queste osservazioni, del tutto personali e quindi più o meno condivisibili, mi sono venute spontanee leggendo il testo del disegno di legge di riforma, che soltanto in parte sembra ispirato a principi giusti e tali da migliorare la qualità complessiva del sistema; ad essi però, purtroppo, se ne affiancano almeno altrettanti di segno opposto, che lasciano ben poco spazio all’ottimismo. C’è soltanto da augurarsi che i passaggi parlamentari, se pure in Parlamento siedono persone di giudizio (il che non è affatto scontato), apportino modifiche che non siano ispirate a interessi di parte (v. le aziende costruttrici delle LIM o di altri strumenti disutili), ma alla reale volontà di costruire un sistema scolastico che sia veramente formativo, che determini negli studenti l’acquisizione di una vera cultura e della capacità di prendere in modo autonomo e critico le proprie decisioni, senza obbedire alle mode del momento o alla superficialità generale che ha ormai da tempo contaminato la nostra società.

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Ancora bastonate sul Liceo Classico

In questi giorni abbiamo appreso dalla Tv e da articoli di quotidiani i dati sulle iscrizioni degli studenti alle scuole superiori, appena diffusi dal Ministero dell’istruzione. Ne risulta un sostanziale proseguimento delle tendenze già manifestatesi negli ultimi anni: un rafforzamento del Liceo Scientifico (giunto quasi al 25 per cento degli iscritti) e del Linguistico, un aumento di alcuni istituti tecnici unito però ad un calo dei professionali, e soprattutto – ciò che mi riguarda personalmente – un ulteriore calo del Liceo Classico, passato a livello nazionale dal 6,1 al 5,5%. Questo significa che solo 11 ragazzi su 200 si iscrivono a questa scuola, un tempo considerata d’eccellenza e quasi sempre prescelta da chi aspirava a far parte della classe dirigente o a raggiungere un’alta professionalità. Oggi a questo siamo ridotti: al 5,5 per cento! Ed io, apprendendo la notizia, ho fatto una specie di sogno ad occhi aperti: mi sono immaginato di trovarmi di fronte ad una vasta platea di ben 200 adolescenti festanti, pronti ad intraprendere il loro nuovo percorso formativo; compiaciuto di ciò, ho chiesto a tutti questi giovani di dirmi quanti di loro si siano iscritti al Classico, aspettandomi di udire tante voci. Invece, fattosi un silenzio generale, soltanto undici manine tremolanti si sono alzate, di ragazzini spauriti in mezzo a tanta folla, dalla quale poi si è levato sempre più forte un brusio di improperi e di derisioni. Così è nella realtà, oltre che nel sogno: chi oggi sceglie il Classico è guardato con ironia e sospetto dai coetanei, additato come un “secchione” o come uno “sfigato”, un reietto quindi costretto a vivere sui libri e a non fare più parte della società che lo circonda.
Purtroppo, nonostante l’impegno di tante persone ed anche – modestamente – del sottoscritto (almeno nel suo territorio e con l’ausilio di questo misero blog) i dati non cambiano, anzi ogni anno il Liceo Classico perde iscritti, tanto che in alcune città è sparito del tutto: faccio l’esempio di una provincia toscana a noi vicina, quella di Grosseto, che io conosco se non altro per esserci nato ed averci dei parenti: di tre Licei Classici che c’erano fino a pochi anni fa, ne è rimasto soltanto uno, nel capoluogo, con due sezioni. In una provincia così vasta, con oltre 210.000 abitanti, soltanto 40 ragazzi circa si iscrivono ogni anno a questo corso di studi; e la proporzione non è molto diversa nelle altre province e regioni, se consideriamo che in Emilia Romagna, ad esempio, soltanto il 3,5% degli alunni delle medie si iscrive al Classico, ossia 35 ragazzi su 1000, una cifra che definire irrisoria è pure troppo esaltante.
Più volte, in questo blog, ho preso posizione sull’argomento e cercato di individuare le cause di questo triste fenomeno, che configura nel nostro Paese una crescita esponenziale dell’ignoranza e dell’approssimazione, di una concezione cioè della vita nella quale la cultura non ha più diritto di cittadinanza (“la cultura non si mangia”, disse un noto politico). Quello che conta attualmente è il successo ed i facili guadagni, mentre l’impegno e la fatica sono ormai diventati appannaggio di pochi ingenui che ancora credono a queste amenità, mentre le mode del momento impongono a tutti una vita comoda e facile, tutta spesa ad inseguire i miti di internet e della televisione. In questo clima edonistico ed utilitaristico, l’istruzione è concepita soltanto come un mezzo per inserirsi nel mondo del lavoro e poter guadagnare prima possibile, senza perdere tempo studiando cose ritenute inutili. Questo spiega il boom degli istituti tecnici e degli pseudolicei (cioè le scuole che si fregiano del titolo di “liceo” senza esserlo affatto), scuole che – almeno teoricamente – dovrebbero rilasciare diplomi atti ad inserirsi subito nelle attività lavorative; e poco importa che questa sia una pia illusione, perché oggi chi vuole avere una professionalità da spendere sul mercato deve comunque conseguire una laurea: ci si getta alla caccia del “diploma” pensando di ottenere chissà cosa, e la crisi economica attuale ha ovviamente incentivato questa mentalità.
E tuttavia, restando nell’ambito dei Licei, colpisce anche la grande sproporzione tra gli iscritti al Liceo Classico e quelli al Liceo Scientifico, quattro o cinque volte più numerosi, a seconda dei luoghi. In questo confronto non possiamo parlare di mentalità utilitaristica o superficiale, perché anche il Liceo Scientifico presuppone il proseguimento universitario degli studi, ed ha fin dal primo anno una serie di discipline di tutto rispetto: cinque ore settimanali di matematica, due di fisica, due di scienze, quattro di italiano, tre di latino, tre di inglese ecc. Non può quindi definirsi una scuola agevole, né poco impegnativa; oserei anzi dire, almeno dal mio punto di vista, che l’impegno richiesto ad uno studente che viene dalla scuola media attuale è gravoso almeno quanto quello richiesto dal Classico, se non di più. Come si spiega dunque questa vistosa sproporzione? Forse per il fatto che allo Scientifico non si studia il greco? Ma io non posso credere che, su sei studenti, cinque siano particolarmente inclini alle materie scientifiche e soltanto uno sia più portato alle materie umanistiche, tanto da poter affrontare serenamente una dose massiccia di matematica e di fisica come quella del Liceo Scientifico e di ottenere in quelle materie risultati più brillanti di quelli che otterrebbero in greco. Evidentemente c’è qualcosa che non va in queste scelte, una serie di pregiudizi e di idee distorte che continuano a circolare in società e non perdono col tempo, anzi acquistano efficacia. Il primo di essi è che le discipline umanistiche, in particolare il latino ed il greco, non servirebbero a nulla, mentre la matematica e la fisica sarebbero utili in società. A parte il fatto che è il concetto stesso di “servire” che a mio parere è sbagliato, perché la scuola deve formare la personalità del giovane, non “servire”; ma poi va anche detto che, se ragioniamo da un punto di vista generale, non mi risulta che questo sia vero: come gli studenti non avranno occasione nella loro vita di parlare in greco, non avranno nemmeno modo, nell’esperienza reale, di applicare la trigonometria o l’analisi matematica, a meno che no svolgano professioni specifiche a cui arriverà un numero bassissimo di persone. Se poi la matematica, la fisica e le scienze (che, sia detto per inciso, si studiano anche al Classico, e più di prima!) saranno più utili a chi sceglierà facoltà scientifiche, non si può negare che anche le lingue classiche hanno un’importanza decisiva per gli studi universitari, non solo perché abituano al corretto metodo di studio ed al pensiero critico, ma anche perché, proprio nell’ambito scientifico, tutta la terminologia impiegata deriva dal latino ed ancor più dal greco. Va anche tenuto presente che la padronanza della lingua italiana scritta e orale, cui il Liceo Classico abitua più delle altre scuole, è tuttora uno strumento indispensabile per superare qualunque prova in ambito lavorativo e per affermarsi in società. Ma queste competenze, nella società attuale, non sono più apprezzate da nessuno: oggi il “mantra” trito e ritrito che si sente sempre ripetere da politici, giornalisti e pseudo-intellettuali che pretendono di occuparsi di scuola senza saperne nulla, è quello dell’informatica e dell’inglese, quasi fossero le uniche e sole competenze che uno studente deve possedere, magari ignorando l’italiano e facendo continuamente errori ed orrori di ortografia.
A seguito di questa serie di fattori, che vanno dalla crisi economica alla superficialità dilagante, dalla mania anglicistica ed informatica all’idolatria dello scientificismo, il Liceo Classico continua a perdere iscritti, ad apparire come un residuo di una civiltà ormai tramontata, una scuola dove bisogna impegnarsi molto per studiare cose che non servono; e quei pochi coraggiosi che vi si iscrivono vengono emarginati e giudicati quasi alla stregua di alieni, persone strane e indegne di essere accolte nel consorzio sociale. Ma da parte mia la profezia è facile: di questo sfacelo, di cui sono responsabili in primis i governi ed i ministri “progressisti” che vogliono aumentare l’ignoranza perché i cittadini non si accorgano di esser diventati dei sudditi imbelli ed imbambolati, si vedranno le conseguenze in futuro, quando ci si renderà conto che la cultura meriterebbe di mantenere un ruolo attivo in ogni Paese civile, un ruolo che non può ridursi a parlare l’inglese o a strisciare le dita su un tablet. E allora diventerà attuale una frase che è stata detta – guarda caso – proprio da un illustre matematico, il prof. Giorgio Israel: “Chi si rallegra del declino del Liceo Classico sta segando il ramo sul quale è seduto.”

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Il processo al Liceo Classico

Lo scorso 14 novembre, a Torino, si è svolto un pubblico dibattito organizzato in forma di processo, con tanto di corte giudicatrice (presieduta da un vero magistrato, il procuratore capo del capoluogo piemontese Armando Spataro), pubblico ministero, avvocati difensori, spettatori e quant’altro; solo che l’imputato non era una persona, ma una scuola, cioè – guarda caso – il Liceo Classico. L’iniziativa in sé sembrerebbe strampalata, quasi grottesca, ma così non è perché questo indirizzo di studi già da tempo è sotto processo da parte dell’opinione pubblica (come si vede dal vistoso calo di iscrizioni subito negli ultimi anni) ed anche da parte di molti “intellettuali” provenienti da altri ambiti culturali, com’è appunto l’economista Andrea Ichino, pubblico ministero nel processo torinese. Ciò che la dice lunga in questa vicenda, a mio giudizio, è che il MIUR (Ministero Istruzione, Università e Ricerca) sia stato tra gli organizzatori dell’iniziativa, il che rivela la volontà istituzionale di ridiscutere questo tipo di scuola e la formazione umanistica che fornisce ai propri alunni. Ci auguriamo che un eventuale processo di revisione non significhi stravolgimento o addirittura abolizione del Liceo Classico, come qualcuno va invocando da tanto tempo; e in effetti il verdetto della corte torinese è stato di assoluzione, ma a condizione che questo liceo venga modificato e adeguato alle esigenze della società moderna. Cerchiamo adesso di capire quali sono le accuse che il sig. Ichino, interprete di una mentalità molto diffusa, ha rivolto al Liceo Classico e quali possono essere gli argomenti a sua difesa, che sono stati bene enunciati dall’avvocato difensore, il semiologo Umberto Eco, ma ai quali anch’io, modesto professore di liceo, vorrei portare un contributo.
Il primo capo di imputazione sarebbe quello secondo cui il Classico fu concepito da Giovanni Gentile nel 1923 come una scuola riservata alla formazione della classe dirigente e quindi di élite, e tale sarebbe rimasta ancor oggi. Nulla di più falso: la provenienza sociale degli alunni attuali è profondamente cambiata, oggi c’è caso mai una selezione culturale (nel senso che si iscrivono al Classico, in genere, coloro che hanno buoni risultati alla scuola media), ma non esiste più assolutamente la discriminazione classista dei tempi di Gentile. I miei alunni migliori, molto spesso, sono figli di operai o di modesti commercianti, che non hanno alcun retroterra culturale o sociale.
Altra accusa, tanto diffusa quanto palesemente infondata, è quella secondo cui al Classico ci sarebbe poca cultura scientifica. A parte il fatto che le facoltà mentali richieste per l’analisi dei testi classici sono eminentemente “scientifiche”, va detto che chi sostiene questa falsità non tiene conto del fatto che con l’ultima riforma della scuola (quella del ministro Gelmini, per intendersi) è stato aumentato del 50 per cento (da due a tre ore settimanali) lo spazio della matematica al biennio, sono state inserite le scienze fin dal primo anno di studi e la fisica dal terzo anno (prima era dal quarto). Non solo, ma i programmi di matematica sono stati avvicinati a quelli del liceo scientifico, compresa l’analisi; ovviamente il numero di ore settimanali è minore, ma i concetti sono gli stessi, ed i nostri alunni escono dal liceo pronti per affrontare con metodo e consapevolezza anche le Facoltà universitarie a indirizzo scientifico e tecnico.
Altro punto focale sostenuto da Ichino: gli alunni del Classico non sarebbero preparati adeguatamente per sostenere i test universitari di ammissione ad alcune Facoltà (v. medicina). Altra falsità. Nel caso della mia scuola ad esempio, che comprende sia il liceo classico che lo scientifico, ai test degli ultimi cinque anni i risultati dei nostri studenti sono stati esattamente uguali per le due scuole. Quelli provenienti dal Classico avranno forse qualche difficoltà tecnica in più, che richiede una preparazione specifica prima di affrontare i test; ma nei quesiti di cultura generale, presenti in buona misura nelle prove di ammissione, essi non sono secondi a nessuno.
Un ulteriore e pesante capo d’accusa riguarda il fatto che molti studenti del Classico, dopo cinque anni di studio del latino e del greco, non sarebbero in grado di tradurre speditamente gli scrittori classici, e questo dimostrerebbe il fallimento didattico di queste discipline. A tal riguardo io rispondo con due argomenti. Il primo è questo: siamo sicuri che gli studenti del Liceo Scientifico, al momento del diploma finale, conoscano perfettamente l’analisi matematica o la fisica nucleare? Siamo sicuri che quelli del Linguistico, al termine dei loro studi, sappiano parlare correttamente le tre lingue straniere che studiano? Eppure lo scopo del linguistico non è quello di leggere dei testi, ma di essere in grado di sostenere la conversazione in inglese, tedesco, spagnolo e quant’altro. Il secondo argomento, per me ovvio, è che il fine della formazione umanistica non è quello di sfornare filologi o traduttori dalle lingue antiche, ma di formare persone di cultura, capaci di ragionare in modo critico e compiere autonomamente le proprie scelte: un obiettivo essenziale, che si realizza anche (ma non soltanto) attraverso l’analisi dei testi latini e greci.
Il sig. Ichino, inoltre, si è chiesto perché il Liceo Classico esista solo in Italia e non negli altri paesi europei. Una tale circostanza, a parer mio e di molti altri, non è certo un nostro demerito, ma semmai un vanto: la diffusione nel mondo di una mentalità utilitaristica, che giudica degno di studio solo ciò che è “utile” o immediatamente spendibile nel mondo del lavoro è un grosso errore culturale, come ho illustrato in un altro post di qualche tempo fa (Un libro per il futuro). La scuola che vuole l’Europa (e gli Stati Uniti d’America che spesso – purtroppo – tendiamo ad imitare) è una scuola che servirà pure a passare i test, come dice la scrittrice Paola Mastrocola, ma non a pensare ed a riflettere su se stessi e sul proprio ruolo in società. Per questo io sono fermamente convinto che proprio oggi, nell’era dei computers e dell’abnorme sviluppo tecnologico, sia più che mai necessaria la formazione umanistica. Di ciò si sono accorti, del resto, anche molti imprenditori dell’industria e dell’informatica, se è vero – come ho letto di recente – che persino nella Silicon Valley americana assumono laureati in lettere e filosofia. Ciò corrisponde, del resto, anche ad un fine pratico e utilitaristico secondo le leggi del mercato, perché se è vero che per realizzare un prodotto occorrono i tecnici, per convincere i consumatori ad acquistarlo occorre invece la persuasione, facoltà connessa con l’uso corretto del codice linguistico e persino con la retorica antica. La tecnologia da sola non va da nessuna parte e riduce l’uomo ad una macchina senza coscienza e senza pensiero. Diceva giustamente Albert Einstein, il più grande scienziato del XX secolo: “Io temo il giorno in cui la tecnologia sopravanzerà la nostra umanità. Quel giorno il mondo sarà popolato da una generazione di idioti.”

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Il difficile equilibrio tra l’essere e l’apparire

Siamo ormai a novembre, il periodo in cui tutte le scuole superiori organizzano i cosiddetti “open days”, i giorni in cui gli istituti restano aperti per farsi visitare dagli alunni delle terze medie e dai loro genitori e comunicare loro la cosiddetta “offerta formativa”, ossia le caratteristiche di ogni corso di studi e le attività che la scuola promuove. Questa azione di propaganda viene esercitata anche mediante visite alle scuole medie, allo scopo di convincere quanti più ragazzi possibile ad iscriversi alla propria scuola o al proprio indirizzo, in una sorta di gara fra istituti spesso portata avanti anche con artifici di dubbia onestà pur di accaparrarsi gli iscritti sottraendoli alla “concorrenza”. Una situazione, questa, che c’è sempre stata, ma che attualmente si è accentuata da quando si è affermato il concetto di “scuola-azienda”, che risponde a criteri puramente quantitativi: il prestigio di un Istituto, in altre parole, è direttamente proporzionale non all’effettiva preparazione che riesce a dare ai suoi studenti, ma semplicemente al numero di essi e soprattutto a quello dei promossi e dei diplomati. Ad un numero maggiore di iscritti corrisponde anche, in base a questo concetto, un aumento dei finanziamenti pubblici per progetti, attività varie ecc., ed anche indennità per i dirigenti scolastici ed i loro collaboratori. Così anche il sistema dell’istruzione viene sottoposto all’ormai dominante legge del mercato, dove tutto è subordinato all’idea della “produttività” materiale e dove il ruolo fondamentale della scuola, quello cioè di trasmettere e formare la conoscenza, viene messo inevitabilmente in secondo piano.
Perciò ogni anno si apre questa competizione tra gli istituti che a volte rasenta il ridicolo, in una specie di vendita all’asta dove ognuno si sforza di offrire più del vicino. Ma per ottenere un maggior numero di iscritti non basta che una scuola dichiari di svolgere attività extracurriculari che possano attrarre gli studenti (scambi culturali, viaggi esotici, teatro, tornei sportivi, settimane bianche e chi ne ha più ne metta), occorre anche ch’essa non appaia troppo difficile ed impegnativa ai ragazzini ed alle loro famiglie, le quali aspirano per lo più ad ottenere il diploma senza troppa fatica e possibilmente con voti alti, e senza perdere troppo tempo a studiare. Lo studio è fatica, si sa, ed oggi la fatica non piace a nessuno, soprattutto quando si vede che hanno successo in società ed in televisione persone ignoranti come capre, che solo hanno avuto la fortuna di avere un bell’aspetto o conoscere qualcuno “ammanicato” che li ha potuti favorire. La cultura è ormai concepita da tante persone come un inutile orpello tipico di quegli “sfigati” che non hanno saputo farsi strada in altro modo in questa società utilitaristica e superficiale. Accortesi di ciò, molte scuole si sono adeguate all’aria che tira e riescono a far proseliti ed avere molti iscritti semplicemente riducendo i programmi di studio, impegnando gli alunni sempre di meno e garantendo a tutti, o quasi, la promozione e le alte valutazioni. Così alunni e genitori sono felici, ottengono il loro bravo diploma faticando poco e possono dedicarsi senza problemi a ciò che più piace loro di fare.
Certamente in questa situazione le scuole da sempre ritenute più impegnative, cioè i licei Classico e Scientifico, hanno tutto da perdere, a meno che non si adeguino anche loro all’andazzo comune, perché quando si sparge la voce, più o meno fondata, che una determinata scuola richiede impegno e non attribuisce con tanta larghezza le valutazioni, rischia di essere abbandonata e di vedere ridotta di molto la propria presenza sul territorio. E’ quello che è successo in questi ultimi anni al Liceo Classico, che ha visto ridursi i propri iscritti dal 10 al 6 per cento (dato nazionale) proprio perché è un corso di studi altamente formativo, che conduce veramente al pensiero critico e fa conoscere tutto ciò che di più bello è stato creato dall’uomo nei secoli, ma ha l’imperdonabile difetto di essere impegnativo, di richiedere riflessione e concentrazione, qualità che i giovani di oggi, nell’epoca di facebook, di twitter, di ask e delle pagliacciate televisive, non sono più disposti ad esercitare.
Cosa fare allora? Continuare stoicamente a mantenere alto il livello dei propri contenuti culturali ed i propri parametri valutativi con il rischio di ridursi sempre di più fino a scomparire, oppure adeguarsi alla superficialità dilagante richiedendo sempre meno agli studenti e aumentando i voti a tutti? E’ un equilibrio difficile. Molti istituti tecnici e licei -anche della mia provincia – hanno scelto, purtroppo, la seconda alternativa, come si può constatare osservando non solo i dati sulle iscrizioni, ma anche i risultati degli esami di Stato, dove abbondano le votazioni massime (100/100 con o senza lode) e tutti sono promossi con valutazioni per lo più superiori alla reale preparazione; e ciò anche perchè molte persone della nostra categoria ritengono che tale comportamento non solo aumenti il numero degli iscritti, ma che ne guadagni pure il prestigio della loro scuola, ch’essi immaginano tanto più elevato quanto più alto è il cosiddetto “successo formativo”. Secondo tale mentalità poco importa il fatto che tale successo sia solo formale e non sostanziale, come di frequente emerge dagli esiti degli studi successivi. A chi non vuole conformarsi alla faciloneria ed al buonismo accade però di sentirsi dire – e con buona ragione, del resto – che i suoi studenti, valutati secondo il loro reale rendimento, sono svantaggiati rispetto a quelli delle altre scuole che attribuiscono voti più alti, perché se debbono sottoporsi a test d’ingresso o iscriversi a facoltà o scuole universitarie dove è richiesto un certo voto di diploma, appaiono certamente meno brillanti degli altri. Cosa si può fare allora? Cedere le armi e adeguarsi alla superficialità altrui o restar fedeli ai propri principi morali ed alla propria professionalità? Confesso di non saper dare una risposta definitiva a questa domanda, perché io stesso, in questo dilemma, mi trovo assalito da molti dubbi. Certo, se esistesse una vera comunicazione e collaborazione tra scuole dello stesso tipo e grado si potrebbe arrivare, almeno nelle singole province, ad un’azione valutativa più omogenea rispetto al sistema attuale dove ognuno fa quel che vuole; e lo stesso risultato potrebbe essere ottenuto mediante una valutazione esterna veramente efficace dei vari Istituti d’istruzione, che identificasse il successo formativo non con il numero dei diplomati o con la media dei voti riportati, ma con il reale livello qualitativo della preparazione raggiunta dagli studenti. Il problema è che queste che ho enunciato adesso sono mere ipotesi di difficile se non impossibile realizzazione, anche perché manca la reale volontà di affrontare e risolvere la questione; quindi le cose continueranno ad andare come sono sempre andate, con buona pace di tutti.

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Esame di Stato 2014: tracce banali e penalizzazione del Liceo Classico

E’ un vizio tipico di noi italiani lamentarci sempre di tutto, e noi docenti non facciamo certo eccezione, anzi, siamo peggiori degli altri. Consapevole di questo, io cerco spesso di giustificare o almeno di comprendere l’operato dei nostri parlamentari e dei nostri governanti; ma purtroppo, nonostante la mia buona volontà, spesso non posso fare a meno di protestare contro decisioni che mi sembrano irrazionali e contraddittorie.
L’ultima occasione è appunto quella che riguarda le tracce ministeriali dell’esame di Stato in corso di svolgimento, per quanto attiene alle prime due prove scritte, le quali, notoriamente, sono uguali in tutta Italia. Cominciamo dalla prima, cioè le tracce proposte per la prova di italiano. Per l’analisi del testo è stata scelta una poesia di Quasimodo, bella sì ma difficile da interpretare in alcuni passi, certamente ermetici e poco comprensibili per ragazzi diciannovenni dei licei e degli istituti tecnici; va anche detto che, nella stragrande maggioranza dei casi, il vastissimo programma di letteratura italiana dell’ultimo anno di corso non arriva a trattare questo poeta, e ciò ovviamente aumenta le difficoltà interpretative per i malcapitati che dovevano svolgere la prova. Una scelta inopportuna, quindi, così come quella che riguarda il cosiddetto “saggio breve” o “articolo di giornale”, novità di berlingueriana memoria che altro risultato non ha ottenuto se non quello di complicare ulteriormente questa prova già di per sé tutt’altro che facile. Senza discutere degli argomenti, non certo esaltanti e piuttosto scontati (la tecnologia pervasiva ad esempio), c’è da dire che il nostro Ministero ha corredato i titoli con testi a mio avviso malposti e incompleti: tutti i contributi su cui gli alunni dovevano riflettere per elaborare poi una propria interpretazione erano recentissimi (dal 2009 al 2014) e appartenevano a saggisti o giornalisti, con esclusione di tutti gli scrittori classici e moderni che pure avevano scritto pagine importanti al riguardo. Un esempio: il saggio sul “dono”, corredato oltretutto con fotografie di quadri come la “donazione di Costantino” che non c’entravano nulla, non teneva conto affatto di chi, come Seneca nel trattato “De beneficiis”, si era occupato dell’argomento con grande saggezza; e quello sulla tecnologia, per fare un altro esempio, riportava solo scritti recentissimi, senza tener conto che sul problema dell’invadenza tecnologica che limita o distrugge l’essenza dell’uomo si erano già espressi illustri scrittori come Pirandello, nel romanzo “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” o nei “Giganti della montagna”. Perché questa sbornia per l’attualità, che porta a trascurare tutto ciò che c’è stato prima degli anni 2000? Non vorrei che si trattasse di pura ignoranza. So di essere malevolo in questa affermazione, ma è proverbio ben noto quello che dice che a pensar male ci si azzecca sempre (o quasi).
E veniamo adesso alla seconda prova, quella di oggi 19 giugno. Al Liceo Classico è stato assegnato da tradurre un brano di greco di Luciano, dal titolo “L’ignoranza acceca gli uomini”. Forse i dotti del Ministero, nell’apporre questo titolo, alludevano a se stessi? Mah, sta di fatto che il brano, pur non essendo micidiale come quello di Aristotele di due anni fa, aveva pur sempre le sue brave difficoltà, specie per gli studenti attuali che, com’è noto, sono sempre più disarmati di fronte alle traduzioni dal greco e dal latino, per le ragioni che ho esposto in altri post e che qui non posso ripetere per ragioni di spazio. Io da tempo vado sostenendo, anche con lettere ed e-mail agli ispettori e ai direttori generali del Ministero, che sarebbe il caso di provvedere ormai a rivedere questa seconda prova del Liceo Classico, che continua ancor oggi, dopo 80 anni dall’istituzione dell’esame di Stato, ad essere costituita solo ed unicamente dalla traduzione, come se questa fosse l’unica competenza che i nostri studenti debbono raggiungere nel loro corso di studi. Io mi chiedo allora perché la prova del Liceo Scientifico è stata modificata anni fa, così che gli studenti possono scegliere uno tra due problemi e cinque tra dieci quesiti, privilegiando ovviamente quelli che sanno di poter svolgere meglio. Perché al Classico questa opportunità non viene concessa e si continua ancora, nel 2014, con questa versione unica e imposta dall’alto, senza che gli studenti possano scegliere alcunché? Il bello è che i nostri ministri (più di tutti Profumo, ma anche gli altri) ci bombardano continuamente con la necessità di adottare le nuove tecnologie, ci impongono l’uso di computers, tablets e LIM che non servono a nulla se non ad arricchire le ditte produttrici, e poi all’esame ci rifilano la stessa versione di greco o latino come si faceva ai tempi di Gentile. Non è una contraddizione questa? Al Ministero sono moderni solo quando loro conviene, mentre si continua a penalizzare il Liceo Classico, del quale a quanto pare si vuole l’estinzione, proprio perché gli studenti che escono da questa scuola sanno ragionare con la propria testa, interpretare in modo autonomo e consapevole la realtà che li circonda, e questo evidentemente dà fastidio a chi vuole che la scuola formi non cittadini responsabili, ma automi capaci solo di schiacciare tasti di un computer e di obbedire proni alle leggi del mercato. Tutto il resto non conta. Ed io credo che sia proprio questo il motivo per cui il Liceo Classico deve sostenere le stesse prove di 80 anni fa (in qualche caso, persino più difficili di quelle di allora!), perché lo si vuole penalizzare, far passare come una scuola anacronistica e non consona ai tempi moderni. E’ vero l’esatto contrario, ma sembra proprio che per qualcuno questa verità sia molto scomoda.

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L’esame di Stato: c’è qualcosa da cambiare?

Dal 1999, anno in cui fu istituito il nuovo esame di Stato in sostituzione del vecchio esame di maturità nelle scuole superiori, sono stato sempre puntualmente chiamato a far parte delle commissioni; ad anni alterni ho rivestito la funzione di membro interno ed esterno, o più spesso di presidente di commissione. Posso quindi dire, senza peccare di presunzione, di avere ormai un’esperienza che mi consente di dare qualche giudizio in materia, anche riguardo a ciò che a mio parere andrebbe modificato.
Certo, a voler dire tutto, verrebbe da scrivere un libro, non un post su un blog qualsiasi come questo. Mi limiterò quindi a due aspetti, uno generale ed uno particolare concernente l’indirizzo di studi nel quale insegno da oltre un trentennio. Il primo riguarda le modalità di calcolo del punteggio finale, che, a causa della volontà dei nostri legislatori di scimmiottare ciò che avviene all’estero e soprattutto nei paesi anglosassoni, consiste in una semplice sommatoria dei punteggi delle varie prove. Già questo è discutibile, perché la valutazione di una persona dovrebbe basarsi sull’esame complessivo della sua personalità umana e culturale, non su un mero calcolo numerico. Ma lasciando da parte questo, l’aspetto più iniquo di questo esame è che il percorso scolastico dello studente, cioè i cinque anni della scuola superiore in cui è stato valutato dai suoi insegnanti incide sul voto finale solo per il 25% (il cosiddetto credito scolastico), mentre il 75%, cioè la percentuale di gran lunga maggiore, è determinata dalle prove d’esame, sulle quali incidono molto, anzi moltissimo, fattori contingenti come l’emotività della persona, le domande specifiche che vengono rivolte al colloquio orale, l’atteggiamento dei commissari ecc. Spesso, purtroppo, incidono sulle valutazioni anche fattori del tutto soggettivi come l’immagine esterna che dà lo studente di sé, il suo modo di parlare o di vestire, l’umore dei commissari ecc. Il vecchio esame invece, con tutti i difetti che poteva avere, metteva però su un piano di parità il percorso formativo dello studente e le prove d’esame, lasciando alla sorte ed ai fattori contingenti uno spazio certamente minore. Perciò, se volessimo arrivare ad una valutazione obiettiva, occorrerebbe portare al 50% il credito scolastico e lasciare l’altro 50% alle prove d’esame, in modo da bilanciare due elementi valutativi che dovrebbero possedere un’incidenza simile, se non proprio uguale, sul voto conclusivo.
L’altra osservazione che vorrei fare riguarda in modo specifico il Liceo Classico, oggi purtroppo in crisi di iscrizioni (v. i miei post precedenti) e osteggiato in ogni modo dalla classe politica attuale, compresi i ministri dell’istruzione. A proposito va rilevato un aspetto non trascurabile che riguarda la seconda prova scritta d’esame, quella diversificata a seconda del corso di studi. Ora, mentre nelle altre scuole (v. il liceo scientifico) si è provveduto a innovare la tipologia di questa prova, al classico è rimasta inalterata la vecchia “versione” di latino o di greco, che oltretutto, qualche volta, è risultata molto difficile per gli studenti e del tutto aliena da quelle che sono oggi le competenze oggettivamente raggiungibili nel percorso di studi: imporre (non proporre) un lunghissimo e difficile brano di Aristotele (esame 2012), oltretutto tratto da un’opera non destinata alla pubblicazione e quindi redatta in forma di “appunti” ad uso interno dei discepoli del grande filosofo, significa non aver capito nulla di ciò che si possa proporre oggi ai nostri studenti oppure, ancora peggio, voler di proposito affossare un certo indirizzo di studi a vantaggio di altri che hanno sostenuto all’esame prove ben più abbordabili. Per esperienza diretta posso dire che ormai la traduzione dal latino e dal greco, attività irrinunciabile e formativa perché richiede ed alimenta facoltà mentali molto spesso atrofizzate, è però diventata, ai suoi livelli più alti, un lavoro da esperti della materia, e non è più proponibile agli studenti “normali” come UNICO mezzo di accertamento delle loro capacità e competenze. Ricordiamo che spesso i ragazzi arrivano dalla scuola media senza neppure sapere, in italiano, cosa sono il soggetto ed i complementi, ed è quindi illusorio e segno di malafede il pretendere ch’essi divengano, alla fine del loro percorso, esperti traduttori o filologi classici di gran fama; e del resto non è questa la precipua finalità degli studi liceali, bensì quella di fornire agli alunni un valido metodo di lavoro e di forgiare quelle abilità mentali che servono per la comprensione della realtà attuale, abilità che si formano “anche” ma non “soltanto” traducendo gli scrittori antichi.
Per questo motivo, come ho già proposto a chi di dovere, sarebbe il momento di cambiare strutturalmente la seconda prova scritta d’esame del Liceo Classico, magari lasciando un breve brano da tradurre ma integrandolo con riflessioni di tipo linguistico e storico-letterario, il che sarebbe certamente più utile per una valutazione complessiva della personalità dello studente. I commissari potrebbero inoltre contare su di una maggiore trasparenza ed originalità della prova stessa, poiché la classica “versione”, attualmente, viene spesso copiata dagli studenti, o mediante il cellulare, o con aiuti “esterni” o col semplice passaggio di informazioni durante le quattro ore della prova. In un quesito di storia letteraria, invece, la copiatura verrebbe immediatamente smascherata, poiché non esiste un’unica forma di svolgimento, ma ognuno dovrebbe trattarlo in modo personale.
Voglio illudermi di pensare che queste mie osservazioni, espresse in un semplice blog, possano essere lette da qualcuno dei funzionari ministeriali preposti all’organizzazione degli esami di Stato, il quale ci rifletta sopra. Forse, appunto, è un’illusione, ma da qualche parte dobbiamo pur cominciare per far sentire la nostra voce, la voce di chi ha vissuto tutta la vita nella scuola e che quindi, senza supponenza, una certe esperienza deve pur averla maturata.

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