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Lettera aperta al Ministro Valditara

Così, per passare un po’ di tempo e per sfogarmi su quelli che ritengo siano i mali del nostri sistema dell’istruzione, ho deciso di inviare questa lettera al sig. Ministro dell’istruzione e del merito on. Giuseppe Valditara. Arriverà al suo staff, e temo ch’egli non la legga mai: chissà quante gliene arrivano del medesimo tono, che i solerti collaboratori si affrettano a stracciare! Eppure, nonostante questo, ho voluto ugualmente fare questo esperimento, che qui ripubblico sul blog se non altro per suscitare una pacata discussione sui vari argomenti che tratto. Dico subito che la lettera, per lunga che sia, è ancor molto breve rispetto a tutte le criticità che ci sarebbero da evidenziare. Comunque, questo è il testo:

Egr. Ministro dell’Istruzione e del Merito On.Prof. Giuseppe Valditara

Sig. Ministro,

chi Le scrive è un docente ormai a riposo, che ha insegnato per circa 40 anni materie letterarie (Latino e Greco) presso il Liceo-Ginnasio “A.Poliziano” di Montepulciano (Siena). Affermo espressamente di appartenere alla Sua medesima parte politica e, conoscendo già da tempo i Suoi meriti in ambito culturale, di essere stato molto felice della Sua nomina ad un così importante incarico. Durante questo anno e mezzo di governo di centro-destra ho avuto anche modo di apprezzare e condividere i Suoi provvedimenti per quanto riguarda il problema della disciplina scolastica, del contrasto alla violenza in ogni sua forma e dell’uso a scuola dei cellulari e delle altre apparecchiature elettroniche.

Detto questo, vorrei però ricordarLe che la scuola italiana ha ancora molti problemi da risolvere, il primo dei quali – a mio giudizio – è lo stato di progressivo deterioramento della preparazione degli alunni, un allarme che, pur esistente già da prima, si è accentuato con il Covid e con il conseguente ricorso alla didattica a distanza. Ogni anno gli studenti escono con conoscenze e competenze sempre più incerte e approssimative dagli esami conclusivi della scuola primaria di primo grado e da quelli di Stato, ad onta delle votazioni molto elevate ma prive ormai, in molti casi, di corrispondenza alla reale preparazione. A questo stato di degrado, sempre a mio avviso, contribuiscono anche le molte ore di lezione non effettuate a causa di progetti e attività extrascolastiche, svolte in gran parte in orario curriculare, che rendono frammentario il lavoro dei docenti e compromettono quella continuità di apprendimento che è necessaria per la buona riuscita degli studi. Quest’anno in particolare l’aggiunta di 30 ore di orientamento al triennio della scuola superiore di II grado, da svolgere in orario curriculare, ha ulteriormente acuito il problema.

Avendo sempre insegnato in un Liceo, ho personalmente poca esperienza della scuola primaria e della secondaria di primo grado; ma ritengo che una vera, autentica riforma debba partire dai primi anni di frequenza scolastica, durante i quali dovrebbe essere privilegiato, ed esercitato con strumenti didattici efficaci, lo studio della lingua italiana, da proseguire anche nella secondaria di primo grado; e dico ciò a ragion veduta, giacché debbo amaramente constatare che tanti alunni arrivano ai Licei senza saper distinguere tra un avverbio e un pronome, senza discernere tra verbo attivo e passivo, transitivo e intransitivo ecc., per non parlare dell’analisi logica e del periodo. Per ottenere questo risultato ritengo che sia necessario tornare alla tipologia di esercizi in uso alcuni decenni fa, come dettati ortografici, riassunti, temi e via dicendo, che erano in grado di formare la personalità dello studente oltre che di offrire un mero apprendimento nozionistico; ed occorrerebbe anche ad un maggior rigore nella verifica degli apprendimenti, senza che la promozione sia automaticamente garantita come di fatto avviene oggi.

L’aver abolito l’insegnamento tradizionale per dare spazio a progetti e balzane invenzioni didattiche, spesso ideate da persone che non avevano pratica della scuola nella sua realtà, si è rivelato fallimentare. Lo stesso studio della lingua inglese, pur indispensabile per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro, rischia di avere ben poca efficacia quando i discenti non conoscono adeguatamente la propria lingua madre. Non è il caso di aver timore a “tornare indietro”, cioè a ripristinare metodi e strumenti che si credevano superati. Io non ho mai creduto al pregiudizio secondo cui tutto ciò che è nuovo debba per forza essere utile e proficuo: se si constata di aver commesso un errore, non v’è nulla di male a riconoscerlo ed a tornare sui propri passi.

Per quanto attiene specificamente alla scuola superiore di secondo grado, molte sarebbero le osservazioni da fare ed i provvedimenti da prendere. Sarebbe intanto utile completare il percorso da Lei giustamente intrapreso contro il dilagare del bullismo e della violenza nelle scuole, con l’adozione di provvedimenti severissimi e inappellabili sia contro gli studenti che si rendono colpevoli di gravi mancanze disciplinari sia contro i genitori che spesso intervengono in modo arrogante e offensivo verso il personale docente e non docente. Oltre a ciò, mi permetto di attirare la Sua attenzione su altri problemi che finora non hanno ancora trovato alcuna soluzione. Mi riferisco anzitutto all’uso degli strumenti elettronici da parte degli studenti, che ormai, anche con l’ultima novità costituita dall’intelligenza artificiale, rischiano di adulterare in tutto o in parte il processo apprenditivo e quello valutativo degli studenti stessi.

Per quanto riguarda il primo aspetto mi corre l’obbligo di osservare che il ruolo e l’importanza degli smartphone, dei tablet et similia va molto ridimensionato, nel senso che lo studente non impara né di più né meglio con questi strumenti rispetto allo studio con i quaderni ed i libri tradizionali; constatiamo anzi che l’impiego pressoché esclusivo di queste apparecchiature ha persino danneggiato l’apprendimento, ad esempio in ciò che riguarda la memoria e il consolidamento delle conoscenze acquisite. E’ proprio vero quello che il padre Dante diceva, cioè che “non fa scienza / senza lo ritenere avere inteso,” proprio perché ci accorgiamo ogni giorno di quanto sia difficile per gli alunni far sedimentare nella loro mente delle nozioni e delle conoscenze che arrivano loro a raffica, sui supporti elettronici e senza l’aiuto della scrittura e della rielaborazione personale. Ho letto di recente che la Svezia, che è stata una delle nazioni pioniere per la diffusione degli strumenti didattici elettronici, sta tornando ai libri ed ai quaderni, e qualcosa di simile sta accadendo anche negli Stati Uniti d’America.

E’ tuttavia il secondo aspetto, quello valutativo, che mi preme qui sottolineare. Ormai le verifiche scritte, almeno per le materie che ho insegnato per tanto tempo, sono profondamente adulterate dall’uso degli smartphone, per mezzo dei quali gli studenti trovano su internet i testi di latino e greco già tradotti, e lo stesso vale, per quanto sento dire, anche per l’italiano (con i temi già svolti) ed altre materie. Per il latino e greco il problema si estende anche agli esercizi da svolgere a casa, sistematicamente scaricati da internet e svolti personalmente da un numero sempre minore di studenti. I Suoi predecessori, signor Ministro, erano già stati avvertiti del problema, ma non hanno mai manifestato la volontà di risolverlo. Come sappiamo, non è lecito (giustamente) perquisire gli studenti, ed anche l’obbligo di consegnare lo smartphone viene facilmente aggirato portandosi appresso due cellulari, dei quali uno viene consegnato e l’altro tenuto addosso. Vi sono poi altri oggetti come orologi, penne e quant’altro dotate di videocamere e quindi in grado di fotografare i testi e spedirli a qualcuno fuori di scuola, che si premura di svolgere la traduzione e poi rispedirla allo studente, o di fare per lui il tema o gli esercizi di matematica o di qualunque altra disciplina. Lei comprende senz’altro che, in queste condizioni, sarebbe preferibile abolire del tutto le prove scritte, compresa quella dell’esame di Stato e quelle dei concorsi pubblici, anch’esse viziate dal medesimo problema. Eppure una soluzione ci sarebbe: quella di dotare le scuole di adeguate apparecchiature che possano schermare l’aula dove si svolge la prova scritta, impedendo agli strumenti elettronici di collegarsi ad internet. Le chiedo gentilmente di prendere in considerazione questa possibilità, al fine di restituire al percorso valutativo la necessaria credibilità; ciò inoltre sarebbe molto proficuo anche sul piano etico, per trasmettere ai giovani un messaggio positivo che ripristini l’onestà ed il rispetto della legalità, sulla quale si organizzano spesso corsi di aggiornamento e seminari che poi vengono clamorosamente smentiti nella pratica quotidiana.

Un’ultima osservazione vorrei fare riguardo ai libri di testo, sempre più minimalisti e qualitativamente mediocri. Il fenomeno, da inserire in un quadro di declino generale dell’istruzione, è dovuto anche – a mio parere – al tetto di spesa imposto dal Ministero per la dotazione libraria di ciascuna classe, che oltretutto è fermo ai prezzi del 2012 quando è ovvio presumere che in questi dodici anni ci siano state variazioni. Questo stato di cose impoverisce sempre più i veri strumenti di lavoro e impedisce perfino l’acquisto di determinati sussidi (si pensi ai classici singoli o antologie di autori classici, ormai quasi del tutto scomparsi) che invece sono necessari per il dovuto approfondimento delle materie umanistiche. Mi chiedo e Le chiedo se non sarebbe preferibile aumentare i tetti di spesa adeguandoli ai prezzi odierni, oppure addirittura abolirli sostituendoli con un “budget” economico da assegnare a ciascun istituto per contribuire all’acquisto dei libri per le famiglie meno abbienti che ne facciano richiesta.  

Le sarò grato, signor Ministro, se vorrà considerare quanto qui Le ho scritto e riflettere sulla gravità dei problemi della nostra scuola, che Lei ha certamente la volontà e l’intenzione di risolvere. Augurandomi che la Sua permanenza nell’alto incarico prosegua per molto tempo e sia tale da permetterLe di lasciare di sé un ottimo ricordo, Le faccio i più vivi complimenti e Le auguro ogni successo.

Con deferenza. Prof. Massimo Rossi – Montepulciano (Siena)

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Anno nuovo, politica vecchia

E’ iniziato un nuovo anno, purtroppo per me sarà il settantesimo della mia vita, e la cosa non è certo piacevole. Comunque, in tutto questo tempo, ho avuto modo di osservare che mentre il costume e la mentalità degli italiani sono cambiati molto negli ultimi decenni, la politica è rimasta sostanzialmente la stessa: schermaglie a vuoto tra gli schieramenti, promesse non mantenute nei confronti degli elettori, larga prevalenza delle parole sui fatti e sugli obiettivi effettivamente raggiunti.

Da quando si è creato il cosiddetto bipolarismo, si susseguono al governo i due schieramenti di centro sinistra e di centro destra, cui si è aggiunta negli ultimi anni la presenza del Movimento Cinque Stelle che però, partito con intenzioni antipolitiche e quasi eversive, ha finito poi per allearsi ora con l’uno ora con l’altro dei partiti tradizionali, dimostrando la sua totale inconsistenza ideologica. Del resto cosa si può pretendere da un partito che è pura espressione del nichilismo e della più becera antipolitica, privo di qualsiasi base culturale e nato dal “vaffa…” di Beppe Grillo? Adesso i grillini, che volevano scardinare il sistema, sono diventati anch’essi parte di quel sistema, ne sono anzi la parte più confusa e inconcludente.

Tornando al bipolarismo, in cui ormai anche il M5S si identifica, mi sembra chiaro che assistiamo ad un singolare fenomeno: che cioè quando governa il centro-sinistra nella fattispecie politica prevale la componente centrista (nel senso che questi governi prendono ben pochi provvedimenti che si potrebbero storicamente definire “di sinistra”), e lo stesso avviene quando governa il centro-destra. Il governo Meloni, in altri termini, ha fatto poco o nulla che possa chiamarsi “di destra”, ma si è allineato supinamente, soprattutto a livello di politica internazionale, ai precedenti esecutivi di Draghi, Conte, Letta, Renzi e compagnia bella. Lo dimostra, se non altro, l’europeismo convinto della Meloni (che non aveva certo prima, quando era all’opposizione), la soggezione perpetua agli Stati Uniti d’America, la posizione presa sulla guerra in Ucraina, uguale a quella di tutti i precedenti governi.

Che significa tutto ciò? Che sia che governi il centro-sinistra che il centro-destra, cambia ben poco, per non dire nulla, nella vita dei cittadini. Tutti gli esecutivi sono uguali o molto simili e quindi diventa una presa in giro chiedere agli italiani di andare a votare quando è evidente che, qualunque sia il risultato del voto, la politica è sempre la stessa. La ragione principale di questo appiattimento è, io credo, la totale mancanza di autonomia e di sovranità del nostro Paese, che un debito pubblico ingente (ma forse non solo quello!) costringe ad essere succubi dei banchieri di Washington e di Bruxelles, dato che da decenni, con la globalizzazione, l’economia prevale di gran lunga sulla politica. Chi tenta di ribellarsi all’oppressione dei mercati viene schiacciato, come avvenne al governo Berlusconi nel 2011: con il ricatto dello “spread” i potentati economici, appoggiati da Berlino, da Parigi e dal tradimento di Napolitano, fecero cadere un esecutivo legittimamente eletto dagli italiani. Che vuol dire questo? Che il nostro voto non conta nulla, e non mette neanche conto di andare a votare: perciò, se i politici si rendessero conto di questo ragionamento che tanti italiani fanno, non si meraviglierebbero tanto dell’astensionismo che sempre di più prevale alle elezioni. L’Italia non è un paese libero, siamo una colonia americana e franco-tedesca, non possiamo più decidere nulla autonomamente, e qualunque governo ci sia ha l’obbligo di inchinarsi davanti ai nuovi padroni stranieri. Per questo i nostri governi sono tutti uguali, ormai destra e sinistra sono solo slogan vecchi e superati privi di qualunque valore effettivo.

Come sa chi mi conosce, io sono sempre stato un elettore di centro-destra, anzi più di destra che di centro, ma – a meno che non cambi idea di qui a giugno – ho deciso di non votare più. Avevo riposto nel governo Meloni la speranza che cambiasse effettivamente qualcosa nel nostro Paese, e invece la sudditanza ai potentati stranieri ha prevalso fino a far divenire questo esecutivo una fotocopia di quello di Draghi e dei precedenti. Cosa pretendevo? Nulla di eclatante, ma che almeno sul piano della politica interna si facesse finalmente qualcosa “di destra”, cioè si attuassero quei valori di ordine e giustizia che dovrebbero ispirare questa parte politica. Faccio tre esempi. Il primo è l’immigrazione clandestina, che porta in Italia un degrado tale che siamo diventati la pattumiera d’Europa, alcuni quartieri delle nostre città sono ormai invivibili ed in mano agli spacciatori ed ai violenti: ecco, qui non pretendevo che si attuasse la fanfaronata del blocco navale, ma che almeno si riducessero gli sbarchi, che invece – proprio con un governo falsamente di destra – sono triplicati. Il secondo esempio è la criminalità, sia quella organizzata che quella urbana delle baby-gangs, degli scippi, dei borseggi, delle occupazioni delle case ecc. In questi casi un governo che si dice di destra avrebbe dovuto intervenire inasprendo le pene e rendendole effettive, togliendo i criminali dalla circolazione, restaurando i riformatori per i minorenni che delinquono, cacciando a calci dopo un minuto chi occupa abusivamente le case altrui. Invece niente. Il terzo esempio, infine, è quello che più da vicino mi interessa, il mondo della scuola: qui il ministero affidato a Valditara, che ipocritamente è stato ribattezzato “dell’istruzione e del merito” non ha fatto nulla per valorizzare i meritevoli e restituire serietà agli studi. Anzi, avviene tutto il contrario: nelle scuole si perdono ore e ore di didattica per progetti inutili come le 30 ore obbligatorie di orientamento inserite proprio quest’anno, la lingua italiana è sempre meno studiata e conosciuta, le promozioni di massa continuano a riempire la società di analfabeti di ritorno che pur sono usciti dalle scuole con votazioni alte ed altissime. Il ministro Valditara, che pur si dice uomo di scuola e di cultura, cosa ha fatto per fermare questa deriva? Nulla di nulla, anzi ha peggiorato la situazione precedente. E allora, cara Meloni e altri componenti dell’esecutivo, non meravigliatevi se saranno proprio i vostri sostenitori ad abbandonarvi, perché non c’è maggior delusione di quella di coloro che si sentono traditi nei loro ideali e nelle loro aspirazioni.

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La farsa degli esami

Gli antichi Romani, che erano saggi, dicevano “omnia praeclara rara”, cioè “tutte le cose preziose sono rare”, giacché l’oro ad esempio, se si trovasse dappertutto, non varrebbe più nulla. Ora che sono terminati gli esami di Stato (impropriamente detti di maturità) constatiamo quanto sia appropriato il detto latino: l’inflazione dei voti, e dei 100/100 (con o senza lode) in particolare, ci dimostra che ormai questi esami non hanno più senso, sarebbe meglio abolirli come tanti di noi richiedono da tempo.

Il voto massimo (100/100) andrebbe attribuito soltanto alle vere e autentiche eccellenze, una volta che avessero dimostrato la loro preparazione in TUTTE le materie del proprio corso di studi; invece oggi i 100 sono diventati alla portata di tanti alunni che, benché abbiano avuto un percorso positivo, non sostengono poi all’esame se non due scritti e un colloquio che tutto è meno che una reale verifica della preparazione: da uno spunto dato dalla commissione il candidato parla a ruota libera, collegando in modo spesso artificioso e forzato le varie materie senza approfondire nulla, tanto meno gli aspetti tecnici (v. la conoscenza della lingua ad es., in latino e greco) e poi ottiene quasi sempre un giudizio lusinghiero. Così i 100/100 fioccano come la neve, in ogni classe ce ne sono almeno tre o quattro, ed ho letto anche di classi in cui la metà degli alunni aveva ottenuto il massimo. Che serietà è questa? E’ un esame questo che può provocare ansia, come sostengono la stampa e la televisione? Che ansia ci può essere quando si sa di essere promossi in partenza e con voti altissimi, molto al di là del merito individuale?

Un esame serio dovrebbe vertere su tutte le materie, non solo sulle due degli scritti e una chiacchierata amichevole com’è oggi il colloquio orale: i commissari dovrebbero fare una vera interrogazione (un termine che non vedo perché disprezzare) e accertarsi della reale preparazione in tutte le discipline; e soltanto coloro che abbiano dimostrato piena conoscenza di tutti gli argomenti potrebbero essere gratificati con il voto massimo, che dovrebbe essere raro, appunto, come tutte le cose preziose.

In passato l’unico elemento che poteva agire in tal senso, sebbene non totalmente, era la terza prova scritta, l’unica che spaziava su più discipline; e naturalmente l’hanno abolita, altrimenti gli studenti, poverini, facevano troppa fatica ad aprire i libri di tre o quattro materie oltre le due dello scritto.

In queste condizioni, di fronte cioè ad una farsa quale è l’attuale esame, sarebbe meglio abolirlo e lasciare ai consigli di classe la facoltà di attribuire il voto finale. Ci sarebbero ugualmente voti inflazionati perché ogni scuola, come una vera azienda, deve pubblicizzare i propri prodotti, ma non sarebbero più numerosi di adesso, ed in più lo Stato risparmierebbe un po’ di denaro pubblico.

L’agire delle commissioni attuali è spesso misterioso: si uniformano ai crediti altissimi dichiarati dalle scuole, ma poi mostrano spesso incoerenze nel valutare i candidati, anche queste dipendenti secondo me dall’assenza di vere prove impegnative. Una di esse riguarda l’attribuzione del famoso bonus di 5 punti che spesso viene dato a caso: alcuni sono privilegiati perché magari hanno partecipato a qualche iniziativa parascolastica o a qualcuno dei più o meno inutili progetti che le scuole organizzano, altri che magari sarebbero più meritevoli, se non altro per il loro impegno continuo negli studi, sono penalizzati.

In pratica non va bene nulla. Mi auguro dunque che il Ministero, che ora si chiama ironicamente “del merito”, voglia far onore a questa parola: ritorniamo quindi ad un esame serio, che certifichi veramente la preparazione dei candidati e dia i voti di conseguenza, evitando questa inflazione dei 100/100 che è veramente ridicola, da repubblica delle banane. Altrimenti è meglio abolire del tutto questa commedia che finisce poi per deludere tutti, anche chi ha ottenuto un voto che sa di non aver meritato.

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Il crepuscolo del Liceo Classico

Abbiamo appreso, da una nota diffusa dal Ministero dell’Istruzione e del merito emanata pochi giorni fa, che nel prossimo anno scolastico 2023/24 frequenterà il Liceo Classico soltanto il 5,8% degli alunni che attualmente stanno completando la scuola media. Non possiamo non rammaricarci di fronte a quello che appare come un inarrestabile declino, se consideriamo che negli anni ’90 dello scorso secolo e nei primi di questo gli iscritti a questa scuola rasentavano il 10% del totale; poi, negli ultimi anni, si è assistito ad una discesa graduale che ci ha condotti, dal 6,8% dell’anno scolastico 2019/20, al misero 5,8 attuale.

Quando si verifica un fenomeno di questo genere l’impulso primario di ognuno è quello di ricercarne le cause. Perché dunque i giovani e le loro famiglie non danno più fiducia alla cultura umanistica di cui il Classico è il primo promotore in Europa, anche considerando ch’esso è una nostra specificità italiana e non esiste in nessun altro Paese europeo? Cosa allontana i nostri giovani da una scuola che è universalmente riconosciuta come d’eccellenza? E’ una scuola che impegna molto ma che dà anche molto, che apre cioè tutte le possibili strade a livello universitario e non, una scuola che attraverso materie che sembrano inutili fornisce invece quella che è la più grande utilità che un percorso formativo può avere: formare cioè delle menti pensanti, delle coscienze in grado di analizzare criticamente la realtà ed operare in virtù di questo processo le più adatte scelte di vita. Inoltre la conoscenza delle lingue classiche migliora enormemente la padronanza dell’italiano scritto e orale, qualità questa che serve a tutti, anche agli ingegneri ed ai tecnici informatici; e consente anche di entrare nei linguaggi specifici delle discipline scientifiche (la biologia, la medicina, la fisica ecc.) i cui termini specifici derivano in massima parte dal latino e dal greco.

Queste sono ovvietà di dominio comune e generalmente ammesse da tutti. Perché allora questo progressivo distacco da una scuola che è sempre stata il fiore all’occhiello del sistema formativo italiano? Le cause possono essere molte: alcune già note da molti anni, come la millantata necessità di approfondire le materie scientifiche in una società essenzialmente tecnologica, la concezione della scuola soltanto come mezzo per inserirsi nel mondo del lavoro per cui il latino ed il greco sarebbero “inutili”, la difficoltà di un percorso scolastico troppo impegnativo, ed altre ancora. Quest’ultimo motivo, che come ripeto è ostativo da molti anni, si è accentuato oggi dopo la pandemia, in conseguenza del fatto che gli alunni provenienti dalla scuola media, avendo affrontato lunghi periodi in DAD o comunque non in condizioni normali, non si sentono in grado di affrontare l’impegno che richiede la frequenza del Classico, preferendo altre soluzioni ibride come il liceo delle Scienze Umane, che in qualche modo assomiglia al Classico ma che risulta a tutti gli effetti meno impegnativo. A ciò si aggiunge l’ostilità più o meno dichiarata di molti insegnanti della scuola media, che preferiscono consigliare ai loro alunni altri percorsi, forse anche per non essere giudicati per la preparazione che non hanno potuto (o saputo) dare ai loro alunni.

Qualunque ne siano le cause, questa è la situazione. E allora cosa dobbiamo fare noi cultori della cultura umanistica, la cui validità formativa è indiscussa nelle nostre coscienze? Vi sono come sempre tendenze opposte, che possiamo verificare anche semplicemente leggendo i commenti apposti sulle pagine dei social. In queste occasioni spuntano sempre fuori i soliti detrattori che, magari per invidia, attaccano il Liceo Classico riaffermandone la vetustà e la sostanziale inutilità; ed a costoro non meriterebbe neanche conto di rispondere, se nel nostro animo non vi fosse una qualche forma di compassione per la loro ignoranza. Ci sono poi quelli che predicano la necessità di sostanziali cambiamenti nella struttura disciplinare della scuola (meno latino e greco, più matematica e scienze, più inglese, più informatica ecc.). Ma così verrebbe fuori un ibrido che non potrebbe più chiamarsi Liceo Classico; sarebbe semmai un liceo “di cultura generale”, come quello di coloro che propongono addirittura di smettere di studiare le lingue classiche e leggere i testi antichi in traduzione. All’opposto, però, ci sono anche i conservatori irriducibili, quelli che vorrebbero un ritorno del Classico a quello che era cinquant’anni fa, tutto basato sul greco e sul latino, con giudizi sugli alunni ricavati solo dalla loro capacità di tradurre (la cosiddetta “versione secca”), e con la riduzione o l’abolizione delle materie scientifiche e dell’inglese.

Il mio parere, di un ex docente che osserva la situazione oggettiva dagli ozi della pensione, è quello di rispettare la saggezza degli antichi, quando sostenevano doversi evitare le soluzioni estreme, giacché in medio stat virtus. Non credo che si possa snaturare una scuola che è nata con Gentile con una determinata struttura ed una funzione che ancor oggi è attualissima; ma al tempo stesso non ritengo praticabile la strada di chiudersi nella “torre d’avorio” degli studi classici e rimanere ancorati a caratteristiche che andavano bene forse tanti decenni fa ma non oggi: la società è cambiata, gli studenti sono cambiati, ed è quindi illusorio e stupido pretendere ch’essi abbiano le stesse competenze che avevamo noi negli anni ’70 quando traducevamo Tucidide e Tacito come il pane quotidiano. La matematica, le scienze, l’informatica (almeno nei suoi dati essenziali) e l’inglese sono oggi necessari e ineliminabili, se ne facciano una ragione i pedanti conservatori che ancora incontro nei gruppi specifici di Facebook come “Amici della letteratura latina (o greca)” e simili. E su questo piano è stato sacrosanto, a mio parere, il cambiamento della seconda prova scritta dell’esame di Stato, perché gli alunni di oggi, tranne poche eccezioni, non sono più in grado di affrontare prove impossibili come le traduzioni da Platone e Aristotele assegnate sciaguratamente anche pochi anni or sono. Mantenersi nell’ambito della modernità, corrispondere alle esigenze della società attuale non significa “cedere le armi” come sostengono alcuni, ma adeguarsi ad una realtà con cui non possiamo fare a meno di rapportarci. Ciò però deve avvenire senza cambiare la struttura di una scuola che dev’essere in grado di far comprendere al largo pubblico il suo enorme potere formativo, unico e maggiore di quello di tutte le altre, e di spiegare che frequentare il Liceo Classico è possibile anche da parte di chi non abbia doti eccezionali, purché sia disposto ad impegnarsi. Lo studio è fatica, si sa; ma è una fatica che darà poi i suoi frutti, e chi li sa cogliere affronterà la vita e le sue grandi scelte con animo tranquillo e mente equilibrata.

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Se fossi ministro…

Il collega docente e scrittore Marco Lodoli ha chiesto qualche tempo fa ad un eventuale nuovo governo di essere nominato ministro dell’istruzione. Si tratta ovviamente di una provocazione, ma fondata perché finalmente in quel ruolo ci sarebbe qualcuno che viene dal mondo della scuola.

Ma poiché anch’io vengo dal mondo della scuola, dove ho insegnato per oltre 40 anni, voglio provare a dire cosa farei se diventassi ministro dell’istruzione. E’ un’utopia ovviamente, ma basata su esperienze concrete. Per ora ho preparato 13 punti, ma ce ne sarebbero molti di più, che forse aggiungerò. Eccoli:

1. Reintrodurre alla scuola elementare e media lo studio serio della lingua italiana e della matematica, tornando agli esercizi che erano in vigore ai miei tempi (dettati ortografici, riassunti, temi, operazioni matematiche senza calcolatrici ecc.)

2. Eliminare progetti inutili e attività parascolastiche prive di ogni valore didattico, in ogni ordine di scuole.

3. Abolire totalmente nei Licei la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, che non ha nulla a che fare con l’astrazione tipica degli studi umanistici e scientifici;

4. Ridurre moltissimo l’uso degli strumenti elettronici, vietando agli studenti e ai prof. l’uso di cellulari, tablet ecc. Tornare ai libri ed ai quaderni come mezzi essenziali dell’apprendimento.

5. Reintrodurre la possibilità di bocciatura anche nella scuola elementare e media. Ripetere un anno non è un dramma né una sconfitta personale, ma solo il modo migliore per adeguarsi al proprio ritmo di apprendimento.

6. Ripristinare gli esami di quinta elementare e di terza media. Rendere serio l’esame di Stato delle scuole superiori reintroducendo la commissione esterna e abolendo le fasce del credito scolastico, che determinano il “mercato delle vacche” dell’aumento dei voti singoli per far raggiungere allo studente la fascia superiore a quella della sua media dei voti;

7. Riportare l’obbligo scolastico ai 14 anni o al conseguimento della licenza Media. Poiché non tutti gli alunni hanno la propensione e l’interesse allo studio, è inutile tormentarli con la frequenza obbligatoria di una scuola che a loro non interessa; sarebbe molto più logico avviarli a quei mestieri “manuali” che consentono di guadagnare bene ma che nessuno vuol più praticare (calzolaio, idraulico, falegname, meccanico, sarta ecc.).

8. Curare la disciplina degli studenti, prevedendo sanzioni che, in caso di episodi gravi, arrivino alla perdita dell’anno scolastico, senza possibilità di appello né di ricorso al TAR. Ovviamente i provvedimenti disciplinari andrebbero tutti dimostrati e motivati.

9. Limitare l’ingerenza dei genitori nella didattica. Il giudizio dei docenti e del Consiglio di Classe in caso di scrutinio dovrebbe essere insindacabile e inappellabile. Il TAR non ha alcuna competenza in materia scolastica, non si vede il motivo per cui possa interferire su decisioni prese dai docenti umiliandone la già compromessa professionalità.

10. Rivedere la normativa sui BES e DSA, accettando solo i casi di vero e comprovato disagio, non come avviene adesso quando molte di queste certificazioni sono false e costituiscono solo una scorciatoia per ottenere la promozione.

11. Chiudere immediatamente i diplomifici e le scuole private che, dietro pagamento, garantiscono la promozione e fanno recuperare gli anni perduti. Se bocciato nella scuola statale, lo studente deve ripetere necessariamente l’anno scolastico. Ciò non significa chiudere tutte le scuole non statali, ma solo quelle che regalano anni di studio ad autentici asini.

12. Provvedere ad un serio reclutamento dei docenti, da parte di concorsi ordinari che verifichino la conoscenza adeguata delle materie di insegnamento. Nessuna possibilità di essere immessi in ruolo “ope legis” senza il superamento di prove impegnative.

13. Fine del garantismo e possibilità di licenziamento per docenti e dirigenti che si rivelino indegni del posto che occupano. A ciò dovrebbero provvedere commissioni apposite in grado di verificare la preparazione e l’efficacia didattica dei docenti.

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Docenti umiliati e offesi

Come ognuno può constatare, il prestigio della classe docente è andato sempre diminuendo in questi ultimi decenni. Tutto è cominciato con il ’68 e il rifiuto della disciplina, per proseguire poi con la politica fallimentare verso la scuola adottata da tutti i governi, di sinistra o di destra che fossero. La china, già molto pendente, è addirittura precipitata negli ultimi anni, e da questo punto di vista sono ben contento di essere in pensione, per non dovermi confrontare con una realtà sempre più difficile e logorante, sia fisicamente che soprattutto psicologicamente.

Anche quando insegnavo ciò che mi infastidiva di più non era tanto il problema economico (gli stipendi sono bassi, si sa, ma ciò era noto fin da prima di intraprendere la professione) quanto la scarsa considerazione sociale alla quale eravamo soggetti: quando parlavo con qualche amico d’infanzia, che aveva scelto altre strade, mi accorgevo da certi discorsi e certi risolini beffardi che non considerava l’insegnamento una “cosa seria”, ma quasi un gioco, un passatempo, se non delle chiacchiere a vuoto. Questa, secondo me, è una delle ragioni dell’immane decadenza della figura del docente; e benché in televisione molti politici lodino a parole la categoria per l’impegno e i sacrifici compiuti, di fatto l’opinione pubblica continua a non riconoscere, per ignoranza o malvolenza, l’importanza di questa professione, oltre a ripetere i soliti stupidi luoghi comuni come le 18 ore settimanali, i tre mesi di vacanza ecc.

Un’altra causa dell’inarrestabile perdita di prestigio dei docenti è la legislazione scolastica esistente. Gli alunni vengono blanditi da tutti, hanno tutti i diritti e nessun dovere; tutto è loro dovuto, la promozione è concepita come un diritto inalienabile, non come la giusta conseguenza di una preparazione ottenuta; coloro che non ce la farebbero per ignoranza, disimpegno o incapacità trovano comunque scorciatoie per superare l’ostacolo, magari facendosi dichiarare BES o DSA (cioè alunni con problemi o difficoltà specifiche) e ottenendo così programmi ridotti e facilitati. E la norma sarebbe parzialmente giustificata se effettivamente questi alunni presentassero gravi problemi, ma nella fattispecie non è così, o almeno non lo è sempre: basta avere i genitori separati ad esempio, o un parente malato o una depressione dovuta all’essere stati lasciati dalla ragazza o dal ragazzo per essere dichiarati BES e ottenere le facilitazioni. Ai tempi miei non esisteva nulla di tutto ciò: o studiavi e ottenevi risultati o venivi bocciato, senza se e senza ma. Poi, se qualcuno nonostante tutto riesce a farsi bocciare, c’è sempre il TAR (tribunale amministrativo regionale) che, senza intendersi affatto di scuola e senza conoscere l’alunno, si attacca a cavilli formali e promuove così autentici asini calzati e vestiti. E i prof. ovviamente ci fanno la figura degli sciocchi e degli incapaci. In queste condizioni, come possono ricevere considerazione sociale persone che hanno sempre torto e sono costrette a piegare la testa di fronte alle prepotenze di alunni, genitori e legulei?

Gli ultimi eventi verificatisi dimostrano la veridicità delle mie affermazioni. A Napoli un docente è stato picchiato selvaggiamente solo per aver richiamato all’ordine una classe indisciplinata; e quel che è più grave, secondo me, non è il fatto in sé ma ciò che ci sta dietro, l’idea cioè secondo cui un professore è un rifiuto sociale a cui chiunque può fare impunemente violenza verbale e anche fisica, senza che ci siano norme adeguate a difenderlo. Gli stessi organi di informazione mostrano sotto traccia (ma neanche tanto) un’avversione preconcetta contro la classe docente, una sorta di rabbia che sfogano non appena qualcosa gliene offre il pretesto: oltre a giustificare sempre e comunque gli studenti anche quando compiono veri e propri reati (l’occupazione di una scuola è interruzione di pubblico servizio), non perdono occasione per accanirsi contro gli insegnanti: è questo il caso della collega di Roma che ha giustamente ripreso un’alunna vestita in modo del tutto inadeguato ad un ambiente come quello scolastico, che dovrebbe avere un certo decoro. Anziché biasimare la ragazzina e la madre che la manda a scuola vestita a quel modo, tutti si sono scagliati contro la docente solo perché avrebbe usato un linguaggio improprio, auspicandone addirittura una punizione esemplare. E’ il mondo che va alla rovescia: il professore, da cui si pretende che sia anche un educatore, non ha più il diritto di riprendere gli alunni, altrimenti rischia di esser messo alla gogna, mentre gli studenti (poverini!) vengono consolati contro il cattivone che li ha offesi. Guarda a che punto siamo arrivati! Per questo io non consiglierei più ad un giovane di intraprendere questa professione, che sarebbe la più bella del mondo se i docenti ricevessero il rispetto che meritano, il riconoscimento per il difficile lavoro che svolgono (specie in questi due anni di pandemia) e si pretendesse da loro soltanto un’adeguata preparazione nelle discipline e un corretto metodo di insegnamento, non la promozione degli asini e la sopportazione silenziosa di alunni e genitori maleducati e spesso persino violenti.

Temo che ormai questa situazione sia irreversibile, perché la demagogia imperante nel nostro Paese, dove la democrazia viene identificata con la più sfacciata libertà di fare ciò che si vuole senza rispettare alcuna regola, non vuole alcun cambiamento; anzi, ogni governo che si succede peggiora ancora la condizione dei docenti, con leggi sempre più permissive e facilitanti per gli alunni e con impegni burocratici crescenti e quasi sempre inutili. Se ci fosse la volontà, i rimedi ci sarebbero, basterebbe usare il pugno duro che il certi casi è l’unico che funziona: abolire il garantismo dei ricorsi al TAR ad esempio, perché il giudizio di un consiglio di classe dovrebbe essere inappellabile, eliminare le false certificazioni di difficoltà individuali inesistenti, imbastire procedimenti penali contro i genitori violenti che portino alla galera e provvedimenti disciplinari nei confronti degli alunni, che arrivino fino alla perdita dell’anno scolastico senza appello. Blandire gli studenti – cosa che fanno tutti, dai politici ai giornalisti – non serve a farli crescere umanamente e socialmente; anzi, togliere loro tutti gli ostacoli e le difficoltà con l’assurdo buonismo che vediamo ogni giorno finisce per danneggiarli, per trasformarli in bamboccioni inerti che non sapranno mai difendersi dai problemi che prima o poi incontreranno nel corso della loro vita. E poi c’è un’altra conseguenza di questo andazzo, ancor più grave: la diffusione dell’ignoranza e dell’analfabetismo funzionale, direttamente proporzionale alla banalità degli studi ed al sempre crescente numero delle valutazioni e delle promozioni immeritate.

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Osservazioni sul libro “Il danno scolastico” di L.Ricolfi e P.Mastrocola, La Nave di Teseo 2021

Ho avuto modo di leggere in questi giorni, con grande piacere per la chiarezza espositiva ed il contenuto del tutto condivisibile, il libro dei coniugi Luca Ricolfi e Paola Mastrocola “Il danno scolastico”, che osserva con lucida precisione la decadenza dell’istruzione in Italia negli ultimi trent’anni e cerca di individuarne le cause. Non posso che rallegrarmi del fatto che persone come il prof. Ricolfi, storicamente appartenenti all’area politica della sinistra, facciano finalmente ammenda su quelli che sono stati i marchiani errori del ’68, del movimento studentesco e della successiva politica dei governi e dei ministri della loro parte, a cominciare da Luigi Berlinguer; del resto anche prima di Ricolfi altri “intellettuali” di sinistra, come ad esempio il grande latinista Antonio La Penna o filosofi come Massimo Cacciari, si sono resi conto di quelle che erano le farneticazioni sessantottine come il “vietato vietare”, il “sei politico” e simili, che sotto un’apparenza di democrazia hanno in realtà inaugurato la distruzione della scuola italiana.

In realtà i due autori hanno un approccio diverso al problema della decadenza degli studi, sebbene giungano alle stesse conclusioni: Ricolfi è un docente di statistica ed è quindi propenso ad argomentare con formule e schemi, mentre la Mastrocola ha insegnato per decenni in un Liceo Scientifico ed è quindi in grado di giudicare la situazione dal basso, dal campo di battaglia potremmo dire; perciò, con tutto il rispetto per il professore, io sono propenso ad ascoltare con più attenzione le parole di una collega che ha vissuto, come il sottoscritto, l’intero periodo di cui tratta nel suddetto libro.

Paola Mastrocola analizza con impietoso realismo le condizioni attuali della scuola italiana, dove gli studenti arrivano ai Licei senza saper comprendere neanche gli autori letterari più semplici, senza sostenere un discorso autonomo per più di un minuto (impiegando, tra l’altro, un lessico limitatissimo), senza scrivere un pensiero di tre righe senza compiere numerosi errori ortografici; ed al proposito mi ha particolarmente colpito la sua affermazione secondo cui è stata costretta (in prima e seconda liceo scientifico) a far fare dettati d’italiano per la correzione dell’ortografia e della punteggiatura, un esercizio che ai suoi (e miei) tempi facevamo in terza elementare! Ed il bello è che questi alunni non provengono da classi sociali svantaggiate, ma sono persino figli di professionisti e di persone laureate; e non tutti trascurano lo studio, anzi molti di loro s’impegnano adeguatamente, ma con risultati pessimi o comunque mediocri.

Questa la situazione effettiva. La tesi centrale del libro però è un’altra, confermata anche da Ricolfi mediante i suoi studi statistici e matematici: quella cioè secondo cui la scuola facile, la decadenza continua dell’insegnamento e delle richieste degli insegnanti agli alunni, le promozioni facili e generalizzate, tutto ciò in pratica favorisce le classi sociali elevate: regalando infatti diplomi e lauree a tutti, con voti alti spesso immeritati, si finisce per agevolare chi possiede potere economico e adeguate conoscenze per sistemare i figli in posizioni di prestigio, mentre chi non ha questi privilegi non può salire sul cosiddetto “ascensore sociale”, e così si perpetua la tradizione antica (di prima del ’68) per cui il figlio del notaio farà il notaio e il figlio dell’operaio farà l’operaio. E ciò avviene non perché nella scuola ci sia classismo o favoritismi per i rampolli dell’alta società, ma proprio per la continua banalizzazione degli studi e la rimozione di tutti gli ostacoli che gli alunni incontravano nella vecchia scuola (esame di quinta elementare, di terza media, di quinta ginnasio, ma anche programmi più vasti e valutazioni basse quando necessarie). A questo regime, oggi del tutto vincente, si sono piegati sia i Presidi (cui sta a cuore l’immagine esterna della scuola, che non può bocciare altrimenti “non si iscrivono più”) sia i docenti, lasciati alla mercé di genitori prepotenti e sotto la minaccia dei ricorsi, ciò che rende forte la tentazione di lasciar perdere e promuovere tutti per non avere fastidi.

A questo punto debbo fare un atto di presunzione, nel dire che io da anni sono giunto alle stesse conclusioni della Mastrocola e di Ricolfi, anche senza statistiche e calcoli complessi: ho scritto infatti più volte su questo blog che i fautori ed i sostenitori della pedagogia sessantottina hanno totalmente fallito il loro obiettivo, che era quello di rendere democratica la scuola e garantire a tutti il successo formativo. Un tale obiettivo si poteva ottenere solo abbassando notevolmente l’asticella del sapere, e così è stato fatto, ma ciò che si è ottenuto è l’esatto contrario di ciò che si sarebbe voluto: rendendo la scuola facile e banale e promuovendo tutti non si è fatto altro che favorire l’alta borghesia, per i motivi detti prima. Se invece la scuola fosse stata sì aperta a tutti ma rimasta comunque selettiva, il figlio dell’operaio meritevole che esce con un buon voto avrebbe avuto più opportunità del figlio del notaio che esce con il minimo o che addirittura viene bocciato (se lo merita, ovviamente!). E’ vero che la nostra Costituzione dice che la scuola è aperta a tutti, ma l’art.34 parla di “capaci e meritevoli” che, anche se privi di mezzi, devono essere aiutati dallo Stato a raggiungere i gradi più alti degli studi. Quindi il dettato costituzionale non prevedeva affatto una scuola banale dove tutti vengono promossi, ma una scuola dove si fa selezione in base al merito individuale. La vera cultura è lo strumento essenziale di affermazione nella società, non l’aver semplicemente sostato per anni dentro le mura scolastiche per imparare poco o nulla.

L’argomento è troppo vasto per essere sviscerato in un articolo come il presente, e quindi mi fermo dopo aver fatto un’ultima osservazione. I due predetti autori del libro, meritevole per aver scoperchiato una pentola che bolle da anni ma a cui pochi avevano fatto caso, compiono una lucida analisi delle responsabilità, attribuendo soprattutto alla politica scolastica dei vari governi lo spaventoso declino del nostro sistema formativo. Su questo sono d’accordo anch’io, perché se è vero che Berlinguer e gli altri ministri della sinistra hanno contribuito molto alla rovina della scuola, è altrettanto vero che neanche i governi di centro-destra hanno mai fatto nulla per risolvere la situazione; anzi, hanno fatto peggio, a cominciare dall’idiozia delle “tre i” di Berlusconi fino alla pseudoriforma Gelmini che altro non è che un taglio profondo agli investimenti sull’istruzione e sulla scuola, che la mentalità aziendalistica tanto diffusa nel nostro Paese giudica improduttiva (e non è un caso che vari ministri dell’istruzione, a cominciare da Lombardi fino all’attuale Bianchi, siano vicini alla Confindustria). Però resto convinto che l’inizio di tutti i guai sia stato il ’68 e le assurdità sostenute allora e dopo, fino ad oggi, da una serie di pedagogisti incompetenti che non conoscono per nulla la realtà scolastica pratica e continuano a blandire gli studenti e ad ad avanzare proposte demagogiche e di fatto irrealizzabili.

Quello che manca a questo libro, come a tanti altri interventi del medesimo tenore, è l’indicazione dei rimedi. Come può risolversi la deriva attuale che continua anno dopo anno e che sforna studenti sempre più ignoranti e impreparati? Ricolfi e Mastrocola non danno suggerimenti in merito, limitandosi ad affermare che non si può tornare indietro, perché riproporre oggi una scuola come quella degli anni ’60 sarebbe assurdo a loro giudizio. Ma allora cosa possiamo fare? Verrà finalmente un governo ed un ministro che abbiano il coraggio di andare controcorrente e di dare finalmente al Paese un sistema formativo efficace, che tenga alto il livello qualitativo del sapere, privilegi il merito e sia capace di tagliare i rami secchi? Io ho pochissima fiducia nella realizzazione di questo obiettivo, come pochissima ne hanno certamente anche gli autori del libro di cui qui si parla. Se così non fosse, ci avrebbero certamente dato in tal senso indicazioni precise, non si sarebbero limitati ad una critica che essi stessi mostrano di giudicare fine a se stessa.

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L’incerto futuro della nostra scuola

Sto pensando che sono seriamente preoccupato per il futuro della scuola. Il periodo della pandemia e della Dad ha limitato gravemente il livello di preparazione degli studenti e ritardato lo svolgimento dei programmi; ma di questo pochi sembrano accorgersi, perché le promozioni generalizzate e i voti sempre più alti sono l’unica cosa che interessa ai ragazzi e alle famiglie. I genitori non protestano quasi mai quando la scuola non prepara i loro figli, ma lo fanno spesso quando qualche insegnante serio e competente chiede un po’ di impegno e magari non è disposto a gratificare con valutazioni alte chi non le merita.

Il periodo della Dad è stato inteso da molte scuole come un lasciapassare per promuovere tutti o quasi e per distribuire valutazioni alte o altissime senza che dietro ad esse vi fosse un vero merito e un’adeguata preparazione: e di questa faciloneria valutativa chi ne riceve danno sono proprio gli studenti più bravi e motivati, che si vedono messi alla pari con coloro che non si sono mai veramente applicati allo studio e magari hanno approfittato della Dad per non seguire e per farsi i comodi loro.

Purtroppo questo è un andazzo nazionale difficile da estirpare perché a tutte o quasi le componenti scolastiche va bene così: ai dirigenti perché credono che così facendo si migliori l’immagine esterna della scuola e si incentivino le iscrizioni, ai genitori e alunni per le ragioni suddette, a molti docenti perché con i voti alti e le promozioni di massa sono sicuri che nessuno protesterà e non avranno fastidi di sorta. Così viene meno la più importante funzione della scuola, quella di formare i giovani ed operare una selezione tra chi merita e chi no, e prendono così consistenza due rischi concreti: che aumenti l’ignoranza e l’analfabetismo funzionale in società (ed è un fenomeno che ben si nota già oggi) e che senza selezione siano poi i più “furbi” e i privilegiati socialmente a farsi strada nel mondo del lavoro, dove il merito – almeno da noi in Italia – conta molto meno delle conoscenze e dei favoritismi.

Tutto ciò mi preoccupa molto, come mi preoccupa il fatto che non si faccia abbastanza per recuperare il terreno perduto con i mesi di lockdown e con la Dad: se infatti il Ministero deciderà, come mi auguro, di ripristinare le prove scritte all’esame di Stato, quasi tutti gli studenti si troveranno di fronte a ostacoli insormontabili per aver passato due anni sugli allori. E non vorrei che dopo l’esame, constatato il disastro, si ricorresse come al solito a gettare la colpa sulle commissioni per avere magari richiesto il minimo indispensabile a chi non garantisce neppure quello.

Un’altra considerazione: per ridare alla scuola la sua dignità occorrerebbe un indirizzo didattico ben preciso stabilito dal Collegio dei docenti, ma sarebbe necessario anche un controllo sull’azione didattica dei professori, alcuni dei quali procedono per conto proprio senza tenere in conto i programmi e le indicazioni ministeriali, mentre altri risultano poco preparati e didatticamente inefficaci. Questo danneggia l’Istituto di appartenenza molto rapidamente, perché le voci si diffondono – specie nei piccoli centri – e si fa presto a veder screditare una scuola per colpa di qualcuno che non svolge come dovrebbe il proprio dovere. Sarebbe quindi necessario un controllo, ma chi potrebbe farlo? I Presidi sono ormai diventati Dirigenti, sono organizzatori e manager, ma si occupano poco della didattica; e poi non si può pretendere da loro che siano competenti in tutte le discipline che si insegnano nei loro Istituti. Sarebbe invece auspicabile, secondo me, l’istituzione di un comitato di valutazione permanente in ogni scuola, formato dai docenti più anziani di ogni ambito didattico, i quali si riunissero almeno una volta al mese per valutare l’operato dei colleghi più giovani e potessero segnalare al Dirigente o agli uffici competenti coloro che per varie ragioni possono essere carenti o inadeguati. Nel privato esiste il controllo sull’efficienza produttiva dei dipendenti, perché non può esistere anche nel pubblico? Non mi pare che l’importanza sociale del sistema educativo sia minore rispetto a quella di un’azienda privata che produce beni di consumo, perché ne va del futuro dei giovani, quindi dell’intero Paese. Ma chi è veramente interessato a questi problemi? Vorrei saperlo dai commenti che chiunque può apporre a questo articolo.

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Un Paese di ignoranti

Un tempo la cultura era un valore positivo in ogni società; oggi invece, almeno nella nostra, è diventata per molti uno svantaggio, un inutile fronzolo, un peso da togliersi di dosso il prima possibile. E di converso l’ignoranza, un tempo condannata anche in modo eccessivo perché molte persone ne erano afflitte senza averne colpa, è diventata adesso quasi un titolo di vanto. I modelli proposti dalla TV e dai social esaltano altre qualità individuali come la bellezza fisica, il successo, la ricchezza materiale; di conseguenza il non sapere, l’essere privo di ogni competenza e di ogni conoscenza non è sentita come una mancanza, ma come un merito. La persona di cultura è spesso svalutata, ritenuta noiosa e pedante, quando addirittura non è apertamente guardata con sospetto e avversione.

Di questa attuale svalutazione della cultura nella nostra società contemporanea fornisco alcuni esempi. Nonostante che la maggioranza dei cittadini sia stata a scuola ed abbia terminato almeno un istituto di istruzione superiore, ciò non ha impedito la diffusione dell’analfabetismo funzionale: moltissime persone, infatti, sanno leggere e scrivere, ma non riescono a comprendere il senso di ciò che leggono, e se debbono scrivere non sono in grado di costruire un periodo in lingua italiana che sia sintatticamente corretto. Questo fenomeno a me sembra gravissimo: a che è servito a costoro andare a scuola per almeno tredici anni senza aver raggiunto le più elementari conoscenze di lingua? Ma il bello è che di tale condizione nessuno si preoccupa, pare anzi che questo genere di ignoranza – perché di ciò si tratta – venga comunemente accettata come facente parte della più ordinaria normalità.

A me risulta però che esista e sia molto diffuso anche un altro genere di analfabetismo, che io chiamo “di ritorno”. Mi riferisco alla limitatezza culturale di tante persone che non soltanto hanno frequentato le scuole superiori, ma si sono anche laureate diventando brillanti medici, avvocati, architetti o altro che dir si voglia. La maggior parte di costoro non legge più un libro dai tempi dell’università e presenta una spaventosa ignoranza in tutto ciò che non fa parte delle proprie specifiche competenze professionali: la storia, la geografia, la letteratura, le scienze, tutto lo scibile che hanno incontrato nel loro percorso è andato irrimediabilmente perduto. Tutto dimenticato, tutto sparito. Illustri e celebri professionisti, ricchi e famosi, non sanno chi erano Giulio Cesare o Napoleone, né quando sono vissuti né che cosa abbiano fatto, né dove si trovino l’Armenia o il Paraguay, né che cosa abbiano scritto Manzoni e Leopardi. Anche a costoro si potrebbe chiedere: cosa siete andati a fare a scuola? Cosa vi è rimasto della vostra istruzione?

Ma l’ignoranza più crassa e diffusa si vede dai social come Facebook, dove per mettere un post o scrivere un commento occorrerebbe quanto meno avere una minima conoscenza della lingua italiana; invece gli sfondoni e gli orrori ortografici e sintattici abbondano senza limiti, per non parlare della limitatezza lessicale di gente che magari, pur avendo un diploma, conosce appena 500 parole ed impiega sempre quelle. E se qualcuno che ne sa un po’ di più si azzarda a correggerli anziché ringraziarlo lo insultano, intimandogli di “non fare il professorino” e asserendo che ciò che conta è il concetto, poi se “a dormire” è scritto “ha dormire” non importa nulla, basta intendersi.

A questo punto c’è da chiedersi a cosa serva la scuola se tante persone, pur diplomate e laureate, non posseggono più neppure le competenze di base e si dimenticano in poco tempo tutto ciò che hanno studiato. Ma il problema non sta negli insegnanti, che nella gran maggioranza dei casi sono preparati e professionali, bensì nella mentalità corrente, che non conferisce alla serietà degli studi l’importanza che dovrebbe avere. La tendenza generale dei personaggi pubblici, dai divi dello spettacolo ai pedadogisti ed ai sociologi, è quella di blandire gli studenti, giustificarli sempre e comunque e soprattutto non biasimarli quando si comportano in modo scorretto, ad esempio copiando o cercando ogni scusa per non impegnarsi e ingannare i docenti; anzi, dalla TV arrivano messaggi compiacenti con tali comportamenti, come se non studiare, copiare o andar male a scuola fosse un merito e non un atteggiamento censurabile. Ho sentito celebrità televisive vantarsi di essere stati degli asini a scuola o di aver copiato i compiti, ed il tutto è accompagnato da risolini compiacenti, come se l’ignoranza che è la inevitabile conseguenza di questi atteggiamenti fosse cosa di cui andare fieri. A ciò si aggiunge la tendenza, ormai invalsa da molti anni, alle promozioni generalizzate, anche degli studenti per i quali sarebbe estremamente giovevole ripetere un anno del loro percorso. Tutte queste situazioni messe insieme non possono che dare un unico risultato: l’ignoranza, che a me pare una sciagura ma che invece, per l’opinione comune, è cosa di poco conto, anzi è auspicabile per poter controllare meglio il popolo ed imporgli una sorta di regime come quello in cui già ci troviamo, almeno da quando è iniziata la pandemia. E allora, se siamo contenti, continuiamo così: tanto, come disse qualcuno, con la cultura non si mangia.

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Importanza storica e letteraria delle “Confessioni” di S.Agostino

L’opera a carattere autobiografico più importante di Agostino sono certamente le Confessioni, in 13 libri, composte durante il primo periodo dell’episcopato di Ippona, forse tra il 397 e il 400. Il titolo allude alla pratica, frequente nelle comunità cristiane primitive, di confessare pubblicamente i propri peccati per farne piena ammenda; tale è il significato precipuo dell’opera agostiniana, che ripercorre le vicende personali dell’Autore non a scopo informativo ma come riferimento ad un percorso spirituale che, prendendo avvio dall’errore giovanile, lo ha portato a liberarsi dal male e ad avvicinarsi finalmente a quel Dio che per tanto tempo ha ricercato. Le Confessioni quindi, pur recando memoria delle analoghe opere del mondo classico, non vanno intese come un’autobiografia nel senso invalso di racconto di vicende private, ma come un viaggio iniziatico dall’oscurità alla luce, dal male al bene, del quale gli eventi personali sono soltanto il riflesso esteriore.  L’opera può sommariamente dividersi in due sezioni, apparentemente in contrasto tra loro: la prima, che comprende i libri I-IX, ripercorre le tappe della vita del Nostro dalla prima infanzia alla morte della madre Monica, mentre la seconda (libri X-XIII) affronta argomenti diversi come le facoltà umane, soprattutto la memoria, nella ricerca di Dio (libro X) e il problema della creazione attraverso il commento alla Genesi (libro XI), che continua anche nei libri XII e XIII toccando anche altre tematiche quali la limitatezza della ragione umana e il dogma della Trinità.  

Il lettore moderno trova difficoltà a intravedere l’unità dell’opera e ad collegare razionalmente i primi nove libri con gli altri quattro; ma tale unità va ricercata non nello sviluppo cronologico delle vicende narrate, bensì nell’itinerario mistico dell’anima: essa intraprende un viaggio di purificazione che dal peccato giunge alla conversione, ma che anche dopo di essa sente l’esigenza intima di continuare il dialogo con Dio, per arrivare alla comprensione del misteri religiosi mediante l’esegesi delle Sacre Scritture. Siamo di fronte ad un superamento della prospettiva letteraria classica, che prendeva le mosse dalla contemplazione della realtà esteriore per risalire per suo tramite dal particolare all’universale; richiamandosi invece alle Sacre Scritture ma tenendo conto anche di Platone e del neoplatonismo, Agostino pone in primo piano il mondo divino, l’iperuranio cristiano, di cui le cose sensibili non sono che un mero riflesso ed a cui l’uomo mortale non è legato mediante la scienza o la filosofia, ma per mezzo delle fede e della Grazia divina. Il percorso iniziatico compiuto in mezzo alle miserie del mondo altro non è che un cammino catartico (cioè purificatore) che, per quanto più attraversa il degrado e l’abiezione, tanto più si rende degno di ascendere alla beatitudine eterna. Una simile concezione dell’opera letteraria non era compresa nella mentalità greca e romana, ed in questa diversità ideologica consiste appunto la più grande originalità dell’opera agostiniana; dal punto di vista del contenuto e dei motivi letterari che vi compaiono, invece, le Confessioni non sono aliene dalle reminiscenze classiche di opere introspettive ed autobiografiche quali erano, ad esempio, i Ricordi di Marco Aurelio (scritti in greco) e le Metamorfosi di Apuleio. La conclusione che ricaviamo da quanto esposto è che l’opera di cui trattiamo non può rientrare nei canoni della biografia classica, perché l’angolo visuale da cui la realtà è osservata risulta completamente diverso: anche nel racconto degli eventi personali dello scrittore, in effetti, non contano i fatti in sé ma le reazioni emotive e psicologiche che da essi scaturiscono. Un esempio per tutti può essere l’episodio del furto delle pere narrato nel libro II, sul quale Agostino insiste a lungo e mostra un sentimento di contrizione e di pentimento che, francamente, appare eccessivo al lettore moderno in rapporto all’entità del fatto in sé; ma la lunga riflessione dedicata all’episodio non ha di mira l’evento contingente, bensì il principio universale del delitto gratuito, quello cioè che è compiuto con l’unico scopo di piegarsi al fascino del male.  

Ma le perplessità del lettore moderno nella lettura delle Confessioni non finiscono qui: ci si trova infatti di fronte ad un tono narrativo totalmente nuovo, che mescola continuamente le reminiscenze classiche con l’esegesi biblica (soprattutto i Salmi), il racconto con la preghiera. Anche nella dimensione stilistica dell’opera notiamo quest’amalgama di matrici culturali diverse: le parti mistiche e dedicate alla preghiera adottano un’espressione elevata, magniloquente e non di rado soffusa di un afflato lirico degno dei più grandi poeti; le parti narrative, al contrario, si caratterizzano per l’adesione ad un linguaggio moderato e spesso colloquiale. Il ricordo della retorica classica è comunque tutt’altro che sbiadito, giacché a periodi brevi e paratattici si affiancano anche, nei punti di maggior elevatezza dottrinaria, lunghi periodi ipotattici di ascendenza ciceroniana. Va poi osservato che l’introspezione psicologica tipica di questo capolavoro agostiniano si manifesta anche a livello formale, mediante il frequente ricorso alle esclamazioni, alle interrogazioni retoriche, alle figure foniche efficaci soprattutto nella lettura ad alta voce prevalente nell’Antichità. Anche per questi motivi, oltre che per il contenuto, le Confessioni sono da considerare una delle più grandi opere della letteratura latina; al suo fascino si sono ispirati i grandi poeti e pensatori che hanno percorso dopo Agostino un iter esistenziale alla ricerca della verità e della purezza, da Dante a Petrarca, da Manzoni a Kierkegaard.

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Psicologia ed arte nell’opera di Tacito

All’ideologia ed alla concezione della storia sono legati, in Tacito, tutti quei procedimenti narrativi e quei caratteri formali e stilistici che fanno della sua opera un autentico prodotto artistico. Notiamo anzitutto che la centralità delle figure umane nell’interpretazione degli eventi e delle cause comporta una forte dilatazione dell’elemento psicologico, che è attuata mediante una tecnica di costruzione dei caratteri ben più minuziosa e curata rispetto ad altri ambiti culturali e letterari. Fermo restando il pessimismo di fondo che lo induce a individuare nella natura umana più i difetti che le virtù, lo storico delinea il ritratto fisico e morale dei suoi personaggi con grande abilità descrittiva; e se le figure di minor rilievo vengono costruite in uno spazio limitato, molto più complessa è la psicologia dei veri protagonisti dell’opera come Agricola, Otone, Vitellio, Tiberio, Nerone e così via. Per questi grandi personaggi la delineazione del carattere non avviene in un momento determinato, ma viene a determinarsi nel corso della narrazione come somma di atteggiamenti, di azioni e di parole dalle quali emerge a poco a poco una struttura mentale che resta poi definitiva ma che non è mai monolitica. A tal riguardo può giovare un breve confronto con altri storici come Livio: in quest’ultimo i personaggi di rilievo (specie quelli dei primi libri) hanno tratti psicologici comuni, quali ad esempio l’antica virtus romana che li induce a battersi per il comune interesse della collettività, ed in ciò si assomigliano tutti; in Tacito invece ogni carattere, se pure può avere tratti comuni con altri, percorre una propria via interiore costellata di eventi personali, problemi intimi e familiari, così che vengono a formarsi individualità che vivono ciascuna nel suo mondo ed emergono sugli altri come i grandi personaggi della tragedia greca.  

Se vogliamo portare un esempio di quanto stiamo affermando, nessuno è più adatto di quello che riguarda due imperatori protagonisti degli Annales, Tiberio e Nerone. Il primo dei due, pur naturalmente portato alla crudeltà, ha come assopito in sé questo suo tratto, al punto da rivelarsi all’inizio del suo regno un buon sovrano, capace di gestire in modo equilibrato gli affari di Stato; in seguito però, sia per il malefico influsso di Seiano che per il peso stesso del potere, emerge in lui una forte diffidenza nei confronti del prossimo che lo porta ad isolarsi, a tormentarsi ed infine a reagire con violenza contro chiunque potesse apparirgli – nella sua mente malata – come un pericolo o un rivale: ecco quindi che l’iniziale crudeltà del personaggio riemerge nel corso dei suoi ultimi anni, ma la sua ricomparsa non è casuale, bensì provocata sia da una disposizione naturale che da un insieme di fattori esterni accuratamente vagliati e approfonditi dallo storico con mirabile sapienza e capacità di analisi. Una caratterizzazione indiretta, cioè operata mediante la descrizione delle sue azioni e dei suoi comportamenti, è anche quella di Nerone, il cui celebre ritratto tracciato da Tacito è poi rimasto indelebile per quasi due millenni. I suoi tratti distintivi sono la crudeltà, la stravaganza, l’istrionica tendenza ad esibirsi; ma essi non vengono in luce all’inizio, quando nel giovane imperatore prevalgono piuttosto l’indecisione e l’insicurezza che lo portano ad affidarsi (con risultati positivi, ma del tutto indipendenti dalla sua volontà) a buoni consiglieri come Seneca e Trasea Peto; soltanto più tardi, quando la malefica influenza di Tigellino e l’oppressione della madre dispotica lo inducono a liberarsi di lei, Nerone imbocca la via del delitto e da quella non esce più, per il semplice fatto che la malvagità era già in nuce dentro di lui, se pure non si palesava con chiarezza. Anche qui i passaggi psicologici sono molto rilevanti: Tacito non si limita infatti a registrare i vari cambiamenti di Nerone che da sovrano illuminato lo porteranno a divenire il mostro sanguinario che tutti conosciamo, ma ne indaga le motivazioni profonde scrutando i pensieri, i timori, i sospetti, le gioie maligne del personaggio in modo da analizzare con precisione scientifica il succedersi delle varie fasi e comprendere a fondo i mutamenti psicologici che danno vita all’immagine conclusiva. Il pessimismo tacitiano, portato a vedere ovunque il male ed il vizio, agisce in questo processo come propulsore ma non altera l’acutezza dell’indagine: la crudeltà e l’esibizionismo di Nerone, in effetti, non sono dati preconcetti ma emergono dalle sue azioni e reazioni di fronte agli eventi esterni, all’operato altrui, ai consigli che riceve ecc.  

L’arte narrativa di Tacito, che non rinuncia alla ricerca della verità storica ma che abbellisce questa verità con squarci descrittivi di grande valore artistico, risente di due forme di storiografia già attive nella letteratura ellenistica: quella cosiddetta “pragmatica”, che mirava alla ricostruzione oggettiva degli eventi, e quella chiamata “tragica”, che accentuava la drammaticità dei fatti narrati ed intendeva così coinvolgere emotivamente i lettori. In questa ripresa della tradizione greca Tacito evita però ogni elemento romanzesco ed ogni inutile sentimentalismo, preferendo concentrarsi, sulla scia di Sallustio, sulla psicologia dei personaggi e sull’arte del ritratto. La variegata galleria di tipi umani che riscontriamo nelle pagine delle Historiae e degli Annales, in effetti, è ben lungi dall’essere statica e univoca: in molti personaggi, anche di minor rilievo rispetto agli imperatori, emergono tratti insoliti e persino contraddittori, che contrastano evidentemente con la fissità caratteriale propria dell’analisi operata da altri autori, quali ad esempio il contemporaneo Svetonio. Per limitarci agli esempi più noti, prendiamo due figure anche altrimenti celebri, quelle di Seneca e di Petronio. Il primo è presentato come un uomo di grande capacità ed autorevolezza, come il saggio consigliere che tenta di indurre al bene lo scapestrato Nerone, riuscendovi per un certo periodo; nei suoi confronti lo storico mostra ammirazione e rispetto, pur non facendo parola della sua attività letteraria, ma ne mette in luce anche le contraddizioni, soprattutto quelle che emergono allorché il filosofo è costretto, pur di continuare la propria missione, ad accettare imbarazzanti compromessi. Addirittura contraddittorio ci appare invece, in alcuni suoi aspetti, il carattere di Petronio, l’arbiter elegantiae la cui morte è descritta in pagine di grande efficacia artistica e letteraria del XVI libro degli Annales (capp. 18-19). Quest’uomo ci affascina proprio per l’estrema variabilità della sua indole, nella quale compaiono sia elementi negativi (l’indolenza, la lascivia, la vita molle e dedita ai piaceri) sia d’altro canto un senso della dignità morale che non ci aspetteremmo da un personaggio del genere. Di fronte al dispotismo neroniano che vuole ingiustamente la sua rovina, Petronio reagisce esaltando quelle qualità di fermezza e di autocontrollo che lo storico, pur all’interno di un quadro come quello sopradescritto, aveva già sottolineato: egli infatti non si uccide in modo plateale e drammatico, ma trasforma quasi la morte in un gioco, conversando amabilmente con gli amici e discutendo sull’immortalità dell’anima.  

Il quadro complessivo delineato da Tacito resta comunque sempre fosco e cupo, in armonia con il pessimismo che caratterizza il pensiero dell’Autore. In questa particolare visione della realtà trovano spazio anche precise reminiscenze letterarie, come quelle della storiografia tragica ellenistica di cui si è detto, ai quali vanno aggiunti ricordi specifici di altri generi come la tragedia stessa, sia quella degli originali greci che quella dei poeti romani come Pacuvio, Accio e lo stesso Seneca. A ciò ci richiamano le vicende dei singoli personaggi, che passano spesso dal delitto al castigo (v. Otone, Vitellio, Tiberio, Seiano e lo stesso Nerone), ed anche la visione di intere dinastie come quella dei Giulio-Claudi, che per le sue vicende ricorda la stirpe maledetta degli Atridi magistralmente trattata nell’Orestea di Eschilo. In entrambe le vicende, in effetti, pare incombere sui protagonisti una maledizione predestinata alla quale non riescono a sfuggire, indotti come sono in una spirale di violenza che, attraverso molteplici delitti ed altrettanto inevitabili punizioni, ha come esito conclusivo l’annientamento della stirpe stessa. L’alta qualità della narrativa tacitiana, pertanto, è ottenuta anche “sconfinando” nel campo di altri generi letterari, un procedimento che, pur non essendo una novità, costituisce una delle componenti essenziali della personalità artistica dello scrittore.

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Petronio e la società romana

A parte i problemi connessi alla cronologia, alla composizione del Saryricon ed al suo contenuto analitico, su cui non insistiamo perché di dominio comune, non v’è alcun dubbio sul fatto ch’esso descriva una società corrotta e decadente, dove gli antichi valori della virtus romana sono perduti per sempre. L’episodio della cena Trimalchionis, con i suoi 52 capitoli, dà largo spazio a questa tematica: qui viene infatti rappresentata un’umanità degradata fatta di arrivisti e di arricchiti, per i quali il denaro è di per sé strumento non tanto di benessere, quanto di elevazione sociale. Lo stesso padrone di casa, rozzo e incolto ma divenuto potente grazie alle sue ricchezze, è il tipico rappresentante della nuova classe dei liberti venuta in auge proprio nell’epoca giulio-claudia; non è però probabile, a nostro giudizio, che l’ironia petroniana voglia colpire singole persone, quanto piuttosto il trasformismo sociale in sé, cioè la mentalità di coloro che, del tutto privi di cultura e di raffinatezza, fondano la propria vita su valori meramente economici. C’è tuttavia, nei confronti di costoro, un’ironica analisi psicologica da parte dell’Autore: essi infatti non sono sereni pur nel loro benessere materiale, ma vivono nella consapevolezza di essere esposti ad un destino mutevole e capriccioso, che da un momento all’altro può loro togliere la ricchezza e la vita stessa, come dimostra la lunga disquisizione di Trimalchione sulla precarietà dell’esistenza (cap. 34) e la stessa preparazione del proprio monumento funebre (cap. 71). Allo stesso modo la fine ironia di Petronio persegue un altro tratto caratteriale tipico degli arricchiti, cioè il complesso di inferiorità ch’essi mantengono, nonostante la loro opulenza, nei confronti delle persone di rango più elevato: ne è prova la serie di ingiurie che un liberto di Trimalchione lancia contro Ascilto e Gitone, colpevoli di ridere smodatamente dinanzi alle pacchiane esagerazioni degli altri convitati (capp. 57-58). L’impietosa ironia di Petronio crea qui un’immortale caricatura di un intero ceto sociale, ma ciò non significa che vi sia da parte sua una condanna morale fondata su presupposti di ordine etico; pare piuttosto che l’Autore si diverta a descrivere questa umanità bassa e volgare ma psicologicamente fragile, e che mantenga verso di essa un certo distacco e forse un senso di superiorità, che però non arriva mai al disprezzo vero e proprio.  

Il degrado morale della società contemporanea è quindi uno dei bersagli preferiti dalla satira petroniana. Sotto questo aspetto è certo che Encolpio, Ascilto e Gitone non possono rappresentare l’Autore, ma sono invece anch’essi vittime della sua graffiante ironia: la loro depravazione morale infatti, che arriva a volte persino all’abbrutimento, non può costituire in alcun modo un messaggio al lettore se non in negativo, ad indicare cioè i comportamenti da evitare, non quelli da seguire. Il continuo loro coinvolgimento in attività illecite come il furto e l’inganno, ed ancor più l’incessante partecipazione ad avventure a sfondo sessuale sia tra di loro che con partners occasionali, dimostrano che anch’essi rappresentano – non meno di Trimalchione – una visione della vita del tutto opposta agli antichi valori del mos maiorum, mai direttamente richiamati ma presupposti ovunque con riferimenti allusivi. Per restare nell’ambito della dizione epica possiamo dire ch’essi sono “antieroi”, per svariati motivi: sono trascinati dalle situazioni che vivono anziché crearle, sono spinti nel loro agire dal vizio e non dalla virtù ed infine, sia nelle singole vicende che nella loro percezione d’insieme della realtà, sono degli sconfitti, degli “inetti”, per usare un termine invalso nella letteratura novecentesca. Possiamo anzi affermare che tutti i personaggi del Satyricon sono caratterizzati da questo statuto etico, non solo i protagonisti: pensiamo ad esempio alle figure femminili del romanzo come Quartilla, Circe o la matrona di Efeso, tutte schiave dei piaceri e incapaci di dominarsi, oppure lo stesso Trimalchione che è prigioniero della sua stessa enorme quanto inutile ricchezza. Il Satyricon è l’emblema di una società fatta di perdenti ed essa stessa fondata su un’inquietante precarietà.

Un aspetto particolare di questo mondo in decadenza è quello che riguarda il degrado da cui era ormai investita la cultura, e la letteratura in particolare; ci sembra anzi che la disincantata denuncia petroniana di questo stato di cose sia uno dei messaggi più incisivi di tutto il romanzo. Volgendo ancora una volta lo sguardo alla Cena Trimalchionis, ne ricaviamo l’impressione che l’Autore abbia della cultura una concezione quasi religiosa: come le Verità rivelate, infatti, essa è apportatrice di un messaggio salvifico soltanto finché rimane appannaggio degli iniziati, mentre diventa volgare merce di scambio quando è contaminata dal tocco dei profani. In bocca a Trimalchione ed ai suoi accoliti è sgradevole anche Virgilio, come lo stesso Encolpio, qui certamente portavoce di Petronio, non manca di sottolineare (cap. 68). Non c’è dubbio che siamo di fronte a una concezione elitaria del sapere, abbastanza scoperta pur nella velata constatazione secondo cui anch’esso, come tutti i beni preziosi, si corrompe quando cade nelle mani sbagliate. Questa decisa presa di posizione trasmette al lettore un profondo senso di decadenza e di degrado, che affiora anche in altre sezioni del romanzo dedicate a specifici ambiti culturali: la discussione iniziale di Encolpio con il retore Agamennone, in effetti (capp. 1-5), lascia nel lettore l’impressione di una forte decadenza dell’eloquenza, che si estende anche alla poesia e alla pittura. Un’altra figura emblematica è quella di Eumolpo, il poeta fallito che non si affligge molto se l’uditorio lo prende a sassate dopo le varie esibizioni perché, come dice, è abituato a simili accoglienze (cap. 90): egli rappresenta degnamente tutta quella schiera di letterati di terz’ordine che, nella quasi sempre vana speranza di far fortuna, affollavano le sale di lettura e le scuole di retorica. Nel Satyricon ci viene presentata una cultura spesso ostentata ma in realtà priva di valore, sintomo inequivocabile di quel degrado morale e civile che aveva investito tutta la società romana.  

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La lezione immortale di Seneca filosofo

Benché non possa definirsi un pensatore originale, Seneca è l’unica personalità della letteratura latina che abbia tentato di costruire un sistema etico con al centro l’uomo come individuo e non soltanto – alla maniera di Cicerone – in funzione della collettività cui appartiene. Il suo progetto morale tendeva a indicare al lettore la via della virtù e della felicità, i beni inestimabili cui ciascuno di noi aspira; e poiché la tristezza dei tempi e l’oppressione di un potere dispotico minacciavano l’esercizio delle virtù comuni, egli trovò nell’interiorizzazione propugnata dal pensiero stoico la chiave di volta per realizzare la libertà più ampia e completa, quella dello spirito. Una volta tramontato il sogno, a lungo accarezzato, di trasformare il principato neroniano in una sorta di repubblica platonica fondata sulla giustizia, Seneca si rifugiò nel microcosmo individuale; e tuttavia il suo otium non divenne mai un isolamento ascetico, bensì fu continua ricerca di una felicità e di una tranquillità d’animo che, pur realizzata singolarmente, non rinunciava comunque a relazionarsi con il contesto sociale.  

L’ideale della perfetta virtù è perseguito da Seneca con una serie di precetti morali che potremmo ricondurre ad alcuni princìpi essenziali: la liberazione dalle passioni e dalle false attrattive del mondo, il corretto impiego del tempo, l’uso della ragione come unico strumento conoscitivo, la rinuncia alle ambizioni di gloria e di potere, la serena accettazione della morte come inevitabile legge di natura. Ma il grandioso progetto etico senecano si blocca di fronte alla realtà effettuale, perché egli stesso si rende conto che il perfetto sapiente da lui teorizzato altro non è che un’astrazione, una potenzialità impossibile a tradursi in atto; nessun uomo sarebbe infatti capace, seguendo alla lettera le prescrizioni dell’antico stoicismo, di liberarsi totalmente dalle passioni e dalle pulsioni del corpo, che hanno comunque le loro esigenze e non possono annullarsi del tutto in funzione di una pura spiritualità. Ne sono testimonianza le contraddizioni che toccarono in prima persona l’Autore stesso e ch’egli con stizza rammentò nel De vita beata, come ad esempio il contrasto tra il disprezzo dei beni materiali predicato teoricamente ed il lusso e la ricchezza di cui Seneca, come uomo di potere e consigliere di Nerone, poteva disporre. La figura del sapiente resta dunque un’astrazione, che solo in minima parte potrebbe essere identificata con personaggi storici (Socrate e Catone l’Uticense sembrano gli unici due che Seneca considera perfettamente saggi) o assimilato a modelli realmente esistenti o esistiti.  Il carattere teoretico del sistema senecano si rivela tale anche per la mancanza di una prospettiva ultraterrena che legittimi la speranza di poter ottenere in un’altra vita quello che non è possibile in quella mortale. Come Lucrezio, così anche Seneca intende liberare gli uomini dalla paura della morte, ma non definisce bene (con l’unica parziale eccezione del finale della Consolatio ad Marciam) il destino dell’uomo dopo la separazione dell’anima dal corpo, tanto da riproporre invariata l’alternativa platonica tra distruzione totale dell’essenza umana o migrazione in un “altrove” indefinito (mors aut finis est aut transitus). Il saggio dovrebbe quindi realizzare la felicità e la perfetta virtù in questa vita, perché l’altra è incerta, sebbene la divinità (da identificare con il Logos universale) sia un’entità tutt’altro che astratta. Ne dobbiamo dedurre, in ultima analisi, che il sistema etico di Seneca fallisce sul piano effettuale, perché resta in massima parte un’astrazione, una sorta di ideale a cui gli uomini debbono guardare da lontano, o che al massimo riescono ad avvicinare senza però giungervi mai.  Pur tuttavia gli insegnamenti di Seneca sono preziosi e immortali, validi anche per noi moderni: essi non pretendono infatti il raggiungimento della perfezione, ch’egli sa essere impossibile per la natura umana, bensì hanno l’obiettivo di avviarci sulla strada della virtù, che sarà comunque proficua anche se percorsa per poco spazio: non è necessario per lui raggiungere la cima della montagna, è sufficiente mettersi sul sentiero che vi conduce e percorrerlo il più possibile, per quanto è nelle nostre forze.

Al travaglio spirituale di Seneca corrisponde, dal punto di vista formale, l’adozione di uno stile “drammatico”, così detto perché mette in evidenza, in modo simile ad una scena teatrale, le inquietudini e le incertezze dello spirito. A differenza di Cicerone, che compone periodi ampi ed articolati a struttura prevalentemente ipotattica (cioè con molte proposizioni subordinate), Seneca predilige utilizzare frasi brevi e spezzettate collegate in modo paratattico (con congiunzioni copulative o avversative). Ciò corrisponde, oltre che al diverso carattere dei due scrittori ed al pubblico cui ciascuno si rivolgeva, anche alla differente funzione ch’essi attribuivano alle loro opere filosofiche: mentre infatti Cicerone riteneva che il ruolo precipuo della prosa filosofica fosse quello di docere (ossia trasmettere delle cognizioni), per Seneca invece occorreva anche flectere o movere, vale a dire coinvolgere emotivamente il lettore, trasmettendogli la stessa passione e la stessa ansia conoscitiva che animano la penna dello scrittore. Da qui deriva l’abbondanza delle interrogative retoriche e delle sententiae, affermazioni brevi e concise a contenuto morale che, per il loro carattere proverbiale o il tono lapidario, erano destinate a impressionare il lettore e restare a lungo nella sua mente; tali sono, ad esempio, affermazioni come male vivet qui nesciet bene mori (“vivrà male chi non saprà morire bene”, De tranq.animi, 11,6), nec speraveris sine desperatione, neve desperaveris sine spe (“non sperare senza disperazione, non disperare senza speranza”, Epist.Luc. 104,12) e molte altre ancora. Alla tensione emotiva ed al condizionamento delle coscienze è finalizzato anche l’uso frequente delle figure retoriche della ripetizione, come l’anafora, l’epifora, l’epanalessi; talvolta intere frasi vengono più volte ripetute, allo scopo di puntualizzare il concetto che esprimono, come il celebre “Servi sunt” dell’Epistola 47 sulla condizione degli schiavi, replicato per ben quattro volte a sottolineare, mediante la puntuale confutazione di ogni affermazione, l’irrilevanza della condizione servile. Quanto ai registri stilistici impiegati, notiamo la presenza di due diverse connotazioni, una di tipo “interiore” (cioè le riflessioni compiute dal filosofo nella sua ricerca personale della verità), ed una che potremmo definire “didattica”, che si evidenzia soprattutto nelle Epistole a Lucilio, dove il filosofo assume la veste di maestro e di precettore. A questi stati d’animo corrisponde un diverso impiego dei mezzi espressivi: nelle pagine più intimamente personali prevalgono in effetti le antitesi, i parallelismi e le forme riflessive, mentre in quelle didattiche notiamo un impiego massiccio delle sententiae ad effetto ed anche, sul piano morfologico, degli imperativi e dei gerundivi.

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Individualismo e modernità nella poesia di Catullo

La poesia catulliana inaugura una nuova dimensione intellettuale che consiste nel porre al centro dell’esperienza artistica il sentimento privato, le passioni, le gioie e i dolori dell’uomo considerato nella sua individualità. Per cogliere questi aspetti Catullo ha mutato anche la prospettiva globale della composizione poetica: anziché perseguire una finalità generale da ottenere con la conoscenza dell’opera nel suo insieme (come avveniva, ad esempio, con la funzione celebrativa dell’epica o con quella spettacolare dei generi teatrali), egli ha preferito ricorrere a quello che i Greci chiamavano il kairòs (cioè l’”occasione”). Perciò nel liber abbondano carmi composti per determinate circostanze particolari e individuali, come il ritorno di un amico o dello stesso Catullo da un viaggio (c.9 e 31), una cena con gli amici (c.13 e 50), un incontro amoroso (c.32 e 56) e via dicendo. Ciò avviene soprattutto nelle nugae, dove l’occasionalità corrisponde alla più tipica caratteristica di un importante genere della letteratura alessandrina, l’epigramma; in questo tipo di composizione, infatti, la brevità ad esso connaturata si unisce alla presenza di una situazione particolare (il kairòs, appunto), che fornisce il motivo base della composizione.

Ma è proprio in questa dimensione strettamente quotidiana che Catullo, inserendo nella sua opera i sentimenti privati, ha messo allo scoperto una componente essenziale della psicologia umana e l’ha resa universale, andando oltre lo spazio ed il tempo della propria breve esistenza: le gioie amorose dei baci illimitati del c.5, così come la dolorosa disillusione del c.11, se vogliamo ricordare solo i momenti estremi della sua vicenda sentimentale, sono le gioie e i dolori di tutte le persone di ogni tempo. E’ questa l’essenza della ben nota “modernità” di Catullo, il motivo per cui ancor oggi, in un’epoca da lui cronologicamente lontanissima, il poeta veronese ci appare così vicino, perché dà voce – per primo nella letteratura latina – alle pulsioni ed alle passioni che si agitano nell’animo di ciascuno di noi. Eppure anche questa “modernità”, per continuare ad usare un termine invalso e noto a tutti, ha una doppia origine, perché deriva in parte dalla libera e spontanea sensibilità del poeta, ma è anche mutuata da antecedenti letterari. Dal punto di vista formale i modelli principali sono quelli alessandrini, ma per quanto attiene alla scoperta della sfera del sentimento individuale Catullo si ispira soprattutto a Saffo, la grande poetessa greca del VII sec. a.C. che per prima pose l’amore e il sentimento al centro della propria attività poetica. L’ideale continuità tra i due poeti è innegabile: a parte il fatto che il nome fittizio della donna amata (Lesbia) richiama evidentemente l’isola di Lesbo, patria di Saffo, possiamo trovare nel canzoniere catulliano richiami frequenti, espliciti o allusivi, alla poetessa greca. In un celebre frammento Saffo aveva definito l’amore “dolceamaro”, perché portatore di gioia e di sofferenza in egual misura; la genesi e lo sviluppo della relazione tra Catullo e Lesbia realizzano appieno questa apparente dicotomia, che si manifesta in un turbinìo di sentimenti opposti dove il dolce e l’amaro, non sempre così antitetici, finiscono talvolta per sovrapporsi (v. ad es. i carmi 72 e 75). Anche il crudele tormento della gelosia è una scoperta di Saffo, che ne mostra gli effetti fisici, più che psichici: i suoi sensi si bloccano alla vista di un rivale accanto alla persona amata, un fuoco sottile le scorre sotto la pelle, il volto le si scolora e lo spettro della morte le appare. Catullo, nel c.51ha tradotto quasi alla lettera il frammento saffico, rivisitando però i sentimenti della poetessa con una nuova sensibilità, quella della propria personale esperienza. Dobbiamo anche dire che la celebre antitesi tra ragione e sentimento appare per la prima volta nella poesia saffica, così come la forte rivalutazione dei sentimenti familiari: anche Saffo infatti, a quanto ci rivela un noto frammento, aveva un fratello cui era molto legata, sebbene le tenere espressioni che in lei troviamo fossero meno dolorose di quelle di Catullo, a cui una morte crudele e prematura aveva strappato l’amato congiunto. Ma l’omaggio più elevato alla grande poetessa greca è compiuto dal Nostro in un altro aspetto importante della sua opera, la rivalutazione della donna come persona e come portatrice di sentimenti autentici e vitali, anche se ovviamente non sempre positivi. La figura di Lesbia, in altri termini, riflette la condizione della donna di elevata condizione sociale, capace di condurre una vita libera e spregiudicata e aperta anche ad attività, come quella della letteratura e della cultura in genere, che a Roma erano state sempre una prerogativa maschile.  

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L’arte “drammatica” del poema di Lucrezio

L’intima unione che nel poema di Lucrezio esiste tra pensiero e forma, cioè tra filosofia e poesia, ha dato spesso origine a giudizi parziali sulla personalità artistica dell’Autore, quando non addirittura a fraintendimenti. Coloro che hanno ritenuto antitetiche le due componenti del poema, tali cioè da dover restare sempre distinte e non potersi amalgamare, hanno continuato a limitare o a negare l’afflato poetico in tutte quelle parti del De rerum natura ove prevale il contenuto tecnico e dottrinario. Tra questi vanno annoverati i critici di ispirazione idealista, tra cui il nostro Benedetto Croce, il quale amava ed apprezzava Lucrezio ma riteneva che poesia e filosofia non potessero convivere, per cui la prima esisteva e si manifestava soltanto dove mancava la seconda. A giudizio del filosofo, attivo nella prima parte del XX° secolo, la grandezza artistica del poema lucreziano andava ricercata nelle sezioni cosiddette “narrative”, come l’inno a Venere iniziale o la descrizione finale della peste di Atene, in quelle cioè dove veniva meno il serrato ritmo argomentativo della dimostrazione filosofica; ciò perché l’estetica idealista considerava inconciliabili la filosofia, espressione della più pura razionalità, e la poesia, frutto invece del sentimento, della fantasia e quindi irrazionale. Questa concezione non ci pare da invalidare in ogni suo aspetto, perché in effetti è vero che le sezioni del De rerum natura che più ci affascinano ed attirano la nostra ammirazione sono quelle narrative; e tuttavia non possiamo trascurare che in molte parti del poema le due componenti essenziali sono così strettamente unite da riuscire difficile isolarle e distinguere l’una dall’altra. Perciò la poesia, sia pur a livello di semplice similitudine o immagine momentanea, può sbocciare anche in mezzo alla più razionale delle dimostrazioni dottrinarie: un esempio di ciò è nel libro II, quando Lucrezio, per chiarire il concetto del clinamen, della caduta obliqua degli atomi che determina il formarsi dei corpi sensibili, ricorre all’efficace paragone del raggio di sole che penetra in una stanza oscura, per cui osservando la striscia di luce è possibile all’osservatore vedere il brulichìo del pulviscolo atmosferico, del tutto simile al moto atomico (De rer.nat. II, vv. 114-122).

Al di là di questa antinomia, peraltro, il coinvolgimento emotivo del lettore, necessario alla comprensione ed all’assimilazione della dottrina, è l’elemento più suggestivo e significativo dell’arte di Lucrezio. Il senso del dolore, dell’angoscia e della morte è molto marcato nel De rerum natura, sebbene ciò non prefiguri necessariamente una concezione pessimistica della vita, perché riconoscere l’esistenza delle sciagure non elimina la fede lucreziana nella forza salvifica della filosofia epicurea. Anche in questa tematica, come possiamo notare nello splendido finale dell’opera che descrive la peste di Atene (VI, vv. 1138-1286), il racconto tocca vette di altissima poesia proprio nel momento in cui sono impiegati toni fortemente drammatici, che molto assomigliano a quelli dei poeti tragici greci e dei loro successori romani come Ennio, Pacuvio ed altri.  Va poi osservato che Lucrezio, come farà anche Virgilio nelle Georgiche, partecipa egli stesso emotivamente del dolore umano, annullando quel “distacco epico” tipico della narrazione omerica. Questa “simpatia” (intesa in senso etimologico, dal verbo greco sympascho, “soffrire insieme”) dell’Autore per le sue creature si manifesta appieno ovunque egli raffiguri la sofferenza, che affligge non solo l’uomo ma anche gli altri esseri viventi esistenti in natura, soprattutto gli animali. A questo riguardo è d’obbligo ricordare lo stupendo brano che illustra il dolore della giovenca alla quale è stato ucciso il vitellino durante un sacrificio agli dèi. Nulla può consolare il dolore di questa madre, che pur non essendo umana è consumata da un’angoscia senza fine (II, vv. 355-360)

Ma desolata la madre, errando per le verdi pasture,

cerca in terra le orme segnate dai piedi bisulci,

 con lo sguardo scrutando ovunque, se possa in un luogo

 scorgere il figlio perduto, ed empie di tristi muggiti

 immobile il bosco frondoso, e spesso torna a cercare

 nella stalla, angosciata dal rimpianto del suo caro giovenco.

Ciò che più di tutto commuove il lettore è lo sguardo disperato della povera bestia che scruta ovunque alla ricerca del figlio, come farebbe qualunque altra madre che avesse subito una simile sciagura. Notiamo in questo passo un’altra caratteristica dell’arte lucreziana, che sarà poi tipica anche di altri poeti come Virgilio: l’umanizzazione della natura, l’estensione agli animali e persino agli elementi inanimati del dolore e delle sensazioni proprie degli uomini. Se Lucrezio è effettivamente il primo grande poeta latino capace di spaziare nell’immensità dell’universo, è anche colui che ha scoperto le leggi eterne che ne regolano la vita e la morte; e poiché queste leggi sono comuni a tutti gli esseri, gli elementi naturali vengono accomunati agli uomini in un continuo succedersi di luci ed ombre, di gioie e dolori. Nell’Inno a Venere che apre il poema, per citare un solo esempio, le acque del mare “ridono” all’apparire della dea (tibi rident aequora ponti, v.8), mentre gli uccelli ne annunciano l’arrivo con grande letizia, ma col cuore turbato dalla passione amorosa (perculsae corda tua vi, v.13). Il rigoglioso fiorire della natura in primavera è il simbolo stesso della vita, così come la peste di Atene del VI libro lo è della morte; si tratta però di una simbologia universale, che comprende anche la razionalità umana, ma non la isola dal contesto generale del mondo, perché tutto ciò che esiste ha la medesima origine ed è accomunato dal medesimo destino. Questa concezione, che certamente è collegata a presupposti filosofici come la teoria atomistica di Democrito e di Epicuro, è però anche produttrice di grande poesia, laddove la descrizione dei sentimenti e delle passioni esce dall’ambito strettamente umano e trova suggestive corrispondenze nell’immensità dell’universo: l’analisi dei tristi effetti dell’ardore amoroso, che occupa la parte conclusiva del libro IV (vv. 1058-1285), mette in primo piano la nostra parte irrazionale, capace di provocare istinti e pulsioni non diverse da quelle che determinano il comportamento degli animali dominati da Venere nell’inno prima citato. La visione universale dei sentimenti e delle passioni, che accomuna tutti gli esseri uniti dal medesimo destino, consente la creazione di immagini grandiose e suggestive, che sono tali proprio perché non ristrette alla psicologia umana: il continuo alternarsi di bene e di male, di gioia e di dolore è nel poema di Lucrezio espressione delle leggi immutabili che regolano l’universo, di cui l’uomo rappresenta soltanto un aspetto. Da qui deriva quella sublimità dell’espressione lucreziana che trasmette al lettore un senso di arcano mistero: essa è la più diretta espressione di un elevatissimo livello artistico, che così si configura perché non lascia mai indifferente chi si accosta a questo grande capolavoro che è il De rerum natura. Come ha scritto uno dei nostri più grandi poeti contemporanei, Mario Luzi, “nemmeno chi legge rimane nella posizione statica dello spettatore, ma ciascuno è implicato nella profonda dinamica del dramma.”

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La “realtà rovesciata” delle commedie di Plauto

E’ noto che che il fine essenziale di Plauto era quello di provocare il divertimento del pubblico, creando situazioni e personaggi esageratamente comici e tenendo in poco o nessun conto la realtà effettuale. Possiamo anzi affermare che nella finzione scenica plautina viene a determinarsi una realtà alternativa del tutto opposta all’ordine costituito nella società romana del tempo: i rapporti gerarchici familiari soprattutto, che nel diritto romano erano rigidamente verticalizzati a favore del potere assoluto del paterfamilias, qui appaiono del tutto rovesciati, con il figlio che ha sempre la meglio sul padre e con il servo, normalmente all’ultimo gradino della scala sociale, che la fa da padrone e trionfa su tutto e su tutti. In tale prospettiva è operante una vera e propria inversione dei ruoli sociali, e di conseguenza anche dei valori e dei principi morali su cui si fonda la vita comunitaria; e sono quindi proprio i desideri e gli istinti più bassi e meno nobili, come quello del sesso e quello del ventre, che vengono alla ribalta oscurando e persino beffeggiando quelli più nobili ed elevati. Il rilievo che assumono i personaggi del giovane innamorato, del vecchio libertino e della cortigiana incarnano questa rivalutazione dell’istinto sessuale, mentre il servo ed il parassita, sempre occupati a riempirsi il ventre, rappresentano l’altra necessità corporale dell’uomo, quella del nutrimento. E’ questo lo spirito primigenio connaturato alle origini del genere comico e che possiamo ritrovare anche nelle commedie superstiti di Aristofane, benché non sia mai stata dimostrata la conoscenza, da parte di Plauto, delle opere del predecessore greco.  I valori morali e spirituali risultano invece completamente trascurati, ed il clima festoso della commedia si risolve nell’elevazione a motivo portante di tutto ciò che è materiale, corporeo, carnale. Viene così a crearsi una sorta di mondo alternativo, di società alla rovescia, che giustamente qualcuno ha paragonato al moderno Carnevale, oppure, più propriamente, alla festa romana dei Saturnalia, celebrata a dicembre in un periodo non molto distante da quello delle feste natalizie moderne. Durante i Saturnalia, per lo spazio temporale di un solo giorno, il consueto ordine sociale veniva rovesciato: i padroni indossavano il pilleus, un berretto di solito portato dai servi affrancati, e servivano a tavola i loro schiavi, dediti ad un abbondante banchetto ove potevano mangiare a volontà. Ovviamente questo rovesciamento festivo dell’ordine sociale durava solo un giorno, poi veniva ristabilita la normalità ed i servi tornavano nel loro ruolo consueto; così avviene appunto anche nelle commedie di Plauto, dove la conclusione della vicenda drammatica altro non rappresenta se non il ritorno all’ordine costituito. 

Il trionfo dell’assurdo e dell’insolito, con la creazione di una realtà alternativa e l’inversione dei ruoli sociali, comunque, vanno intesi nel quadro di una visione ludica e del tutto illusoria dell’azione scenica; sarebbe quindi del tutto fuorviante voler vedere in questa centralità delle figure basse e servili un intento moralistico oppure, peggio ancora, critico nei confronti del potere politico e degli ordinamenti vigenti nella reale società del tempo. L’intenzione dell’Autore è soltanto quella di divertire il suo pubblico mediante un’arte drammaturgica e una vena creativa di straordinario valore letterario; di ciò il pubblico del tempo dovette essere pienamente convinto, come dimostra il fatto che il Sarsinate conobbe un enorme ed incontrastato successo per tutto il lungo periodo della sua attività, ciò che non sarebbe avvenuto se nelle sue opere qualcuno avesse anche soltanto potuto sospettare attacchi o critiche all’ordine costituito. La prigionia di Nevio, cui Plauto pare alludere in un passo del Miles, dimostra che le allusioni non sfuggivano a chi di dovere, né l’ambientazione greca della commedia, che taluni hanno ritenuto strumento sufficiente per aggirare la censura, poteva garantire più di tanto al poeta quella libertà di parola di cui, come ben sappiamo, non c’era traccia nella Roma del tempo.

Il rovesciamento burlesco della realtà, che costituisce il tratto più originale della comicità plautina, è strumento essenziale della finzione teatrale e l’autore stesso non nasconde affatto la sua natura illusoria, pare anzi voler ricordare continuamente agli spettatori che stanno partecipando a un gioco collettivo. Per questo motivo, onde evitare l’immedesimazione del pubblico nella vicenda e la conseguente attenuazione della dimensione ludica dell’evento teatrale, Plauto usa spesso rompere l’illusione scenica riferendosi direttamente alla rappresentazione che si sta svolgendo. E’ questo il cosiddetto “metateatro”, un procedimento già esistente nell’antica commedia greca di Aristofane e ripreso dopo Plauto da molti autori moderni. Diversi sono gli esempi di questa tecnica, tra cui possiamo citare: lo Pseudolus, quando il protagonista dice al pubblico “ora io sospetto che voi sospettiate che io vi prometta tutte queste vicende solo per divertirvi, pur di arrivare alla fine della commedia” (vv. 562-564); la Cistellaria, dove la serva che ha smarrito la cesta chiede agli spettatori di darle un indizio su chi avrebbe potuto portargliela via (vv. 678-682); l’Aulularia, quando Euclione, che ha perduto la sua adorata pentola dell’oro, supplica disperatamente gli spettatori di indicargli il ladro o farlo arrestare; infine la Casina, dove il vecchio Lisidamo chiede alla moglie Cleustrata di perdonare i suoi atti da libertino, e la donna risponde “ora mi è meno gravoso accordarti questo favore, anche per non rendere più lunga questa commedia, che è già lunga di suo” (vv. 1005-6). L’interruzione della finzione teatrale, richiamando continuamente alla mente degli spettatori l’atmosfera giocosa della rappresentazione, rappresenta essa stessa un ulteriore potente veicolo di comicità. In questa categoria metateatrale potremmo inoltre far rientrare, in qualità di temporanee sospensioni dell’ambientazione della vicenda, anche le inserzioni di elementi romani ed italici nella palliata, che abbiamo visto essere frequentemente utilizzate da Plauto. Sentendo parlare del foro, dei pretori ecc. in un’opera ambientata in Grecia, lo spettatore che se ne fosse allontanato viene ricondotto alla natura ludica dello spettacolo cui sta assistendo.

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Il rientro a scuola nell’epoca del Covid

In questi ultimi 15 giorni la televisione di Stato, tutta filogovernativa, filogrillina e filopiddina, non ha fatto altro che parlare in continuazione della riapertura delle scuole, ovviamente esaltando l’impegno del ministro Azzolina e di tutto il governo Conte per arrivare a questo importante traguardo: hanno lavorato tanto per i nostri studenti, hanno speso molti soldi, hanno dato mari e monti agli studenti ed al Paese. Poi però, alla riapertura effettiva delle scuole, si scopre che tutta questa montatura celebrativa, degna della propaganda del Minculpop e di Goebbels, non era altro che un castello di carte pronto a cadere al primo impatto con la realtà: in molte scuole mancano i banchi (dopo tutta la pubblicità che hanno fatto a quelli nuovi a rotelle), mancano le mascherine e il gel sanificante, mancano le aule e soprattutto manca il personale, un numero di docenti che si calcola intorno ai 50.000. Questo la dice lunga sulla distanza che c’è tra il dire ed il fare, tra i proclami lanciati ad alta voce e la realtà a cui poi gli studenti si trovano di fronte. Eppure, come tanti giustamente hanno ricordato, di tempo ce n’è stato per provvedere a risolvere le varie criticità, visto che le scuole sono chiuse dai primi di marzo, la chiusura più lunga tra tutte quelle avvenute in Europa; durante questi sette mesi si sarebbe potuto e dovuto provvedere all’edilizia scolastica, alle opportune sanificazioni, al reperimento del materiale e soprattutto alle nomine dei docenti. E’ ammissibile, in un Paese civile, che le graduatorie per l’insegnamento contengano sempre errori e che si provochino intoppi burocratici quando le si debbono utilizzare? In questo periodo di chiusura c’era tutto il tempo per stilare le nuove graduatorie in forma definitiva e provvedere alle nomine dei docenti non di ruolo fin dalla fine di agosto. Qualcuno dei governi precedenti c’era riuscito negli anni scorsi, quello attuale no, e questo la dice lunga sull’incapacità e l’incompetenza di tutto questo esecutivo ed in particolare del comparto dell’istruzione.
Si obietterà, come è stato fatto per tanti altri settori, che il governo Conte si è trovato ad affrontare una situazione del tutto nuova, quella della pandemia di Covid-19, e che in queste condizioni non è facile trovare sempre la formula giusta per risolvere i problemi. E’ una giustificazione reale e vale anche per la scuola, ed in effetti io credo che qualunque altro ministro, al posto dell’Azzolina, si sarebbe trovato in difficoltà, fosse stato pure Gentile o qualche altro illustre personaggio un po’ più titolato di lei a ricoprire quel ruolo; ma questa motivazione è valida solo a metà, perché il reperimento dei materiali necessari, la sistemazione delle aule e le nomine degli insegnanti non c’entrano nulla con l’epidemia, le si sarebbero potute fare così come venivano effettuate in precedenza. Quello che è stato fatto, invece, è il protocollo di comportamento per alunni e insegnanti, che francamente mi sembra assurdo e molto più pesante di quello applicato in tutti gli altri paesi europei: mi riferisco soprattutto all’uso obbligatorio delle mascherine da parte dei docenti, che in alcune regioni italiane sono costretti a indossarle per l’intera durata della loro permanenza a scuola. E’ una misura eccessiva e inutile: una volta che l’insegnante è in cattedra, distante almeno due metri dai ragazzi, perché obbligarlo a tenere sul viso questa pezzuola che è sopportabile se portata per pochi minuti, ma che diventa un autentico tormento se tenuta per ore, soprattutto nella stagione calda in cui ancora ci troviamo? E poi c’è la questione dei trasporti: anche lì si è fatto poco o nulla, perché stabilire che sui pulmann si possono occupare i posti all’80% significa lasciare la situazione più o meno com’era prima. E allora a che serve tenere distanziati i ragazzi in classe quando sui mezzi di trasporto stanno tutti ammassati?
Anche a questo proposito mi vedo costretto a tornare a quel che ho sempre sostenuto fin dall’inizio, che cioè il clima catastrofico che è stato creato appositamente da questo governo ed il terrorismo psicologico dei mezzi di informazione hanno determinato la formazione di un clima di paura e di preoccupazione eccessive che ha investito tutte le componenti sociali, ben al di là di quello che sarebbe stato necessario: fermo restando, infatti, che è giusto e opportuno agire con cautela e seguire le norme precauzionali per evitare il contagio, per il resto è giusto tornare alla vita, considerato anche che attualmente le conseguenze della patologia provocata dal virus non sono più drammatiche come avveniva nei mesi di marzo e aprile scorsi; nei giovani, poi, il virus è quasi sempre asintomatico e quindi  le misure adottate nella scuola sono eccessive e talora persino grottesche, come la doppia quarantena degli elaborati scritti che passano dalle mani degli alunni a quelle del professore e viceversa. Il discorso è un po’ diverso per i docenti, che effettivamente debbono proteggersi con più attenzione; ma anche qui non è opportuno esagerare e paventare più pericoli di quelli che effettivamente ci sono. Purtroppo l’influsso negativo della campagna mediatica promossa dal governo ha contagiato anche i professori, provocando in alcuni di essi una folle paura per il rientro a scuola e addirittura patologie psichiatriche dovute allo stress. Questo è molto dannoso, perché quello del professore non è un lavoro materiale ma richiede serenità mentale, buon umore, concentrazione; ed in queste condizioni sarà molto difficile raggiungere questi obiettivi, perché non può stare tranquillo davanti ad una classe un docente che vive nel terrore di infettarsi. Per questo, oltre che per molte altre ragioni, credo che questo nuovo anno scolastico non parta con buoni auspici.

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Ritorno a scuola a settembre

Si fa un gran parlare in questi giorni di come dovrà essere gestito il ritorno a scuola a settembre per il prossimo anno scolastico, dopo l’emergenza Covid-19. Le proposte fin qui avanzate dal ministro e dagli “esperti” che lo coadiuvano mi sembrano tutte improponibili o addirittura assurde: lasciando stare quella di separare i banchi con il plexiglas, che è un’autentica sciocchezza, anche le altre però non brillano per originalità e soprattutto per efficacia. Occupare spazi esterni agli edifici scolastici è possibile solo in minima percentuale, perché molti istituti sono ubicati in strutture vecchie, a volte non hanno neanche la palestra e non ci sono nelle vicinanze altri edifici disponibili. Fare i turni non elimina il problema degli assembramenti, perché comunque molti studenti si troverebbero ad entrare a scuola e ad uscirne negli stessi orari, ed inoltre c’è un’altra difficoltà ancora maggiore: nelle scuole di provincia, dove la maggior parte degli alunni è pendolare, gli orari dei trasporti sono fissi e non ci sono i fondi per istituire corse aggiuntive che ovviamente avrebbero un costo non indifferente; peraltro tutti dovrebbero sapere che l’Italia non è solo Milano, Torino, Roma e Napoli, ma esistono tanti piccoli centri che debbono essere serviti con ferrovie e autolinee, i cui orari non si possono spostare a piacimento. Distanziare semplicemente i banchi di due metri è una soluzione altrettanto fasulla, sia perché gli assembramenti si formerebbero comunque (v. la ricreazione, l’entrata e l’uscita ecc.) sia perché ci sono scuole che non avevano spazi sufficienti nemmeno prima dell’epidemia, figuriamoci dopo.
Altra proposta, avanzata in riferimento soprattutto alle scuole superiori, è quella di perpetuare la didattica a distanza, per cui le classi verrebbero divise a metà e gli studenti si alternerebbero andando fisicamente a scuola tre giorni alla settimana e seguendo negli altri tre le lezioni da casa. Ma i tanto deprecati assembramenti si formerebbero anche con la presenza di metà degli studenti di ogni classe, ed inoltre – e questa è la maggiore difficoltà – il lavoro a distanza non è paragonabile per partecipazione ed efficacia a quello svolto in presenza, ma costituisce solo un palliativo da utilizzare limitatamente alle situazioni di vera emergenza. Come si è visto da quel che accaduto in questi mesi (dai primi di marzo, quando sono state chiuse le scuole in tutta Italia, fino ad oggi) i professori hanno dovuto organizzarsi e lavorare molto di più di quanto facevano prima, con buona pace dei soliti ignoranti che li accusano di essere fannulloni, per ottenere risultati molto inferiori: se è vero infatti che una lezione di storia, di letteratura o di scienze teoriche si può tenere anche on line, non è la stessa cosa per gli esercizi, gli esempi, le letture dei testi, la cui effettiva validità didattica è controllabile solo con la presenza fisica del docente. E tanto più ciò vale per le verifiche: interrogazioni, elaborati e test effettuati on line non danno nessuna garanzia di avere la benché minima attendibilità, perché gli studenti a casa possono copiare ciò che vogliono o farsi suggerire liberamente da altre persone della famiglia, senza che i professori si accorgano di nulla. La promozione generalizzata di tutti gli alunni, che da molti è stata criticata, era invece l’unica conclusione possibile dell’anno scolastico, un anno in cui non era minimamente verificabile la reale preparazione degli studenti. Forse si potevano bocciare coloro che non hanno seguito le lezioni on line e se ne sono andati per i fatti loro, ma come dimostrarlo? Le scuse avrebbero potuto essere tante: “Avevo il computer guasto”, “La connessione non funzionava”, “Non ho la webcam” e altre amenità del genere, che sono banali ma che senza dubbio avrebbero fatto vincere alle famiglie qualunque ricorso.
Ed allora, constatato che la didattica a distanza è efficace solo molto parzialmente e non può sostituire quella in presenza, e considerato pure che gli studenti dovranno recuperare la mancata preparazione che ha riguardato in questi mesi anche i più bravi (figuriamoci gli altri!), non è pensabile poter replicare un anno scolastico come quello passato, se non vogliamo che le lacune diventino talmente estese da non potersi più colmare. Va bene che di ignoranza ce n’è già tanta, ma proprio per questo è necessario porvi un argine, finché si è in tempo. E allora cosa fare? La cosa più semplice e naturale, secondo me: tornare a scuola normalmente, come prima dell’epidemia, e dedicare almeno un mese al recupero dei contenuti non assimilati o approfonditi quest’anno. E perché faccio questa proposta, che può sembrare azzardata? Perché di fatto l’epidemia è finita, come ci dicono i dati giornalieri che – loro malgrado – quelli della Protezione civile sono costretti ad emettere. Illustri scienziati e virologi ci dicono che da noi ormai il virus non dà più gli effetti gravi di prima, oggi si ammalano pochissime persone e con una carica virale trascurabile, tanto è vero che dovunque le misure di sicurezza di fatto si stanno allentando, quando non sono già state eliminate del tutto. Ogni epidemia segue una parabola, prima ascendente e poi discendente, ed oggi siamo arrivati al termine della discesa, almeno qui in Italia; la circolazione del virus è ormai limitatissima e pressoché innocua, e quindi sussistono le condizioni per riprendere una vita normale, sia nella scuola che altrove. Continuare a diffondere la paura, paventare una “seconda ondata” senza nessuna prova, insistere con cautele ormai inutili è vero e proprio terrorismo psicologico, che qualcuno continua ad esercitare – a mio giudizio – per interessi personali che non voglio qui ripetere perché ne ho già parlato negli articoli precedenti. Quando il pericolo è reale son giuste le cautele e le misure di sicurezza; ma quando questo pericolo non c’è più è sciocco continuare a vivere nel terrore e a bloccare attività essenziali come la scuola, che altri paesi con governi più intelligenti del nostro hanno già provveduto a riaprire.

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Plexiglas e altre genialità

Ogni simile ama il suo simile: perciò un ministro dell’istruzione incapace, che fa parte di un governo di incapaci, tenta in ogni modo di trasformare gli alunni italiani in una massa di ignoranti, né altrimenti ci si potrebbe aspettare da persone che evidentemente non sono mai state a scuola oppure, se ci sono state, non se ne sono neanche accorte. Prima hanno chiuso di botto tutte le scuole per il Covid-19, e questo si può anche comprendere per ovvi motivi sanitari e perché è stato fatto anche negli altri paesi europei; ma poi, quando tutti hanno riaperto perché ritenevano l’istruzione essenziale per la formazione dei cittadini, i nostri governanti hanno continuato a tenere tutto chiuso con la scusa della cautela e con il solito sciocco ritornello che sentiamo ripetere tutti i giorni dalla TV di regime, “non dobbiamo abbassare la guardia…”, per guardarci da un virus che di fatto non c’è più. Gli altri Paesi hanno riaperto le scuole, soltanto noi abbiamo continuato a tenerle chiuse. Ora io, che sono un noto complottista maligno e sospettoso, mi chiedo: possibile che francesi, tedeschi, svedesi, svizzeri ecc. siano tutti pazzi e che solo Conte e l’Azzolina siano mostri di intelligenza? Io qualche dubbio ce l’ho, non solo sulla buona fede dell’avvocatucolo e della “ministra”, ma per la convinzione che non riaprire le scuole significa bloccare l’istruzione, la cultura… E si sa che la cultura è pericolosa, perché c’è il rischio che la gente cominci a ragionare con il proprio cervello e si renda conto che siamo in mano di una banda di irresponsabili. Meglio quindi tenere chiuse le scuole, così i ragazzi giocano alla playstation, guardano il “Grande Fratello” e altri simili programmi, vanno a fare l’aperitivo (a distanza, ovviamente, altrimenti sono criminali!) e non si impelagano con la cultura, con la quale, com’è noto, non si mangia.
Hanno deciso, contro tutto il mondo, di tenere chiuse le scuole anche adesso che il virus praticamente non c’è più, e hanno dato il contentino ai ragazzi promuovendoli tutti senza alcuna verifica, poiché quelle fatte a distanza, come ognuno comprende, non hanno alcuna attendibilità, dato che genitori o amici potevano benissimo suggerire durante le interrogazioni da casa, senza che il docente potesse accorgersene. Così supereranno l’anno scolastico anche coloro che, a cose normali, sarebbero stati bocciati o rimandati. Già questo è intollerabile perché autorizza gli studenti al disimpegno totale, contando nella promozione garantita che quel genio della Azzolina ha comunicato fin dal mese di marzo. Ma il bello viene quando si parla del nuovo anno scolastico, per il quale è stata trovata una soluzione geniale, da una “ministra” in confronto alla quale Einstein era un sempliciotto: il plexiglas. Che idea sopraffina, quella di dividere i banchi con barriere di materiale plastico, proprio degna di questo governo! Vi immaginate come potranno far lezione i docenti con gli alunni chiusi in gabbia, che non potranno comunicare né tra di loro né coi professori? E quando ci sarà da distribuire del materiale cartaceo, come faranno i docenti? Lo lanceranno in aria facendolo cadere su ogni gabbia? E le scuole che hanno le aule piccole dove gli studenti stanno già adesso ravvicinati? Come potranno entrarci le pareti di plexiglas? L’aula diventerà una specie di alveare con tante cellette, e questo non impedirà certo il contatto fisico, che si realizzerà ugualmente quando gli alunni entrano in classe, quando escono, durante la ricreazione ecc. E le ore di educazione fisica come le svolgeranno, con il plexiglas? A me sembra che si sia perduta da parte di questo sciagurato governo non solo la competenza ma anche la minima cognizione della realtà. Siamo alla follia pura, all’incompetenza più totale. Vero è che non c’era da aspettarsi nulla di diverso dal Movimento Cinque Stelle, che fin dai suoi inizi ha mostrato la propria totale inesperienza e la più crassa ignoranza nella gestione di qualunque istituzione, com’è naturale per un partito fondato da un buffone e che ha sempre avuto la convinzione secondo cui qualunque cittadino semplice fosse in grado di fare politica e di amministrare lo Stato. Anche per fare l’operaio ci vogliono corsi di formazione, per fare il ministro dell’istruzione invece no, basta l’Azzolina.
Demenziale è anche la proposta, sempre proveniente dalla stessa “ministra” del governo Conte, di alternare la didattica in presenza a quella a distanza. Anche questa è una totale idiozia, perché la didattica a distanza, che è stata necessaria in questo periodo, non può avere neanche minimamente l’efficacia di quella diretta: la presenza fisica dell’insegnante, il suo interagire con gli alunni comprendendo anche dallo sguardo e dai loro comportamenti ciò che in quel momento è necessario dire o fare, non è sostituibile con nient’altro. L’uso del mezzo telematico a distanza deve essere considerato uno strumento eccezionale e temporaneo, da impiegare soltanto nei periodi di vera emergenza, per il resto è da evitare assolutamente; invece si sta cercando di farlo diventare comune e usuale, e anche qui il complottista che sono io potrebbe sospettare qualcosa: che cioè si voglia far scadere ulteriormente il livello culturale dei cittadini evitando la presenza fisica e le verifiche serie da parte dei docenti, per massificarli e renderli così più condizionabili. Finora sono riusciti a tenerli in pugno imponendo un durissimo e persino criminale “lockdown” e utilizzando lo strumento della paura del virus, perché è evidente che chi è terrorizzato obbedisce sempre alle “regole” (quelle del signor Conte, imposte da lui persino sorvolando il Parlamento!) ed è così ben manovrabile. Anche adesso diffondono la paura spaventando i cittadini con un virus che non esiste più, ma l’operazione comincia a perdere terreno di fronte ai dati che ci dicono che l’epidemia sta scomparendo; perciò proseguono con un altro sistema, addormentando la scuola e la cultura con questa trovata della didattica a distanza, in modo da creare un popolo di burattini, di “yes-men” proni e sottomessi all’autorità costituita.
Il gioco di questo governo di incapaci, che per restare sulle poltrone non ha esitato a strumentalizzare l’epidemia, è ormai scoperto ed evidente a chi rifiuta di accettare per vere le notizie della TV di regime e cerca invece di ragionare con la propria testa. Perciò, dato che il virus sta scomparendo, è giunto ormai il momento di riprenderci le nostre libertà costituzionali, che il signor Conte ci ha arbitrariamente tolto, e di comprendere, per quando riguarda l’istruzione, che gli studenti hanno diritto alla cultura ed alla formazione, con una vera scuola e con docenti preparati e responsabili, fisicamente presenti e non intravisti da lontano davanti a un tablet o una schermo di un computer. Per questo studenti e cittadini debbono lottare per costringere questo governo a riaprire normalmente le scuole a settembre, in presenza, senza ulteriori manovre ed ulteriori tentativi di indottrinamento e di massificazione.

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Osservazioni sulla didattica a distanza

Io ho insegnato per circa quarant’anni, e per fortuna non mi sono mai trovato nella situazione in cui si trovano i colleghi oggi, costretti alla cosiddetta “didattica a distanza”, che la Ministra intende far diventare obbligatoria per tutti. E’ vero che viviamo in un regime, costretti tutti agli arresti domiciliari da una serie di provvedimenti autoritari e contraddittori, ma la pretesa che tutti gli operatori scolastici applichino questo tipo di didattica è presuntuosa, perché presuppone che tutti, docenti e alunni, abbiano in casa un computer e un collegamento ad internet veloce, cosa che almeno finora non era obbligatoria, senza contare il fatto che in alcune zone d’Italia la rete è ancora lenta e instabile. Ma tant’è: oggi si fa tutto con la tecnologia e quindi il problema della chiusura delle scuole si è risolto così, con l’imposizione di una modalità di trasmissione del sapere su cui non tutti sono d’accordo e che comunque fa sorgere molte perplessità.
Personalmente io non sono contrario alla lezione on line, poiché anche dalle videoconferenze, così come dai filmati di youtube, si può imparare qualcosa; ma questa modalità necessita di almeno tre condizioni perché possa mantenere una certa efficacia. La prima è di disporre di piattaforme stabili ed efficienti, che non si disconnettano ogni momento e che permettano al docente ed agli alunni di vedersi di fronte, come se fossero nella medesima stanza. La seconda, purtroppo realizzabile solo in parte, è che gli alunni siano veramente interessati alla lezione e desiderosi di imparare, il che purtroppo è cosa rara anche con la normale didattica in classe; avviene infatti, a quel che mi dicono alcuni colleghi, che alcuni di loro non accendano la videocamera, per cui il docente non può sapere se stanno seguendo o se ne sono andati per i fatti loro. La terza condizione, la più importante, è che la didattica a distanza serva soltanto per trasmettere dei contenuti, ma non per fare le verifiche, che invece il governo ipocritamente pretende: che valore può avere un’interrogazione che lo studente svolge a casa propria, magari con i libri aperti davanti o i genitori dietro le spalle a suggerire tutte le risposte? E peggio ancora sono i compiti scritti: se i ragazzi cercano in ogni modo di copiare con il cellulare in presenza del docente, immaginiamoci cosa possono fare in casa propria! Le verifiche scritte e orali fatte a distanza, a mio giudizio, non hanno alcuna garanzia di un minimo di serietà, e quindi non posseggono alcun valore. Se il Ministero pretende che i docenti le facciano, evidentemente è per il solito malcostume italiano di guardare alle apparenze, alla pura forma, anche quando si sa che la sostanza non esiste affatto. Avverrà quindi che le nostre autorità scolastiche si presenteranno dinanzi all’opinione pubblica ostentando una serietà ed una regolarità che non esistono, ma che permetteranno loro di salvare la faccia; tanto la promozione sarà assicurata a tutti, comunque vadano le “verifiche” fatte a distanza.
Al termine dell’anno scolastico, poi, tutti promossi; e su questo c’è poco da obiettare, perché della chiusura delle scuole non hanno certo colpa gli studenti e le loro famiglie. Ciò che cambierà poco, nella sostanza, sarà l’esame di Stato: anch’esso sarà una pura formalità, ma c’è da dire che lo era anche prima, perché una prova d’esame dove la percentuale dei promossi arriva al 99,3% non può definirsi seria o attendibile. Meglio sarebbe, a questo punto, abolire del tutto questo inutile rito dell’esame di Stato: ne guadagnerebbe l’erario pubblico e la reputazione di tutta la nostra scuola. Per chi invece non ha l’esame e si vedrà promosso anche se non ha fatto nulla, i problemi ci saranno quando le scuole riapriranno, speriamo a settembre; allora sarà necessario un massiccio lavoro di recupero non solo per coloro che avevano svariate insufficienze ma per tutti, anche per gli studenti migliori, in quanto un periodo di rilassamento si sette o otto mesi conduce a dover ricominciare daccapo anche ciò che era stato fatto prima del mese di marzo di quest’anno. Praticamente un anno intero di scuola è andato perduto, e la ripresa sarà molto difficoltosa; allora, almeno in quelle poche scuole dove si studia veramente e si applica una forma di selezione, molti alunni – compresi quelli che se la cavavano con discreti voti prima della crisi – rischieranno di trovarsi in grosse difficoltà. Purtroppo i guai di questo periodo di forzata inattività, che però non dev’essere del tutto sgradito al gran numero degli svogliati che bivaccano nelle nostre scuole, sono difficilmente prevedibili adesso. O meglio, una cosa è prevedibile: che non torneremo più alla vita di prima e che aumenteranno i problemi per tutti, anche per gli studenti e i docenti. In un frangente come questo non posso fare a meno di constatare che l’essere in pensione è stato per me un grande vantaggio.

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Il blog chiude

Questo blog fu inaugurato da me nel febbraio del 2012, ossia quasi otto anni fa. La mia decisione fu dettata da un grande entusiasmo, dalla volontà di esprimere il mio pensiero affidandolo, come una bottiglia con un messaggio dentro, al grande mare di internet. Quali erano le finalità che mi spinsero a prendere questa decisione? Anzitutto quella di informare i lettori sull’argomento del quale avevo più competenza, cioè la scuola ed i suoi problemi, perché in quell’ambiente sono vissuto per 40 anni come docente ed al quale sono molto affezionato ancora oggi che sono in pensione. Quello che mi premeva era suscitare riflessioni, osservazioni e dibattiti sulla situazione della scuola italiana ed in particolare del Liceo Classico, dove ho insegnato le materie più caratterizzanti quel corso di studi, cioè il latino ed il greco; perciò ritenevo che fosse utile occupare questo spazio web per parlare di metodologie dell’insegnamento delle materie umanistiche, dei rapporti tra docente e studenti, della necessità di rinnovare questo indirizzo di studi per evitarne l’inarrestabile decadenza; per questo ho sostenuto a lungo la necessità di cambiare la seconda prova scritta d’esame, superando la solita “versione” secca che non rendeva giustizia alla maggior parte degli studenti. Ma sul mio blog hanno trovato largo spazio anche altri argomenti, come recensioni e giudizi su opere di scrittori e poeti antichi e moderni di mio particolare gradimento, e l’analisi della società attuale e dei suoi problemi. Da questo angolo visuale è diventato inevitabile per me prendere posizioni piuttosto decise e antitradizionali, avverse soprattutto a quel “politically correct” ed a quel pensiero unico che, sostenuto dagli organi di informazione e dagli “intellettuali” radical-chic, tenta di chiudere la bocca a chiunque si oppone alle loro presunte verità. Per sostenere queste mie posizioni ho dovuto, soprattutto negli ultimi due anni successivi al mio pensionamento, esporre le mie idee politiche, che durante l’attività di insegnamento avevo tenuto sempre in ombra perché mai, in tutta la mia carriera di docente, ho dato l’impressione di voler indottrinare i miei studenti. Com’è noto, in classe io parlavo solo di latino e di greco. Tra le finalità del blog inoltre, aperto ai commenti ed alle discussioni che ne potevano derivare, ne va annoverata anche un’altra, che non ho mai cercato di nascondere: quella di farmi conoscere al di là dei confini del mio territorio, attrarre l’attenzione – magari! – di giornali o di case editrici a cui avrei volentieri fornito la mia collaborazione. A dire il vero ho già una certa notorietà, in virtù dei molti libri che ho già pubblicato; ma si tratta di una notorietà settoriale, perché le mie pubblicazioni riguardano il settore degli studi classici e sono quindi sconosciute ai più.
Illudendomi, credevo che il blog mi avrebbe aiutato nel realizzare questi obiettivi che mi ero proposto e che ho elencato qui sopra. E invece niente. Nei primi anni di attività arrivavano diversi commenti, alcuni concordi con il mio pensiero e addirittura elogiativi, altri invece in opposizione: li ho pubblicati quasi tutti, escludendo però quelli dei soliti imbecilli che pensano di farsi grandi con l’insulto e il turpiloquio, ma le discussioni che ne nascevano per lo più morivano sul nascere. Negli ultimi anni poi (intendo soprattutto dal 2016 in avanti) il numero dei commenti, e quindi della partecipazione attiva dei lettori, si è molto ridotto, tanto che i commenti stessi – sempre meno numerosi – provenivano sempre dalle solite quattro o cinque persone, mentre tutti gli altri leggevano a malapena gli articoli, quando li leggevano. Lo stesso andamento discendente si è registrato nel numero delle visite giornaliere al blog: c’è stato un aumento costante dal 2012 al 2017, anno in cui si sono raggiunte le 75.000 visite, cioè una media di oltre 200 giornaliere; ma i due anni successivi sono stati un disastro, con contrazioni continue e costanti, tanto che il 2018 ha registrato 70.000 visite circa, mentre per il 2019 siamo ad appena 56.000. Tutto ciò denota un progressivo disinteresse dei lettori per il mio blog, che mi induce inevitabilmente ad abbandonare questa impresa, che ormai non vale più la pena di continuare.
Qualcuno ha tentato di spiegare le cause di questo declino. Una mia brillante ex studentessa mi ha fatto notare che il titolo e la grafica del blog sono poco attraenti (ma lo erano fin dall’inizio, non è cambiato molto); un altro lettore mi ha fatto presente che la maggior parte degli internauti oggi utilizza per la lettura lo smartphone, ed in effetti è impegnativo leggere su uno schermo così piccolo articoli lunghi e piuttosto complessi come i miei; altri hanno fatto riferimento al grande boom che negli ultimi anni hanno avuto i “social” come Facebook, che ha indotto molti a seguire quelli anziché i blog tradizionali, già superati dall’enorme velocità del progresso e delle abitudini moderne. Può darsi che tutte queste motivazioni abbiano contribuito al declino inarrestabile del blog, o che ve ne siano altre ancora: sta di fatto che non mette più conto, attualmente, dover aggiornare un blog periodicamente, impegnarsi nel trattare argomenti di una certa difficoltà e di un certo peso culturale per avere un riscontro così deludente. Così ho deciso di trasmigrare anch’io su Facebook (dove del resto ho un profilo funzionante da anni) e di abbandonare questa esperienza di blogger. Ciò non significa che il blog chiuderà del tutto: resterà on-line finché il provider di WordPress che lo ospita lo riterrà utile, potrà essere ancora letto e commentato, ma non sarà più aggiornato regolarmente, a meno che qualche volta io abbia qualcosa da comunicare che non può trovare spazio sui social, anch’essi controllati dal potere censorio del pensiero unico comune. Con la fine del 2019 si chiude perciò anche questa esperienza; ma chi vuole comunicare con me potrà sempre farlo tramite Facebook o magari anche mandando commenti qui come faceva anche prima, salvo che la risposta, se arriverà, non arriverà più nei tempi stretti come accadeva finora.
Questa occasione mi è gradita per fare i migliori auguri a tutti i miei amici e conoscenti, che invito a ragionare con la propria testa e a non farsi condizionare dalle idee correnti. Occorre avere il coraggio di andare controcorrente, anche a rischio di essere dileggiati e insultati. Da questo, secondo me, si vede il vero valore della persona, di colui (o colei) che non salta sempre sul carro dei vincitori ma è disposto anche a rischiare qualcosa in nome delle proprie idee.

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Gli studenti italiani peggiori di tutti?

I risultati recentemente diffusi dall’OCSE sullo stato di salute del sistema scolastico italiano, a paragone con quello degli altri paesi europei, sono veramente deprimenti e dimostrano che le varie riforme e riformine succedutesi negli ultimi anni non sono state solo inutili, ma addirittura dannose. Da questa indagine risulta che gli studenti italiani, soprattutto quelli del sud ma anche di certe zone del centro e del nord, non sanno scrivere un periodo sintatticamente corretto in lingua italiana; inoltre leggono male e anche quando lo fanno non sono in grado di capire il significato di ciò che hanno letto. La situazione pare drammatica per quanto attiene alle conoscenze e competenze linguistiche, ma si estende anche ad altri ambiti culturali come quello delle scienze, dove risulta che i nostri ragazzi sono veramente a terra.
Forse un quadro così catastrofico è un po’ esagerato, perché di studenti bravi ed anche eccellenti ce ne sono ancora; di fatto però, durante tutta la mia lunghissima carriera di docente di liceo, anch’io ho dovuto constatare un progressivo abbassamento del livello qualitativo globale delle varie classi che si sono succedute nei vari periodi e soprattutto in questi ultimi dieci anni. Le cause sono molteplici e non mi sembra opportuno ritornare ancora una volta su un argomento di cui ho spesso parlato nei post precedenti: si può tirare in ballo lo scadimento culturale generale della nostra società, la diffusione della volgarità e dell’ignoranza anche a livello degli esponenti politici più importanti, l’uso massiccio degli strumenti digitali che atrofizza il cervello, le varie riforme succedutesi nella scuola dagli anni ’70 in poi, riforme che hanno tolto molto spazio agli insegnamenti fondamentali per fare posto a progetti, attività alternative, lezioni autogestite e chi ne ha più ne metta. Non si può negare che questa sia la realtà, ed è senz’altro vero che il livello medio dei nostri studenti si è abbassato in modo significativo nell’ultimo decennio; su un punto però io non concordo affatto con le conclusioni dell’indagine OCSE, cioè che i nostri studenti siano culturalmente inferiori a quelli francesi, inglesi, tedeschi, finlandesi e via dicendo. Forse saranno meno abili nel compilare i test a crocette che predominano nelle scuole straniere, ma quanto alle conoscenze teoriche dei contenuti culturali ed alle loro applicazioni non credo affatto che i nostri ragazzi ne sappiano meno dei loro colleghi stranieri. E a riprova di quanto affermo posso citare l’esperienza di alcuni miei studenti che, piuttosto scarsi nelle mie ed in altre materie, hanno voluto trascorrere un anno o sei mesi all’estero con il cosiddetto “progetto Intercultura”: una volta ammessi a frequentare le scuole dei paesi ospitanti (e non parlo della Costa d’avorio o della Mongolia ma della Francia, dell’Inghilterra e della Norvegia) i nostri ragazzi diventavano automaticamente i primi della classe, e i professori facevano far loro lezione di storia, geografia, filosofia ed altro ancora. Di converso, quando mi sono trovato ad incontrare studenti stranieri in visita alla mia scuola per scambi culturali, ho notato in loro un’ignoranza non da poco, di dati e concetti che i miei alunni meno bravi padroneggiavano a piene mani.
E’ noto che io sono nazionalista e sovranista, ma quanto qui affermato è dimostrabile, e ciò mi conferma che la scuola italiana, se ben gestita, è ancora tra le migliori, se non la migliore del mondo. Resta però il fatto che il declino c’è stato, per le ragioni sopraddette, e che sarebbe necessario individuare opportuni rimedi e metterli in pratica, anche a rischio di sollevare le proteste dei falsi progressisti che dal ’68 in poi inquinano il nostro Paese e hanno rovinato la nostra scuola con le loro disgraziate riforme, a cominciare dall’autonomia e dal funesto “Statuto” del compagno Berlinguer. Io ho in mente delle formule drastiche che non saranno mai applicate, ma che sarebbero le uniche in grado di risolvere definitivamente il problema. Le suddivido in base ai destinatari cui andrebbero dirette. Per quanto riguarda gli insegnanti, i provvedimenti da prendere sarebbero i seguenti:

1) abolire le immissioni in ruolo “ope legis” e bandire concorsi seri e complessi da cui emerga una vera e consistente preparazione culturale in tutte le discipline che si scelga di insegnare;
2) istituire un tirocinio retribuito della durata di almeno un anno presso le scuole di destinazione, dove i vincitori dei concorsi dovrebbero essere seguiti e monitorati dai colleghi più anziani, perché la preparazione teorica da sola non basta per essere buoni docenti, occorre imparare anche l’approccio didattico, le modalità di valutazione delle varie prove ecc. Chi non dimostra di aver appreso quanto necessario, dovrebbe poter ripetere il tirocinio una sola volta, poi dovrebbe scattare il licenziamento;
3) dare ai Dirigenti scolastici il potere di sospendere per lunghi periodi ed anche di licenziare i docenti impreparati o didatticamente inefficaci;

Per quanto riguarda gli studenti i provvedimenti da prendere sarebbero i seguenti:

1) operare una forte riduzione degli strumenti digitali nella scuola (LIM, tablets ecc.) che in molte discipline non servono a nulla, con un ritorno progressivo ai libri ed ai quaderni cartacei ed all’uso del foglio e della penna. Non dimentichiamo che oggi tante persone non riescono più neppure a scrivere un rigo a mano;
2) inserire il divieto totale di usare a scuola gli smartphone, i computers e ogni altro supporto digitale, se non per scopi unicamente didattici;
3) mettere in atto un forte aumento dell’esercizio di lettura e di interpretazione dei testi letterari;
4) operare, soprattutto nella scuola primaria, un ritorno ad esercizi di comprovata utilità come dettati ortografici, riassunti, temi, calcoli matematici senza uso della calcolatrice;
5) abolire tutti i progetti inutili che sottraggono tempo prezioso all’attività didattica e tornare, soprattutto nella scuola media, allo studio della grammatica italiana, della matematica e dell’inglese di base;
6) tornare alla possibilità di non promuovere chi non raggiunge gli obiettivi minimi della classe frequentata, anche alla scuola primaria e secondaria di primo grado. La promozione garantita è un incentivo al disimpegno e alla cialtroneria di chi viene a scuola “a scaldare il banco”, come dicevano ai tempi miei.

Un altro provvedimento da prendere sarebbe quello di limitare la presenza dei genitori nella scuola e la loro invadenza nel lavoro dei docenti, con il divieto di fare ricorso contro le decisioni dei Consigli di Classe dei docenti, organi sovrani. In tale ottica andrebbe anche abolita in modo totale la possibilità, offerta dalle scuole private dietro pagamento, di recuperare gli anni perduti in seguito alle bocciature. Chi non viene promosso dovrebbe obbligatoriamente ripetere l’anno, senza appello. Altri provvedimenti andrebbero presi poi sul piano disciplinare: esclusione dallo scrutinio e conseguente perdita dell’anno scolastico per gli studenti che si rendono responsabili di gravi mancanze disciplinari e di episodi di violenza o intimidazione nei confronti dei docenti. Per i genitori che aggrediscono presidi o professori, immediata denuncia e condanna penale da scontare in carcere. In tal modo gli animi si calmerebbero subito.
Mi rendo conto che, redatti in questa forma, i miei suggerimenti sembrano troppo drastici, conservatori e reazionari; si potrebbe perciò pensare ad un’applicazione graduale di queste misure, che però sono le uniche che potrebbero riportare gli studenti a saper comprendere ciò che leggono, a saper scrivere senza quegli errori ortografici, sintattici e lessicali di cui oggi c’è grande abbondanza (basta leggere i commenti sui social come Facebook), ed a conoscere le tabelline senza dover prendere in mano la calcolatrice per sapere quanto fa cinque per quattro. Le novità inserite nella scuola a seguito del delirio sessantottino, che fanno sentire le loro funeste conseguenze ancor oggi, debbono essere superate se vogliamo tornare ad una scuola che insegni veramente e che sviluppi veramente le qualità di ragionamento, di analisi e di sintesi. Altrimenti saremo sempre gli ultimi, ed a nulla serviranno le lamentele e le reazioni indignate di fronte alla situazione attuale, che spesso vengono proprio da coloro che hanno avuto una parte non piccola di responsabilità in questo inarrestabile declino.

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Sulle tecniche di traduzione dai classici

In questo post mi occuperò non delle traduzioni dei compiti in classe o in genere fatte dagli alunni, ma di quelle un po’ più precise (si spera!) che vengono pubblicate nelle edizioni scientifiche o divulgative dei classici antichi. Com’è noto, esistono in Italia varie collane di classici tradotti e con il testo a fronte: citando le più celebri, non possiamo certo tralasciare la BUR della Rizzoli, i “Classici greci e latini” degli Oscar Mondadori e i “Grandi Libri” della Garzanti, oltre a diverse altre collane come ad esempio, la “Saturnalia” dell’editore “La vita felice” di Milano, presso cui è uscita un mese fa la mia edizione dell’Hecyra (“La suocera”) di Terenzio. Con questo genere di edizioni ormai ho una certa familiarità, avendo pubblicato traduzioni dello stesso Terenzio e del suo modello greco Menandro, di Senofonte per il greco e di Plauto, di Cicerone, di Virgilio per il latino.
Dopo un’attività così intensa, corredata inoltre dalla lettura di numerose altre pubblicazioni simili alle mie, viene spontaneo interrogarsi sul concetto stesso di “traduzione,” giacché tutti sanno cos’è e a cosa serve, ma ben pochi si sono posti il problema delle modalità con cui eseguire questo difficile lavoro.
Cominciamo dicendo che la traduzione dai classici greci e latini è un’operazione molto ardua, poiché il traduttore sa che, comunque si regoli, non potrà mai rendere l’intrinseco valore del testo originario, per una serie di motivi: la sintassi delle lingue antiche, spesso disposta in una certa maniera per ottenere effetti particolari di significato e di pregnanza di alcuni concetti cari all’autore, è profondamente diversa da quella italiana e perciò non riproducibile; certe strutture delle lingue antiche, inoltre, non hanno corrispondenza con quelle moderne: basti pensare all'”aspetto” del verbo greco, in cui conta la tipologia dell’azione espressa più che la cronologia, ossia il “prima” e il “dopo”; nei testi poetici, inoltre, c’è una struttura metrica fondata sulla quantità delle sillabe lunghe o brevi, che è totalmente scomparsa dalla nostra sensibilità, tanto che non sappiamo neppure come effettivamente i greci ed i romani leggessero la loro poesia. Ci sono poi difficoltà lessicali, perché alcuni termini o locuzioni greche e latine non hanno esatta corrispondenza in italiano, e ciò costringe a ricorrere a circollocuzioni o a note esplicative. Le stesse figure retoriche nei testi classici non hanno soltanto un valore formale, ma condizionano il testo nel suo più profondo significato e nel suo stesso valore letterario; per questo si usa dire – ed è indubbiamente corretto – che i classici andrebbero sempre letti nella lingua originale. Ma non tutti i potenziali lettori sono esperti filologi conoscitori del greco e del latino, ed ecco quindi che la traduzione diventa uno strumento irrinunciabile di conoscenza.
In effetti il dibattito sulle modalità del tradurre esiste da secoli, e può riassumersi nel seguente dilemma: è meglio una “bella infedele”, cioè una traduzione che cerca di mantenere il tono e la dimensione artistica dell’originale scostandosi però dalla resa precisa e puntuale del testo, oppure una “brutta fedele”, ossia una versione che riproduce letteralmente il testo di partenza ma non ha pretese artistiche o letterarie ed è, per così dire, una traduzione “di lavoro”? Esempi della prima modalità sono, tra le altre, le traduzioni dai lirici greci di Salvatore Quasimodo: essendo a sua volta poeta, egli ha voluto trasporre la sua personale sensibilità nei testi che esaminava, fornendoci una serie di opere “nuove” certamente belle e suggestive, ma che non avevano più di tanto il senso letterale che i poeti antichi volevano dare alle loro composizioni, alle quali egli toglieva o aggiungeva parole ed espressioni sue. Un’operazione del genere è certamente meritoria per il lettore che voglia godere di un’arte elevata, ma non certo per chi vuole intendere il dettato letterale dell’autore a scopo, ad esempio, di operare una ricerca filologica. Sono perciò disponibili oggi, per quasi tutti gli scrittori e poeti classici, traduzioni del secondo tipo, fedeli all’originale ma non certo bellissime né particolarmente commoventi, com’è ad esempio quella dei due poemi omerici di Rosa Calzecchi Onesti, edita da Einaudi e da Mondadori.
Questo dibattito è affascinante ma di difficile soluzione, poiché ciascuno ha le sue preferenze e, come si suol dire, de gustibus non est disputandum. Qui aggiungo qualche breve considerazione su come io personalmente mi sono regolato nel compiere le numerose traduzioni che ho pubblicato. Ho cercato, anzitutto, di dare la preferenza alla fedeltà filologica rispetto agli originali, perché scopo essenziale della traduzione è far conoscere un’opera scritta in una certa lingua a coloro che non conoscono quella lingua, e si ha quindi il dovere primario di scrivere quello che l’autore ha detto, senza travisamenti; poiché però le traduzioni troppo letterali finiscono per essere rigide e persino sgradevoli a causa della diversa struttura sintattica dell’italiano, ho anche cercato di impiegare termini ed espressioni proprie della nostra lingua parlata, al fine di rendere più agevole e duttile il testo presentato. Ciò vale soprattutto per i testi teatrali (Menandro, Plauto, Terenzio), che ho voluto riprodurre in forma appunto “scenica”, tale cioè da poter essere utilizzati in caso di un’eventuale rappresentazione odierna delle commedie antiche, per la quale è necessario un linguaggio fedele agli originali ma anche pratico, fruibile con gli strumenti espressivi e conoscitivi dello spettatore moderno. Per questo motivo ho anche abbandonato la tradizione, che qualcuno conserva, di tradurre i testi poetici in versi italiani, specie endecasillabi sciolti: non avendo più noi il senso della quantità, infatti, si rischia di tradire il dettato dell’autore anche solo per il fatto di aver impiegato versi accentuativi, estranei alla sensibilità antica. Allora tanto vale tradurre in prosa i testi teatrali, più fruibili da parte del lettore moderno e più corrispondenti al linguaggio attuale del teatro, che è appunto quasi totalmente in prosa.
Molte altre questioni ci sarebbero da esporre, ma non voglio appesantire troppo questo post, con il quale ho voluto più che altro lanciare un sasso nello stagno, riflettere e far riflettere su questo annoso problema. Senza alcuna presunzione né falsa modestia, comunque, debbo dire che le mie traduzioni fino ad ora hanno trovato largo consenso da parte del pubblico che le ha lette o studiate per preparare interrogazioni o esami universitari. Particolare soddisfazione mi hanno dato quelle dei testi teatrali, che un regista un giorno mi disse di considerarle come le migliori in circolazione per la messa in scena delle commedie antiche; ed in effetti, in occasione di un famoso festival estivo, una parte dell’Aulularia di Plauto, rappresentata in “pendant” con l’Avaro di Molière, fu recitata con la mia traduzione, ripresa da un libro scolastico che avevo composto per i “Classici Signorelli”.

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Il greco ed il latino, oggi

Da molto tempo mi sono reso conto di come il modo di approcciarsi alle civiltà classiche da parte della nostra società moderna sia in gran parte errato, viziato dall’ignoranza e spesso anche della cattiva volontà. Al di là di una generica ammirazione per il mondo greco e romano spesso non si va, neanche da parte di chi ha studiato le discipline classiche per molto tempo. Come primo esempio mi voglio riferire ai numerosi gruppi di Facebook che si occupano della materia, costituiti in genere da docenti o da ex studenti di liceo classico o comunque di materie umanistiche. In essi raramente capita di veder discutere di questioni concrete, e spesso anzi ci si ferma ad un puro compiacimento estetico: si postano passi o brani di autori classici e poi i vari membri del gruppo non fanno altro che osannarli e incensarli tributando loro un omaggio che pare dettato più da una generale e inveterata tendenza a idealizzare il mondo antico più che ad una vera ed autentica comprensione di quei testi. Altre volte vengono postate fotografie della copertina di libri moderni che riguardano l’antichità classica (storie della letteratura, edizioni dei classici ecc.) e anche qui segue una pioggia di commenti ammirati e nostalgici, soprattutto da parte di chi rivede in quelle copertine i libri ch’egli stesso aveva studiato al ginnasio o al liceo, magari molti decenni prima. Ma questa è un’ammirazione di facciata, non è così che si valorizza e si rende utile la propria esperienza di studio.
Un’altra interpretazione distorta e assurda del mondo classico è quella tipica di certi intellettuali e certi registi, che attribuiscono ad autori vissuti duemila o più anni fa categorie proprie del pensiero moderno, ch’essi non potevano neanche lontanamente immaginare. Mi riferisco prima di tutto agli storici marxisti, la cui concezione dell’Antichità ha spesso rasentato il ridicolo, come quando hanno voluto vedere in Lucrezio, ad esempio, i germi non tanto del materialismo (che ci potrebbe anche stare) quanto della difesa del proletariato e della “lotta di classe”, facendo affermazioni frutto di faziosità e di pura fantasia. Non meglio è andata con le rappresentazioni moderne di opere teatrali antiche come le tragedie greche del V° secolo a.C.: qui se ne sono viste di tutti i colori, da Oreste ed Elettra che recitavano in blue jeans, a Zeus che diventava il presidente degli Stati Uniti d’America, fino a quell’autentica buffonata che è stata la rappresentazione dell’Elena di Euripide al teatro di Siracusa, di cui ho parlato nel post che precede questo. In ogni caso è evidente la stortura di chi si è impadronito illegalmente degli scrittori classici per far dire loro quello che lui – cioè lo storico o il regista moderni – avrebbe voluto che dicessero. Si tratta di un’operazione illegittima e fuorviante, un vero e proprio tradimento che dovrebbe essere punito penalmente, perché distorce in malafede l’autentico messaggio che quegli autori volevano trasmettere.
Ma anche nel campo dell’università e della scuola l’approccio al mondo classico è spesso inadeguato e distorto. Ormai da molti anni i professori universitari non pensano affatto a quello che sarà il destino più probabile per i loro studenti di lettere classiche, cioè l’insegnamento nei licei; e così, anziché dedicarsi agli autori maggiori, quelli di cui effettivamente i loro allievi dovranno occuparsi in futuro, tengono corsi su poeti e scrittori semisconosciuti solo perché sono, in quel momento, oggetto dei loro studi. Avviene così che ci si occupi pochissimo di Omero, Euripide, Tucidide, Cicerone, Virgilio e Seneca, e si faccia invece un gran parlare di Erodiano, Aristeneto, Nonno di Panopoli, i poetae novelli, Macrobio ecc., nomi che chi non è specialista non ha mai neanche sentito pronunciare e che al liceo non si accennano neppure. Così il povero studente di lettere antiche, magari laureato a pieni voti, è costretto poi a rifarsi da solo tutta quella preparazione che occorre per insegnare, che l’Università non gli ha mai fornito se non in minima parte. Il filologismo, l’attenzione cioè alle minuzie testuali e linguistiche, avvelena però anche la scuola, dove ci sono docenti che danno più importanza alle regoline grammaticali che all’effettivo valore letterario ed umano delle grandi opere prodotte nel mondo classico. Da questo punto di vista io stesso ho condotto una lunga battaglia attraverso questo blog contro il conservatorismo di chi pretendeva di valutare gli studenti solo dalla loro capacità di tradurre i testi classici, una capacità che oggi – per varie ragioni – si è molto ridotta. Inutile insistere, anche all’esame di Stato, sulla traduzione di brani difficili come quelli assegnati dal Ministero fino a pochi anni fa; è noto infatti che la tecnologia, utile per tanti aspetti, è stata una rovina per questo specifico aspetto della vita scolastica, poiché adesso gli studenti non traducono quasi più autonomamente i brani assegnati dal docente, ma li scaricano da internet già tradotti, ed è quindi assurdo voler continuare con questa pedanteria delle regoline di grammatica quando di fatto non servono più. E’ molto meglio, a mio parere, un approccio più globale alle civiltà classiche, non limitandosi all’aspetto linguistico ma contemplando tutti i settori che sono stati fondamentali per lo sviluppo della civiltà moderna, da quello letterario a quello filosofico, da quello storico a quello artistico.
Io credo che il latino ed il greco abbiano ancora piena legittimità e che sia giusto studiare quel mondo perché da lì è sorta la nostra civiltà. Abbandonarne la cura sarebbe come pretendere di far crescere un albero rigoglioso, pieno di foglie e di frutti, togliendogli le radici. Le nostre origini stanno nel mondo antico, noi siamo gli eredi diretti dei Greci e dei Romani, e conoscere quel mondo significa comprendere veramente la storia della cultura moderna, in tutti i suoi campi d’azione: non si può capire cos’è la democrazia, tanto per fare solo un esempio di un termine di cui tutti si riempiono la bocca, senza sapere com’essa sia nata ad Atene nel V° secolo avanti Cristo. Ma per avvicinarsi correttamente a quel mondo occorre liberarsi da tutti gli errori che nella sua interpretazione sono stati fatti. Bisogna evitare di considerare la civiltà greca e romana troppo lontana da noi, perché è legata in modo indissolubile alla nostra essenza e alla nostra cultura di uomini del XXI secolo; ma occorre evitare anche l’errore opposto, quello cioè di interpretarla e di rappresentarla secondo categorie moderne e da essa del tutto aliene. Il mondo antico non deve essere, in altri termini, idealizzato come un paradigma di assoluta perfezione, perché anche allora c’erano errori e contraddizioni; deve invece essere considerato per quello che è, l’inizio cioè di un cammino di progresso spirituale che, proseguendo per tanti secoli, è giunto fino a noi e ci ha consegnato un grande patrimonio di civiltà.

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Un ministro contro la legge e il buon senso

Sto pensando che in tutta la mia vita all’interno della scuola non ho mai sentito un Ministro dell’istruzione incoraggiare gli studenti a fare “sciopero” e perdere giornate di lezione, chiedendo addirittura che le assenze per queste manifestazioni vengano automaticamente giustificate.
Anche se la motivazione dell’iniziativa può sembrare importante, i problemi del clima e del riscaldamento globale della Terra non si risolvono certamente andando in piazza o a stravaccarsi sulle panchine dei giardini pubblici; è giusto parlarne a scuola, ci si può documentare mediante gli organi di informazione senza perdere giornate di lezione che non saranno recuperate. Il dovere dei giovani è quello di andare a scuola, imparare a ragionare e curare la propria formazione: solo così saranno cittadini responsabili in grado di esprimere con contezza le proprie opinioni sul clima e su altri problemi, senza bisogno di vagare per le strade a fare inutilmente confusione. Gli scioperi studenteschi, le occupazioni e le altre forme di insana protesta sono sempre state totalmente inutili, ed ora lo sono più che mai.
Ma quel che mi indigna più di ogni altra cosa è che un Ministro della Repubblica, che dovrebbe educare i giovani al senso civico ed alla legalità, li inciti invece a compiere atti illegali e dannosi per la loro istruzione e formazione. C’è stato a tal proposito un precedente, l’esaltazione delle “okkupazioni” da parte del sottosegretario Faraone, non a caso esponente della sinistra; ed ora un altro esponente di questo sciagurato governo dell’inciucio ripete questa idiozia. Però più di tanto non me ne meraviglio: da chi proviene dalla sinistra sessantottina e dai loro alleati a 5 stelle non c’è da aspettarsi nulla di positivo. Da un partito fondato da un buffone non ci si può attendere che buffonate.

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Quintiliano, l’insegnante e gli alunni

Si fa oggi un gran parlare, tra i sociologi gli psicologi e soprattutto i pedagogisti, di quale debba essere il giusto e ottimale rapporto tra docente ed alunni, come cioè si debba regolare chi si accinge a percorrere la nobile professione dell’insegnamento; e non a caso uso l’aggettivo “nobile”, perché formare la personalità altrui, oltre che la cultura intesa come insieme di conoscenze, è uno dei compiti più importanti e costruttivi che un cittadino possa svolgere. Anch’io, nella mia quarantennale esperienza di docente di liceo, mi sono ben presto reso conto che la preparazione teorica, pur se accertata mediante la vincita di un concorso ordinario a cattedre come è accaduto nel mio caso, non è sufficiente per essere un buon insegnante: occorre saper instaurare un rapporto educativo ed umano positivo con i propri alunni, i quali debbono sentirsi stimolati dal docente ad imparare condividendo il suo entusiasmo per ciò che insegna. Occorre una buona dose di psicologia per rapportarsi ai giovani di oggi, i “millennials” nati digitali, occorre molta pazienza e disponibilità ad ascoltare oltre che a parlare, occorre l’impiego di un linguaggio che sia sempre comprensibile, ma soprattutto occorre essere onesti ed imparziali ed offrire ai propri alunni un modello di vita, oltre che di competenza e di serietà.
In questo blog ho più volte parlato di questi argomenti, con poco riscontro in verità da parte dei lettori. Forse ne ho parlato male oppure, al contrario, con troppa convinzione per poter ammettere repliche o contestazioni. Però confesso qui che i miei suggerimenti per il mestiere del docente non sono miei, ma derivano in gran parte da Quinto Fabio Quintiliano (ca. 35-96 d.C.), un grande oratore e maestro che visse nell’epoca degli imperatori romani della casata Flavia e fu uno dei primi (se non il primo in assoluto) a ricevere dall’imperatore Vespasiano uno stipendio statale per l’attività di insegnamento, fino a diventare precettore personale dei nipoti del successivo imperatore Domiziano. Nei primi due libri della sua opera, giunta a noi con il titolo di Institutio Oratoria, egli parla con dovizia di particolari della scuola, dal momento in cui il bambino è affidato al maestro fino agli anni della maturità, sottolineandone molti aspetti: quali siano i compiti della famiglia e quali del docente, che metodo utilizzare in considerazione dell’età dei discenti, se sia migliore l’insegnamento individualizzato o quello collettivo e tant’altro ancora. Molti dei problemi da lui affrontati hanno il forte sapore della modernità perché ancor oggi, a distanza di duemila anni, quegli argomenti sono al centro degli studi di tutti coloro che si occupano di pedagogia. Ma tra i suoi consigli sono di strabiliante attualità quelli ch’egli dedica al rapporto tra insegnante e alunni, che trova spazio in più luoghi ma soprattutto in un passo del secondo libro (II,2, 5-8), che riporto nella traduzione di O.Frilli pubblicata da Zanichelli (collana “Prosatori di Roma”, 1974):

“(L’insegnante) assuma dunque innanzitutto sentimenti paterni nei confronti dei suoi scolari e ritenga di sottentrare al posto di coloro che affidano a lui i loro figli. Egli non abbia vizi, né li tolleri. Sia egli austero ma non rigido, sia benevolo ma non privo di energia, perché non si faccia odiare per la rigidezza e disprezzare per la mancanza di energia. Il suo discorso verta spessissimo su ciò che è buono e onesto, perché quanto più spesso avrà dato ammonimenti tanto più raramente dovrà castigare. Non sia affatto collerico, e tuttavia non passi sopra a ciò che meriterà di essere biasimato; sia semplice nella sua maniera di insegnare, tollerante la fatica, assiduo piuttosto che eccessivo. Risponda volentieri a coloro che lo interrogano e spontaneamente prevenga ed interroghi quelli che non fanno domande. Nel lodare le prestazioni dei discepoli non sia né scarso né prodigo, perché il primo atteggiamento genera avversione al lavoro, il secondo una fiducia dannosa. Nel correggere gli errori non sia aspro e per niente offensivo, perché ciò che allontana molti dal proposito di studiare è che certi maestri sgridano come se odiassero. Egli dica ogni giorno qualcosa, anzi molte che gli ascoltatori ripetano tra sé; sebbene infatti la lettura fornisca molti esempi da imitare, tuttavia la voce, come si suol dire, viva dà maggior nutrimento,e specialmente quella di un maestro che i discepoli, purché siano stati rettamente formati, amano e rispettano.”

In queste parole c’è tutto, o quasi, quello che il docente deve sapere ed applicare per svolgere egregiamente il proprio lavoro. Si noti che Quintiliano non accenna alla preparazione specifica e “tecnica” del precettore nelle discipline che insegna, perché quella è data per scontata ma non è sufficiente; parla invece del comportamento pratico, di come ci si debba rapportare con una classe di alunni che, benché siano passati duemila anni, è sempre formata da giovani che hanno bisogno di essere trattati con comprensione e senso di giustizia ma che debbono essere anche stimolati a lavorare ed imparare il più possibile. Dal passo emerge, a mio giudizio, un forte senso di equilibrio che deve caratterizzare il comportamento dell’insegnante, invitato a scegliere il giusto mezzo tra due atteggiamenti opposti ed errati: egli deve infatti essere paterno e benevolo ma al tempo stesso severo e autorevole; non deve lasciarsi andare alla collera (errore frequente, purtroppo!) ma nemmeno passare sopra a ciò che deve essere sanzionato; deve coinvolgere nel dialogo didattico tutti gli alunni, anche quelli che per timidezza o riservatezza non intervengono mai (e ce ne sono molti di questi, ancor oggi!); essere moderato nelle lodi verso gli studenti più bravi, per non demotivare loro né i compagni meno brillanti, ed al tempo stesso non essere troppo aspro nei confronti degli alunni svogliati, perché i rimproveri eccessivi non li indurranno a studiare di più, anzi ne provocheranno ulteriore disimpegno. L’essere offensivi poi, come sono certi colleghi che magari non pensano di esserlo ma credono così di fare il bene degli alunni, produce invece un danno irreparabile all’autostima dei ragazzi nella delicata età adolescenziale: si può benissimo assegnare voti bassi, se necessario, ma spiegandone il motivo e soprattutto senza offendere né mortificare la sensibilità altrui. Il precetto più importante dell’antico pedagogo tuttavia, a mio giudizio, è quello in cui dice che l’insegnante non deve avere vizi né tollerarli. Su questo punto io sono totalmente d’accordo e così ho cercato di comportarmi durante tutti gli anni del mio servizio al Liceo, convinto come sono che anche nella vita privata il docente debba mostrarsi onesto e irreprensibile, perché gli alunni ci osservano, sanno quel che facciamo e ci giudicano, per loro l’insegnante è un modello di vita oltre che un trasmettitore di nozioni e di contenuti. Molti colleghi non sono d’accordo con questo principio e pensano che, una volta terminate le ore di lezione, sia loro lecito comportarsi in maniera sregolata e magari anche libertina: ci sono stati casi estremi di questo tipo, come quella insegnante veneta di qualche anno fa che la sera andava ad esibirsi in locali equivoci e faceva la spogliarellista. Tuttavia, concedendosi pure che nella vita privata ciascuno possa dire e fare ciò che desidera, almeno nel tempo in cui si sta a scuola il comportamento del docente dovrebbe essere serio e decoroso, cosa che spesso non è: mi riferisco ai colleghi che hanno la pessima abitudine di usare il cellulare durante le ore di lezione (e magari lo proibiscono severamente agli studenti), a quelli che fumano nei corridoi durante l’intervallo pur essendo vietato (altro pessimo esempio per gli alunni), a quelli che si vestono in modo indecoroso e vengono ai collegi docenti in sandali e bermuda, a quelli che usano il turpiloquio in presenza dei ragazzi ed altri ancora. Io ho sempre pensato, in quarant’anni di permanenza nella scuola, che non si possa pretendere dagli altri, ed in particolare da ragazzi giovani che abbisognano di modelli comportamentali e debbono essere educati alla legalità ed al senso civico, ciò che noi stessi non possiamo o non vogliamo fare.
Mi perdonino i pedagogisti moderni, ma io credo che le semplici parole di Quintiliano espresse duemila anni fa siano più incisive e pertinenti di tutte le loro complesse teorie sulla scuola e l’insegnamento. Nei tempi moderni si è oscillato tra il classismo e l’eccessiva severità della scuola prima del ’68 e l’eccessivo libertarismo e permissivismo che sono seguiti a quel nefasto movimento che ha distrutto la disciplina e la serietà degli studi. La via migliore, come già Aristotele diceva molti secoli fa, è quella mediana; ma essa è sempre più difficile da raggiungere, ed anche oggi si oscilla spesso tra due estremi opposti che non danno mai frutti apprezzabili. Le parole dell’antico oratore sono ancora valide e straordinariamente attuali: basterebbe seguirle, uniformarsi ad esse anche nell’era del digitale per far sapere al docente come regolarsi con i suoi alunni e con le altre componenti della vita scolastica. Non c’è neanche bisogno di sapere il latino: i precetti di Quintiliano si possono leggere anche in traduzione, perché saranno forse meno suggestivi ma certamente ugualmente efficaci.

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Il nuovo anno scolastico

Se io fossi tra coloro che, una volta andati in pensione, dimenticano totalmente l’ambiente di lavoro in cui hanno passato tanto tempo della loro vita, potrei anche disinteressarmi di quel che è accaduto nella scuola dal 1° settembre 2018 e di quel che vi accadrà d’ora in poi; ma poiché sono come i carabinieri e gli alpini, che si sentono ancora nel loro ruolo fino a quando restano su questa terra, avverto ancora l’esigenza di occuparmi di politica scolastica e di interessarmi a come viene gestito il sistema dell’istruzione, sia a livello nazionale che a quello più ristretto dell’Istituto dove ho prestato il mio servizio per circa quarant’anni. Tutto ciò nella speranza, sempre più esile, che le cose migliorino prima o poi e che si comprenda finalmente, da parte di chi ci governa, che la scuola non è importante solo nel periodo delle elezioni, per racimolare consensi.
Di grandi cambiamenti non se ne vedono quest’anno. Diciamo semmai che ad una novità positiva, cioè la riduzione dell’assurda alternanza scuola-lavoro nei Licei, ne corrisponde una alquanto problematica, cioè l’introduzione dell’ora settimanale obbligatoria di “cittadinanza e Costituzione”, ossia di educazione civica. C’è da dire che questo insegnamento di per sé non è nuovo, perché nei programmi c’è sempre stato e doveva essere svolto dal docente di storia, tanto al biennio che al triennio; di fatto però, come tutti sappiamo, di argomenti afferenti a questa disciplina se ne svolgevano ben pochi, quando addirittura non erano trascurati del tutto. La novità di quest’anno è costituita dall’obbligatorietà dell’ora settimanale e dalla presenza di una valutazione in pagella per gli studenti; si è precisato però, da parte del Ministero, che questa ora non sarà aggiuntiva (perché altrimenti comporterebbe un onere per lo Stato) ma dovrà essere ricavata nel monte orario già previsto per ciascuna classe. E qui parte una serie di interrogativi: quale docente dovrà incaricarsi di svolgere la materia, rinunciando a un’ora settimanale delle sue discipline? Sarà un solo docente per classe a prendersi l’incarico oppure sarà distribuito su tutti i docenti, magari per un mese ciascuno nel corso dell’anno scolastico? Ed in quest’ultimo caso, chi attribuirà la valutazione agli studenti? E’ un gran pasticcio quello fatto dal Ministero, che si affianca ad altri di ugual consistenza compiuti in passato. E’ un’altra chiara conferma di come i politici in genere, di tutte le tendenze, non sappiano praticamente nulla dell’organizzazione interna e della gestione delle scuole; impongono dall’alto determinati obblighi senza chiarire come essi vanno applicati nella pratica, a chi spettano determinati doveri e incombenze. Con la scusa dell’autonomia scolastica la patata bollente viene lasciata in mano ai singoli Istituti, che spesso non sanno come realizzare di fatto quanto prescritto in via teorica. L’unica cosa certa è che sulla scuola si fa sempre economia e si pretende di introdurre grandi e roboanti innovazioni a costo zero, il che mi pare un po’ difficile. Fanno le nozze con i fichi secchi, come si dice in Toscana.
Altro nodo che le scuole dovranno affrontare è la programmazione dell’ultimo anno di corso delle superiori, in considerazione delle novità introdotte quest’anno nell’esame di Stato. Visto a cosa si è ridotto il colloquio orale dell’esame stesso, dove i candidati hanno potuto di fatto dire ciò che hanno voluto e fare in proprio i vari collegamenti interdisciplinari senza che i docenti potessero porre domande diverse dall’argomento sorteggiato, diventa necessario a almeno auspicabile cambiare i programmi dell’ultimo anno di corso, se non addirittura di tutto il triennio conclusivo. Assistendo ad alcuni colloqui e ricevendo il resoconto di colleghi che sono stati in commissione, ho potuto constatare che agli esami attuali non si legge più un testo che sia uno in italiano, latino e greco, non si fa più svolgere sulla carta alcun esercizio di matematica e fisica, ma tutto si riduce a un monologo dello studente che dice soltanto quel che vuole e quel poco che sa. In queste condizioni che senso ha far leggere i brani di classici latini o greci durante l’anno? Che senso ha leggere e interpretare Dante, che all’esame non viene neanche nominato in quasi tutti i casi? Che senso ha leggere i testi di Foscolo, Leopardi, Manzoni, Verga, Montale ecc. se poi all’esame nessuno di questi autori viene espressamente letto? Essi vengono toccati solo da un punto di vista letterario generale e solo se rientrano nel percorso autonomo che lo studente si è preparato in precedenza. Mi si lasci dire che un esame di Stato fatto così, dove i docenti si limitano ad ascoltare e intervengono raramente e solo per rimettere in carreggiata un ragazzo che si è andato a insabbiare, è una vera e propria farsa. Tanto varrebbe allora abolirlo (e lo Stato eviterebbe una spesa di diverse centinaia di milioni di euro l’anno), oppure riformarlo radicalmente ritornando ad una forma più seria e professionale con cui si possa distinguere chi è veramente preparato e chi non lo è. Ai miei tempi portavamo al colloquio orale solo due materie, e di fatto scelte entrambe da noi studenti; però quelle due venivano approfondite, si leggeva e interpretava Dante, i classici, si facevano esercizi di trigonometria ecc., tanto che non esito a dichiarare che quel tipo di esame, pur se fondato su due sole materie, era molto più serio e formativo di quella ridicola commedia che è diventato quello attuale.
In ogni caso, se l’esame rimane come è, sarà necessario modificare la programmazione curriculare, e questo sarà un altro impegno per i docenti, già gravati da tante incombenze che crescono sempre più ogni anno, mentre lo stipendio è sempre lo stesso e molto lontano dagli standard europei. Sono quasi certo che anche il prossimo ministro, a patto che il nuovo governo dell’inciucio arrivi in porto, lusingherà i docenti lodando il loro lavoro e promettendo aumenti economici che in realtà non arriveranno mai. Ormai siamo abituati a questa solfa che si ripete ad ogni cambio di governo e che suona sempre più come una presa in giro della categoria. Sta di fatto che la vita dei professori, soffocati dalla burocrazia e sottoposti a giudizi sommari sul loro operato da parte di dirigenti, genitori e studenti sempre più arroganti e maleducati, sta diventando sempre più difficile e stressante. Per questa ragione, e solo per questa, io sono ben felice di essere in pensione, pur trovandomi ancora condizionato da una certa nostalgia per i miei studenti, ai quali ho cercato sempre di dare il meglio di me, e per alcuni colleghi con i quali mi trovavo in particolare sintonia. Sono due sensazioni contrastanti che credo provino molte delle persone che vanno in pensione: si sta meglio per un verso e peggio per un altro. Ad ogni modo quello che vorrei veder realizzato è un clima di serenità e di collaborazione tra le varie componenti del sistema scolastico, che dovrebbe esser gestito al meglio da politici competenti e da ministri che sanno veramente cos’è la scuola e soprattutto qual è la sua importanza. Ma purtroppo, come dice il Guicciardini nei suoi Ricordi, “ancorché io abbia a viver molto, temo di non veder compiuto nessuno di questi miei desideri.”

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Di cosa avrebbe bisogno la nostra scuola?

Proprio oggi nel culmine dell’estate, il 31 luglio, quando si ricorda la figura di Ignazio di Loyola fondatore della Compagnia di Gesù (per me di funesta memoria), mi viene da pensare ai problemi della nostra scuola come emergono dalle valutazioni effettuate a livello nazionale; e benché io ne sia di fatto fuori da circa un anno, da quando cioè sono andato in pensione, l’argomento mi interessa moltissimo, perché sono convinto che in un Paese civile e moderno il buon funzionamento del sistema dell’istruzione sia fondamentale. A parole sembrano accorgersi di ciò anche i politici, che però poi nei fatti smentiscono le loro stesse dichiarazioni, non preoccupandosi più di tanto dei problemi della scuola né, tanto meno, cercando di risolverli. Eppure non tutte le situazioni difficili che ci sono necessitano di aumenti di spesa pubblica; molto si potrebbe fare anche a costo zero per migliorarne la qualità.
Partiamo dai dati di fatto. I risultati delle prove Invalsi e le testimonianze di tanti operatori scolastici ci trasmettono un quadro sconfortante della preparazione dei nostri studenti: giunti al termine della scuola secondaria di primo grado (cioè la terza media) la maggior parte di loro non sa comporre un periodo sintatticamente corretto in lingua italiana, moltissimi sono coloro che compiono frequenti e ripetuti errori di ortografia (basta leggere i commenti su Facebook!), alcuni non riescono neppure a leggere agevolmente ed a comprendere un qualsiasi testo, quasi nessuno riesce più a fare semplici calcoli a memoria (persino le tabelline per tanti sono un tabù!), la memoria non viene più esercitata ed allenata, e ciò che si impara oggi domani è già dimenticato. A me sembra una situazione grave, anzi gravissima; ed altrettanto grave è prenderla alla leggera e sottovalutare il problema, perché in tal modo saremo sempre più un popolo di ignoranti e di incapaci, persone non in grado di ragionare e di sostenere le proprie iniziative, che saranno ben presto alla mercé di chi li vuole proni e sottomessi, degli “yes-men” pronti ad accettare tutto ciò che viene loro imposto, purché sia loro consentito di godere dei beni materiali. Questo già succede e succederà sempre di più, perché dove non c’è la cultura non c’è neanche la libertà spirituale e l’autonomia di giudizio. In particolare, conoscere la propria lingua e sapersi esprimere in essa in modo corretto ed autonomo è ancora essenziale nella società di oggi dove pur esistono altri linguaggi come quello informatico; ma il codice linguistico, checché se ne dica, è ancora il veicolo principale di affermazione e di successo.
E’ chiaro che una scuola ridotta così, a prescindere da quali ne siano le cause, non assolve più il suo compito. Possiamo dare la colpa alla diffusione di smartphone e di calcolatrici, che irretiscono la memoria e conculcano la curiosità intellettuale, ma non possiamo pensare di abolire questi strumenti ormai diffusissimi tra i giovani ed i meno giovani; possiamo dire che i genitori non fanno più la loro funzione educativa perché sono diventati avvocati difensori dei figli e pretendono la promozione senza dover faticare, ma anche questo deriva da un’evoluzione del costume sociale che ormai è impossibile ribaltare. Dove invece si potrebbe e dovrebbe intervenire è la legislazione scolastica, che negli ultimi decenni è stata caratterizzata da una sempre maggior tendenza ad alienare la scuola da quella che dovrebbe essere la sua funzione precipua, cioè l’istruzione dei futuri cittadini: sono stati inseriti progetti fumosi al posto delle regolari lezioni, eliminati certi esercizi che un tempo si facevano e che sarebbero ancora importanti per la formazione primaria, promossi tutti gli alunni senza distinzione, con le intuibili conseguenze che ne sono derivate. Il risultato è quello che abbiamo davanti agli occhi, e non credo che esistano formule magiche del tutto risolutive; tuttavia, con un po’ di sano conservatorismo (che di questi tempi è necessario, secondo me), qualche risultato si potrebbe ottenere ripristinando in parte la didattica che era in uso nelle scuole elementari e medie al tempo in cui le hanno frequentate le persone della mia età, cioè più o meno mezzo secolo fa. Quando il nuovo non funziona non si deve aver timore di ripristinare il vecchio, se da esso c’è da sperare in esiti migliori; io ho sempre pensato, infatti, che non sempre le novità sono positive ed ho sempre guardato con diffidenza le smanie di rinnovamento che purtroppo, dal “mitico” ’68 in poi, hanno stravolto la nostra scuola. Formulo dunque delle semplici proposte, che espongo dopo aver consultato anche i colleghi che fanno parte con me del gruppo di Facebook “Docenti di materie classiche” da me stesso fondato un anno fa.
1. A partire dalla scuola primaria (cioè le elementari), ritornare a svolgere dettati ortografici, riassunti e composizioni autonome in lingua italiana (temi);
2. Sempre dalle elementari, ritornare allo studio mnemonico delle tabelline e svolgere calcoli ed operazioni in modo autonomo, proibendo del tutto l’uso della calcolatrice;
3. Ritornare all’esercizio della memoria anche in italiano, con poesie ed altri testi;
4. Proibire assolutamente e totalmente l’uso degli smartphone, dei tablet e di ogni altro strumento elettronico durante le lezioni;
5. Incentivare la lettura di testi di vario genere, soprattutto narrativa e articoli giornalistici, fin dalla scuola elementare;
6. Tornare ad un maggior senso della disciplina e di rispetto per l’insegnante. Questo vale anche per i genitori, anzi soprattutto per loro;
7. Applicare sanzioni disciplinari anche gravi, arrivando alla perdita dell’anno scolastico e con decisione inappellabile, per gli studenti che si rendono responsabili di gravi atti di indisciplina. Rendere automatica la denuncia penale per i genitori che insultano o aggrediscono gli insegnanti;
8. Abolire la possibilità di fare ricorso al Tar contro le decisioni dei Consigli di Classe, organi competenti e sovrani;
9. Ripristinare le bocciature anche alla scuola primaria e secondaria di primo grado per gli alunni che non raggiungono gli obiettivi minimi previsti per la classe frequentata. Ripetere un anno non ha mai ucciso nessuno, ed in certi casi è l’unica soluzione valida per rimediare a gravi lacune. Va detto inoltre che, se la promozione è di fatto garantita come avviene oggi, ben pochi alunni saranno stimolati ad impegnarsi in modo adeguato. La scuola deve essere una cosa seria, ed una scuola che a priori non boccia nessuno non vale nulla.
Se si applicassero, almeno in parte, queste misure che – sia detto con buona pace dei “progressisti” – non sono certo soltanto io a sostenere, la qualità dell’apprendimento ne trarrebbe un indubbio beneficio, perché non è affatto vero che i ragazzi di oggi siano meno intelligenti o meno ricettivi di quanto eravamo noi; anzi, è vero il contrario, perché attualmente le fonti del sapere e gli stimoli culturali sono molti di più di quelli che avevamo noi mezzo secolo fa. Il problema è che il sistema dell’istruzione è gestito male, con uno sciocco buonismo ed un fallace progressismo che, pur essendo motivato – quando il processo di rinnovamento è iniziato negli anni ’60 e ’70 – dalla necessità di superare una concezione classista della scuola, è sconfinato poi nel lassismo più indecente e ci ha portati al tracollo ed allo sfascio dell’intero sistema scolastico. Certo, chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati è un rimedio tardivo; però, come si dice, è sempre meglio tardi che mai.

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L’esame cambia spesso, ma sempre in peggio

Bisogna che lo ammetta: sono un inguaribile illuso. Qualche tempo fa, leggendo le modalità di svolgimento del nuovo esame di Stato conclusivo della scuola Superiore, mi era sembrato che vi fossero novità positive, come l’aumento del punteggio del credito e l’avvio del colloquio non più tramite la cosiddetta “tesina” (spesso copiata) ma mediante un argomento estratto a sorte dal candidato. Però è avvenuto, come spesso accade agli ottimisti, che all’illusione iniziale sia succeduta una cocente delusione, per la quale sono arrivato alla ferma convinzione che ogni volta che nella scuola cambia qualcosa si finisce per fare peggio di prima. Così questo esame, che anche negli anni precedenti era un “pro forma” dove tutti o quasi venivano promossi, adesso è diventato un’autentica farsa, tanto da farci concordare con coloro che da tempo ne sostengono l’abolizione, trattandosi ormai evidentemente di un rito costoso ed inutile.
Già avevo scritto su questo blog che l’aumento del punteggio del credito scolastico, di per sé opportuno, è stato male interpretato dalle scuole, le quali hanno fatto corse al rialzo ed hanno attribuito a tutti o quasi punteggi alti, in modo da garantirne la promozione ancor prima di sostenere l’esame. A questo malcostume, tipico della scuola-azienda dove conta l’involucro esteriore e non la qualità del prodotto e dove si deve mirare unicamente alla “customer satisfaction”, si è aggiunta la modalità ridicola con cui si sono svolti i colloqui orali. Poiché è stata abolita la terza prova scritta, che consentiva almeno di vagliare la preparazione del candidato in quattro o cinque materie, ci si sarebbe aspettati che il colloquio fosse più ampio e comprensivo, un’occasione in cui la commissione avesse avuto la possibilità di accertarsi sulle conoscenze e le competenze del candidato in tutte le materie studiate l’ultimo anno di corso. Invece che cosa è accaduto? E’ vero che lo studente non sa quale sarà l’argomento che dovrà estrarre a sorte, ma esso fa parte comunque dei contenuti studiati durante l’anno; perciò non sarà difficile per lui (o per lei), a meno che non sia proprio uno sciocco, fare collegamenti (più o meno forzati) tra l’argomento iniziale ed alcuni trattati nelle altre materie, in modo da coinvolgere tutti i docenti della commissione. E la commissione, in ottemperanza alle direttive ministeriali, si accontenta di ciò che il candidato espone, intervenendo e correggendolo solo se esce palesemente dal percorso tracciato o se dice gravi inesattezze. Ed in pratica, avendo il Ministero più volte ribadito che si tratta di un colloquio e non di un’interrogazione, e che non deve esserci rigida distinzione tra le discipline, lo studente può esibirsi in un monologo senza che nessuno possa rivolgergli domande di tipo o genere diverso da quelle afferenti all’argomento iniziale estratto a sorte. Così quella che sembrava una maggiore difficoltà per i candidati (l’estrazione casuale di un argomento anziché la tesina personale) si è rivelata una ancor maggiore facilitazione, perché in sostanza essi parlano di ciò che vogliono, operano i collegamenti che vogliono senza mai uscire da un percorso prefissato e senza che nessuno possa loro rivolgere altre domande diverse dal percorso stesso.
E’ accaduto così che, se uno studente estrae come argomento, ad esempio, la figura dell’eroe, per italiano parlerà soltanto di D’Annunzio e del “superuomo”, per filosofia accennerà solo a Nietzsche, senza che i due docenti possano chiedere altro, ad esempio Leopardi o Schopenauer. Mi chiedo quindi, sempre per fare un solo esempio, a cosa serve leggere durante l’anno il Paradiso di Dante quando all’esame di Dante non si fa neanche menzione, a meno che qualcuno – e solo se lo vuole – non vi faccia uno specifico riferimento. In sostanza il candidato conduce tutto il colloquio dicendo quel che vuole, evitando tutto quello che non sa, a causa di questa sciocca fissazione per l’interdisciplinarietà che caratterizza questo esame, e che oltretutto viene intesa in modo errato; fare un colloquio interdisciplinare, infatti, non dovrebbe significare che lo studente collega le materie che vuole e nel modo che vuole senza che la commissione abbia spazio, ma che invece dovrebbero essere i docenti a scegliere i collegamenti opportuni, saggiando la capacità dello studente di muoversi agevolmente tra discipline diverse e argomenti diversi, anche lontani da quello iniziale. Penso anzi che l’abolizione della terza prova scritta avrebbe dovuto di necessità suggerire un orale più “serio”, che prendesse pure inizio dall’argomento estratto ma che desse poi alla commissione la facoltà di saggiare la preparazione dei candidati anche su altri contenuti di tutte le discipline. Invece si è verificato il contrario: l’esame attuale è risultato più facile del precedente, una sorta di commedia ridicola dall’esito ormai scontato.
Tirando le somme di ciò che è avvenuto agli esami (un tempo “di maturità” e ora “di Stato) dobbiamo riconoscere che era molto più serio ed impegnativo quello che ho sostenuto io nel 1973 che quello di oggi. Allora c’erano due scritti ed un orale su due sole materie, di fatto entrambe scelte dal candidato; però quelle materie venivano veramente approfondite, con domande su tutto il programma, senza scelte da parte del candidato. Ad italiano si leggevano testi di Manzoni, Leopardi, i poeti del ‘900, che lo studente doveva dimostrare di aver compreso e di saperli commentare, e soprattutto si leggevano e interpretavano passi di Dante; in latino ed in greco, oltre alle domande di letteratura, si facevano leggere testi classici, con metrica, traduzione e commento sia grammaticale che storico-letterario; in matematica si facevano esercizi di trigonometria e si dovevano conoscere non solo le regole ma anche le dimostrazioni. Oggi di ciò non è rimasto nulla: in teoria si portano tutte le materie (il che farebbe pensare ad un maggiore impegno rispetto a quando se ne portavano solo due), ma di fatto tutto si limita ad una chiacchierata del candidato che va dove vuole e dice quel che vuole, senza contraddittorio o quasi, e senza alcuna reale verifica della sua preparazione.
Di fronte a un degrado di questo tipo viene da chiedersi quale sia il motivo per cui continuare con questa farsa, che costa soldi allo Stato e non serve assolutamente a nulla. Tanto vale lasciare il giudizio agli insegnanti interni e spedire a casa agli studenti il diploma, già pronto e compilato. Io non amo la dietrologia, ma dinanzi a questo disastro sono propenso a rivalutare l’opinione di chi ritiene che a chi detiene il potere fa comodo un popolo di ignoranti, un popolo bue che accetta qualunque imposizione senza neanche rendersi conto delle ingiustizie ed i soprusi che subisce. Già vediamo gli effetti della scuola facile come l’analfabetismo di ritorno, per cui persone diplomate e laureate non sanno comprendere un semplice periodo scritto in italiano, né tanto meno comporne uno senza svarioni ortografici o sintattici. Continuiamo così, accontentiamoci dello smartphone e del “Grande Fratello” , e presto scopriremo che i veri barbari siamo noi, non quelli che ci invasero agli inizi dell’epoca medievale.

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Osservazioni sul “nuovo” esame di Stato

Tanto per essere chiari, la denominazione “esame di Stato”, quello che si svolge al termine della scuola secondaria di secondo grado, ha sostituito da oltre 20 anni quella vecchia di “esame di maturità”; ma i giornalisti a quanto pare non l’hanno ancora capito, perché continuano, dopo tutto questo tempo, a chiamarlo “maturità”. Non c’è da stupirsene, perché costoro sanno poco o nulla di scuola, e quando ne parlano dicono spesso delle emerite sciocchezze. Comunque, a parte questo, l’esame di Stato di quest’anno ha diversi elementi di novità rispetto al precedente. Su di essi avevo già espresso, in precedenti articoli, un giudizio positivo; pur tuttavia, come sempre avviene, il buon esito di una prova di questo genere dipende dalla professionalità dei docenti e quindi anche le novità, buone di per sé, possono essere applicate in modo discutibile, come già sento che in molti luoghi è avvenuto.
Cominciamo dall’aumento del credito scolastico, cioè la parte di punteggio riservata al curriculum dello studente negli ultimi tre annni di corso, da 25 a 40 punti sul totale di 100. Di per sé la cosa è positiva, perché l’andamento didattico degli studenti durante il percorso di studi deve avere un peso sensibile, altrimenti si rischia che il voto finale dipenda quasi del tutto dall’esame, con le ben note varianti dovute alla fortuna, all’emotività dell’alunno, agli umori dei commissari ecc. Però sono già venuto a sapere che in certe scuole hanno utilizzato questo aumento del punteggio per favorire ancor più i loro alunni e garantirne la promozione: ci sono classi, infatti, in cui i punteggi del credito vanno tutti da 30 a 40, il che in pratica garantisce il superamento dell’esame, per il quale bastano 60 punti su 100. Ecco un altro esempio di malcostume, la lievitazione dei voti e dei crediti per far fare bella figura alla scuola; io sono infatti convinto, e lo sono sempre stato, che il blandire ed il favorire così smaccatamente gli studenti venga fatto non tanto per amor loro, quanto di se stessi e della propria scuola, dandosi per sottinteso che se una classe riporta alte valutazioni il merito vada attribuito ai docenti che li hanno avuti durante l’anno e che sono stati così bravi da tirar fuori una classe intera di geni. Le valutazioni delle quinte classi dei Licei sono sempre o quasi gonfiate dai consigli di classe; quest’anno poi, quando il credito conta più di prima, la cosa è ancor più efficace e atta a garantire – almeno nella facciata esteriore – il buon nome dell’istituto.
Altra novità è quella che riguarda il colloquio orale: abolita la cosiddetta “tesina”, ora gli studenti dovranno estrarre a sorte una busta dove sarà stato collocato un argomento da sviluppare con collegamenti interdisciplinari. Di per sé questo sembra un passo in direzione di una maggiore serietà dell’esame, ma anche qui ci sta l’inghippo, anzi ce ne sono più d’uno. A parte il fatto che i membri interni in molti casi avranno certamente modo di comunicare in anticipo agli studenti questi argomenti (in numero pari a quelli degli alunni +2), i quali se li possono studiare prima dell’esame, ma c’è anche, in aggiunta a questo, la prescrizione ministeriale ai docenti di non porre domande extra all’argomento centrale, perché si tratta di un “colloquio” e non di un’interrogazione. Qui però bisognerebbe intendersi: se i docenti non possono divagare al di là delle linee contenute nella famigerata busta estratta, allora uno studente con un minimo di conoscenze e di spigliatezza potrà compiere un unico soliloquio collegando a suo piacimento l’argomento base con altre discipline, così da condurre da solo tutto il colloquio. Se poi si aggiunge che in 50 minuti circa il candidato dovrà parlare anche della sua esperienza di alternanza scuola-lavoro ed anche di educazione civica (così pare), e che a ciò si aggiunge anche la revisione delle due prove scritte, quanto tempo rimarrà alla commissione per verificare la preparazione oggettiva dello studente? Praticamente poco o nulla. Si rischia così che l’esame, nonostante l’apparente maggiore serietà rispetto al precedente, si risolva in una farsa ridicola dove la promozione è scontata in partenza e dove le commissioni non avranno alcuna possibilità di esprimere un giudizio preciso e oggettivo.
Io personalmente, visto che sono in pensione e non ho più l’obbligo di partecipare agli esami, quest’anno me ne sono tenuto fuori proprio perché temevo incomprensioni e contenziosi legati alle novità non sempre chiare che il Ministero ha deciso di varare. A mio giudizio, tuttavia, si sarebbe potuto anche con queste novità migliorare la serietà e l’equità delle valutazioni. Al colloquio, ad esempio, va bene la scelta casuale degli argomenti, ma questa avrebbe dovuto costituire solo l’inizio del colloquio, diciamo i primi dieci minuti; poi i vari commissari avrebbero dovuto avere la facoltà di porre domande specifiche su tutte le materie di loro competenza, e sul programma dell’intero anno scolastico. Proprio perché è stata abolita la terza prova, che era multidisciplinare, sarebbe stato giusto sondare la preparazione dello studente con maggiore severità; al liceo classico, per esempio, sarebbe stato opportuno porre domande di storia letteraria, far tradurre un breve testo classico di latino e di greco, fare domande su tutte le altre materie, comprese quelle scientifiche. Con queste prescrizioni ministeriali, invece, si rischia che lo studente faccia l’esame tutto da solo e che i docenti stiano lì ad ascoltare soltanto senza poter neanche fare domande. A me pare assurdo ed in netto contrasto con l’intenzione con cui, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, erano state presentate le novità di quest’anno, che dovevano andare nella direzione di un accertamento più rigoroso delle conoscenze e delle competenze degli studenti.
Concludo dicendo che in Italia, a quanto io ricavo da molti segnali che giungono anno dopo anno, pare che non ci sia proprio la volontà di rifondare una scuola seria, una scuola che formi veramente e che sia selettiva, perché la selezione è necessaria per il giusto collocamento di ogni cittadino in società. Una scuola che promuove tutti, magari con voti alti e altissimi come ormai accade da noi, è una scuola che non vale nulla, perché non istruisce ma produce solo diplomi di carta straccia e analfabeti di ritorno. Gli studenti migliori, poi, restano delusi e mortificati da questo andazzo, perché un’ottima valutazione è veramente soddisfacente quando è unica o rara; se invece tutti o quasi hanno voti alti, questi voti finiscono per non valere più nulla. Sta già accadendo, e ancor più accadrà in futuro.

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