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La scuola e la burocrazia

E’ naturale che chi è andato in pensione, come il sottoscritto, avverta una certa nostalgia del proprio lavoro e dell’ambiente in cui è vissuto per tanti anni: tutti provano questo sentimento, almeno nei primi tempi, anche se molti non lo vogliono ammettere. A me succede certamente e non nascondo affatto di rimpiangere il mio insegnamento che si è protratto per 40 anni e le relazioni umane che a scuola si erano create con gli studenti anzitutto, ma anche con i colleghi, il dirigente ed il personale scolastico in genere. E’ come una grande famiglia di cui ci accorgiamo, così di punto in bianco, di non fare più parte, ed è normale che ciò provochi una certa malinconia. Quello però di cui non sento affatto nostalgia è il pesante apparato burocratico che da tanti anni grava sulla nostra scuola e che si materializza in corsi di aggiornamento inutili o quasi, lunghe riunioni su progetti del tutto avulsi dalla didattica, commissioni istituite per elaborare documenti pletorici indicate con orrende sigle come POF, PTOF, RAV ecc., certo scaturite dalla mente accidiosa di qualche dirigente ministeriale che non ha nulla di meglio da fare per giustificare lo stipendio che riceve. A ciò si aggiungono documenti da firmare, moduli da riempire, domande da compilare e compiti specifici da eseguire per particolari categorie di alunni anch’esse indicate da brutte sigle come BES, DSA, CLIL ecc., che sembrano designare qualche associazione segreta o militare. Tutto ciò contribuisce a complicare la vita dei docenti e sopratutto a ridurre le loro energie da destinare a quello che dovrebbe essere il loro vero compito per il quale ricevono lo stipendio, cioè l’attività didattica.
Questa massiccia presenza della burocrazia e dei carichi di lavoro che comporta si è determinata nel corso degli ultimi decenni, diciamo dal 1990, quando fu varata la cosiddetta “autonomia scolastica”, in poi. Se facciamo un confronto tra quelli che erano gli impegni dei docenti negli anni ’60 e ’70, cioè quando io ero studente liceale, e quelli di oggi, troviamo una notevole sproporzione: allora i professori facevano in media due o tre collegi dei docenti all’anno, due ricevimenti delle famiglie, due riunioni di scrutinio e nient’altro; l’anno scolastico iniziava il 1° ottobre e quindi chi non partecipava agli esami di maturità era di fatto in vacanza da metà giugno a fine settembre, a parte la parentesi degli esami di riparazione. I docenti di oggi partecipano in un mese al numero di riunioni che allora si svolgevano in un anno, hanno tanti compiti e responsabilità in più e sono gravati da carichi burocratici pressanti che li costringono a restare a scuola molto più spesso di prima ed a portarsi anche il lavoro a casa. E va aggiunto, perché non è cosa di secondo piano, che a questo cospicuo aumento degli impegni non ha fatto seguito un trattamento economico adeguato: come gli insegnanti erano pagati poco negli anni ’60 e ’70, così anche oggi il loro stipendio è inadeguato, nonostante le ridicole promesse di tutti i governi di turno. Gli effetti di questa situazione, infatti, si cominciano a vedere: in alcune regioni ed in certe materie i docenti cominciano a mancare, perché giustamente si cercano altre vie più redditizie: un laureato in ingegneria, ad esempio, potrebbe insegnare matematica, fisica e informatica, ma preferisce di gran lunga impiegarsi in una qualsiasi azienda anziché venire nella scuola a rodersi l’anima ed a ricevere un misero stipendio. Sì, perché oltre a lavorare molto e guadagnare poco, c’è da mettere in conto anche lo scarso rispetto e la scarsissima considerazione sociale di cui oggi gode la categoria degli insegnanti.
Tra le molte novità inserite nei vari decenni trascorsi per aggravare la condizione dei docenti, ne potrei citare molte, ma quelle che mi vengono in mente riguardano in sostanza gli organi collegiali, le cui riunioni sono aumentate esponenzialmente nel tempo. Uno di questi organi è rappresentato dai cosiddetti dipartimenti, cioè gruppi di docenti che insegnano le stesse materie o materie affini. Data per scontata l’utilità di una consultazione reciproca che riguarda lo svolgimento dei programmi, la proposizione di progetti comuni o il metodo di correzione degli elaborati, resta però il fatto che ciascun docente ha la propria formazione e la propria metodologia; ragion per cui avviene spesso che, dopo lunghe riunioni e dibattiti, ciascuno poi nella sua classe e con i suoi alunni continui a fare come meglio ritiene, con buona pace dei colleghi. La correzione degli elaborati, tanto per dirne una, non sarà mai univoca, perché un tema di italiano può essere buono o discreto per un docente, sufficiente per un altro e insufficiente per un altro ancora; per questo io non ho mai creduto alle prove parallele ed alle griglie di valutazione, altro appesantimento burocratico di poco o nessun valore, anche perché quasi tutti i professori prima mettono il voto e poi sistemano la griglia. Questo avviene normalmente anche agli esami di Stato, come ho potuto vedere nella mia lunga esperienza.
Un’altra osservazione voglio fare intorno agli organi collegiali istituiti con i famigerati Decreti Delegati del 1974, come il Consiglio d’Istituto, i Consigli di classe allargati ai genitori e agli studenti e l’assemblea degli studenti medesimi. Questi organi furono istituiti appunto nel 1974, in pieno clima sessantottino, e forse a quei tempi avevano una loro validità: l’assemblea studentesca, ad esempio, era un’occasione in cui si dibattevano veramente questioni di rilievo e molti studenti (non dico tutti) vi partecipavano con passione sincera anche se a volte eccessiva, perché il clima di acceso scontro ideologico di allora sfociava a volte anche in atti di violenza. Quest’ultimo aspetto non è certo da rimpiangere, ma se guardiamo cosa sono diventate le assemblee di oggi, quando le ideologie sembrano ormai tramontate e siamo caduti in una società che considera solo i valori materiali, viene da chiedersi perché questi residuati del passato esistano ancora. Non si vede che senso abbiano le assemblee studentesche nel 2018, quando sono ormai diventate semplice occasione per perdere una giornata di lezione o introdurre argomenti futili e pretestuosi per poter tirare avanti per qualche ora. La stessa cosa potremo dire per i Consigli di classe, dove la partecipazione di studenti e genitori è divenuta in molti casi una pura formalità. In moltissime occasioni in cui ho partecipato a queste riunioni sono stati solo i docenti a porre argomenti di interesse, mentre gli studenti hanno ridotto il loro contributo all’unico argomento che premeva loro, cioè la gita scolastica, mentre i genitori se ne restavano in silenzio. L’importanza dei Consigli di classe non è più avvertita adeguatamente, come dimostra il fatto che spesso i genitori non partecipano più neanche alle elezioni e la classe resta senza rappresentanti. Questo avviene perché ai nostri tempi l’individualismo prevale largamente sul senso della collettività, e quindi ogni genitore si interessa unicamente ai propri figli.
Sarebbe il momento che sulla scuola fossero effettuati diversi interventi legislativi, diversi però da quelli degli ultimi anni che non hanno fatto altro che peggiorare le cose, specie per gli insegnanti. Una volta riconosciuto, perché è sotto gli occhi di tutti, il notevole aumento di impegni e responsabilità cui la burocratizzaizone ha costretto i docenti, occorrerebbe fare uno sforzo per adeguare i loro stipendi a quelli dei colleghi degli altri paesi d’Europa, che non lavorano certo di più degli italiani. Ferma restando questa necessità, sarebbe opportuno restituire ai docenti il loro vero ruolo, cioè quello di far lezione e trasmettere la cultura, perché questa dovrebbe essere l’unica e sola funzione del sistema scolastico; e per agevolare ciò occorrerebbe operare una drastica riduzione dei progetti e delle attività extrascolastiche come l’assurda alternanza scuola-lavoro, che assorbono tanto tempo producendo poco o nulla di utile. Ed infine, cosa altrettanto necessaria, si dovrebbe una buona volta liberare la scuola dai vecchiumi sessantottini come le assemblee studentesche e gli organi collegiali con studenti e genitori, che oggi hanno davvero poco senso. Se tutto cambia in società bisogna anche avere il coraggio di tagliare i rami secchi, per dare respiro ad una pianta che altrimenti rischia di perdere tutto il suo vigore.

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La scuola che vorrei

E’ da poco iniziato un nuovo anno scolastico che per me potrebbe anche essere l’ultimo di servizio, ma è questa una circostanza che non sminuisce certo il mio interesse per la scuola e per l’importanza dell’istruzione, ciò che è stato da sempre l’obiettivo principale della mia vita. L’inizio della mia attività di docente risale a quasi quarant’anni fa, ed in questo lungo periodo la scuola è cambiata, molto cambiata rispetto a prima; e se alcuni di questi mutamenti possono considerarsi positivi, per la maggior parte di essi, purtroppo, non si può dire altrettanto. Va anzi riconosciuto che i vari interventi legislativi che si sono succeduti dagli anni ’70 dello scorso secolo in poi non hanno fatto altro che aumentare le pastoie burocratiche, i progetti inutili, gli impegni sempre crescenti dei docenti e non hanno avuto, se non limitatamente, effetti concreti sulla sostanza dell’insegnamento.
Nello spazio di un blog è fortemente sconsigliato introdurre troppi argomenti, perché il post assumerebbe dimensioni eccessive e non lo leggerebbe nessuno, vista la frenetica rapidità con cui si “consuma” oggi la pagina scritta, quando la si consuma. Mi limiterò quindi a parlare degli aspetti più macroscopici e più assurdi della scuola attuale, quelli che vorrei cambiare, se potessi; ma siccome non ho questo potere, non mi resta che lamentarmi di quel che non va bene, convinto come sono che anche la semplice denuncia, che pur non cambia nulla, sia comunque utile ad esprimere un disagio che non è soltanto mio, ma di molti altri colleghi.
Sul piano legislativo la legge 107/2015 ha introdotto delle novità che, se sul momento sembravano accettabili perché non le si erano valutate abbastanza nelle loro conseguenze, sono poi risultate fallimentari e persino dannose. Quella che mi viene in mente per prima, perché mi tocca direttamente in quanto insegno nel triennio conclusivo di un Liceo, è la famigerata alternanza scuola-lavoro, una trovata che nella realtà dei fatti si è rivelata un’autentica buffonata: sappiamo di studenti mandati a piantare alberi in giardino, a sorvegliare animali o spediti negli autogrill delle autostrade a preparare caffè e panini. Oltre che inutile e dannosa perché fa perdere ai ragazzi delle giornate di studio, questa pratica è anche incostituzionale a mio avviso, perché fa lavorare dei minori senza stipendio e si qualifica quindi come sfruttamento del lavoro minorile. Va anche aggiunto, come ho detto fin dall’inizio, che l’esperienza di lavoro durante gli studi secondari può essere giustificata senz’altro per gli istituti professionali ed in parte tecnici, ma non ha alcun motivo di sussistere nei Licei, dove si fanno studi culturali e teorici che nulla hanno a che vedere con le fabbriche, l’agricoltura e gli autogrill delle autostrade. Questa alternanza produce inoltre, com’è ovvio, danni gravi alla didattica, perché non è possibile farla svolgere tutta al di fuori dell’orario di lezione, ed in ogni caso rappresenta un impegno in più che sottrae energie a degli adolescenti che già hanno molte distrazioni e che riservano allo studio solo una parte del loro tempo. La prima cosa che vorrei nella scuola come la intendo io sarebbe quindi l’abolizione immediata, almeno per i licei, di questa pratica inutile e antididattica.
Un’altra innovazione della legge 107 che si è rivelata fallimentare è stata l’introduzione di un “bonus” di merito per i docenti, che avrebbe dovuto premiare gli insegnanti migliori. Io salutai con entusiasmo questa novità, ma mi sono dovuto ben presto ricredere per diversi motivi, di cui dirò qui solo il principale, cioè che lo spirito della legge, almeno come l’avevo intesa io forse sbagliando, è stato totalmente vanificato: nelle varie scuole infatti, vista la difficoltà ed i rischi che presentava una “classifica” di merito dei docenti, si è preferito premiare non coloro che sono veramente gli insegnanti migliori, cioè i più preparati nelle loro materie e con la didattica più efficace, ma coloro che organizzano progetti, viaggi d’istruzione, incontri e conferenze o altre attività, persone cioè che possono anche svolgere compiti utili per la scuola ma che non sempre possiedono quelli che dovrebbero essere i meriti più rilevanti e riconosciuti nella nostra professione. Eppure, se vi fosse stata la volontà, non sarebbe stato difficile individuare, mediante le testimonianze di genitori, studenti ed ex studenti soprattutto, quelli che sono i professori più bravi e formativi, quelli che lasciano un’impronta indelebile nell’animo dei ragazzi, docenti che tutti (o quasi) abbiamo avuto e dei quali ci ricordiamo anche a decenni di distanza. E invece le cose sono andate diversamente. Perciò, visti i risultati, preferirei che questo premio “fantasma” fosse abolito anziché distribuito con le modalità esposte sopra.
Già prima della legge 107, da molti anni direi, la burocratizzazione del nostro lavoro e la presenza di attività diverse dalla normale attività didattica hanno raggiunto livelli molto elevati: se consideriamo infatti il tempo impiegato in riunioni dalla dubbia utilità e quello sottratto alla didattica da viaggi d’istruzione, scambi culturali, spettacoli vari, lezioni, conferenze e incontri con persone esterne alla scuola, gare sportive, “olimpiadi” di questa o di quella disciplina e altre simili iniziative, vediamo che non possiamo più disporre del tempo necessario per un’azione didattica veramente efficace. A ciò si aggiungono le varie assemblee studentesche, residuati degli anni ’70 ancora in vigore ma per lo più occasione di vagabondaggio a uso dei nullafacenti, la cui utilità è ormai fortemente dubbia. Nella scuola che io vorrei, e nella quale ho creduto fin dall’inizio della mia carriera, queste iniziative si ridurrebbero al minimo, a quelle veramente utili, mentre dovrebbero essere ormai aboliti, perché non più consoni ai tempi attuali, i famosi decreti delegati del 1974 (vecchi di 43 anni), quelli appunto che istituirono le assemblee studentesche ed i consigli di classe con la partecipazione di studenti e genitori. Questi organi collegiali (cioè i consigli di classe) possono avere ancora una certa validità, ma hanno avuto ed hanno ancora la responsabilità di avere introdotto l’invadenza dei genitori nella gestione della scuola. Ecco, questa è un’altra caratteristica della scuola attuale che vedrei volentieri ridotta o eliminata: la presenza cioè di genitori fastidiosi e petulanti, che fanno i sindacalisti dei figli e pretendono di condizionare i metodi di insegnamento e di valutazione dei docenti. Ai tempi miei tutto questo non esisteva, nessuno ardiva contestare i professori, e se un alunno prendeva un brutto voto doveva rimboccarsi le maniche e cercare di rimediare, senza scuse o giustificazioni; oggi, se avviene la stessa cosa, sono i docenti a dover giustificare quel voto che hanno dato, dinanzi a padri e madri incapaci di collaborare con loro per la formazione dei loro figli, pronti a difenderli e scusarli per ogni mancanza e capaci persino di chiedere lo spostamento in altre classi dei docenti meno graditi o giudicati più severi. Raramente, infatti, i professori vengono contestati perché inaffidabili o impreparati (ve ne sono pochi, ma qualcuno c’è), ma quasi sempre perché, a detta dei genitori, pretendono troppo dai loro poveri figli, costretti per qualche ora a distrarsi dai videogiochi e dai social per aprire un libro cartaceo o per svolgere qualche esercizio.
In tutti questi anni il nostro mestiere di docenti e di educatori è profondamente cambiato, in modo tale da smorzare molto in noi l’entusiasmo iniziale per l’insegnamento, anche perché raramente i veri meriti culturali e didattici vengono riconosciuti; anzi, proprio perché i professori che lavorano seriamente chiedono anche agli studenti di fare la loro parte, è molto facile che siano proprio loro ad essere maggiormente contestati o comunque non gratificati da nessuno. Da tempo ho questa sensazione spiacevole ogni giorno che entro a scuola, ma poi, quando arrivo in classe e vedo i miei alunni lì ancora pronti ad ascoltarmi, mi dimentico in quelle ore di tutto ciò che mi rattrista e mi dedico con la solita passione al mio lavoro. Quando però esco di classe quel senso di insoddisfazione ritorna, e lo stesso avviene anche a molti miei colleghi che si trovano in situazioni analoghe alla mia. E forse chi sta in alto, chi promette ad ogni cambio di governo di riformare la scuola e poi crea sotanto confusione e malumore, dovrebbe tenere conto di questo stato d’animo dei docenti, sempre più diffuso nel nostro Paese; ma se ciò non è avvenuto finora, dubito molto che possa avvenire in futuro e temo purtroppo di non vedere mai la rifondazione di una scuola seria, più professionale e meno burocratica, “ancorché avessi a vivere molto”, come diceva il buon Guicciardini.

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Sul comportamento di alcuni docenti

Il professore, si sa, è una figura che dovrebbe ispirare fiducia agli studenti, essere per loro un modello di virtù, come diceva l’antico retore latino Quintiliano (I° secolo d.C.); o almeno, se non si pretende tanto, sarebbe auspicabile che non mostrasse cattive abitudini e che si comportasse in modo consono al suo ruolo di educatore. Ma da alcuni decenni, dopo le novità del “mitico” ’68, la figura del docente è andata progressivamente cambiando e la peculiarità della sua funzione si è costantemente annacquata fino a sparire del tutto, almeno in certi casi. Un tempo il professore era una persona distinta, vestito in modo adeguato alla sua funzione, che manteneva ben visibile la distinzione dei ruoli senza dare troppa confidenza ai propri alunni; e se aveva abitudini non proprio edificanti, cercava almeno di nasconderle durante le ore che passava a scuola, proprio per non dare ai giovani un esempio da non imitare.
Oggi purtroppo non sono molti i professori che mantengono la dovuta distinzione dei ruoli e un decoro comportamentale consono al compito di educatori che dovrebbero avere. Molto spesso assistiamo ad una familiarità eccessiva tra docenti e studenti, che si spinge ad eccessi come battute spiritose sconvenienti, scherzi di cattivo gusto, comunicazione di notizie sulla vita privata degli uni e degli altri, e così via. Dal mio punto di vista di docente rimasto a prima del ’68, io giudico sconveniente che un professore si interessi di ciò che i suoi studenti fanno al di fuori della scuola, a meno che non si tratti di problemi che incidono sul rendimento scolastico; ma in tal caso deve essere lo studente o la sua famiglia a comunicarli, non l’insegnante a fare il confidente privato o a intromettersi nella vita altrui. Nei rapporti personali il professore non deve essere arcigno o troppo severo, ma nemmeno fare l’amico dei suoi studenti, perché il suo ruolo non è quello; una certa distanza deve sempre rimanere tra l’uno e gli altri, anche per evitare che qualche alunno maleducato o poco perspicace (e ce ne sono sempre), avendo a che fare con un professore “amicone”, superi il limite e si senta autorizzato a prendersi libertà ed a mancargli di rispetto, cosa che puntualmente avviene in queste circostanze. E poi fa sorridere il fatto che alcuni colleghi si lamentino dell’indisciplina degli studenti nei loro confronti quando sono loro stessi che, concedendo troppa confidenza, li hanno di fatto indotti a quel comportamento. E va anche detto che i ragazzi, se sul momento possono accogliere con piacere il professore “amicone”, in un secondo tempo, quando saranno divenuti più maturi e responsabili, non avranno di lui un buon ricordo, ma l’avranno invece di quei docenti che sono stati veri formatori, che hanno veramente trasmesso qualcosa dal punto di vista culturale ed umano e che sono stati per i giovani un modello di vita, anche se sul momento sembravano eccessivamente “seriosi” e distaccati.
Confesso di avere una forma mentis non in linea con l’uso comune attuale, quando dilagano le amicizie su facebook tra docenti e studenti, le comunicazioni via cellulare di notizie che dovrebbero restare segrete tipo le decisioni prese agli scrutini o agli esami, gli incontri fuori della scuola che qualche volta, purtroppo, danno adito anche a voci non proprio onorevoli per gli uni e per gli altri. Ma ci sono anche altri aspetti del comportamento di certi professori che, sia pure non illeciti dal punto di vista strettamente legale, sono comunque sconvenienti e persino ridicoli. Se vogliamo fare qualche esempio, il primo che mi viene in mente è l’abbigliamento, il modo di presentarsi a scuola. Ormai non c’è più nessuno (neanche io) tra i docenti uomini che metta giacca e cravatta, e questo è comunemente accettato; ma vi sono colleghi che si pongono in maniera trasandata, con magliette scritte, jeans strappati alla maniera dei ragazzi e persino qualcuno, in estate, che si presenta con sandali e bermuda alle riunioni. E la stessa eccentricità si riscontra anche in alcune colleghe che, avendo magari passato la sessantina, si vestono ancora come ragazzine, con jeans o minigonne che le rendono ridicole perché assomigliano alla vecchia signora del trattato Sull’umorismo di Pirandello, imbellettate per cercare disperatamente di nascondere l’età che avanza. Anche in questo aspetto del loro comportamento molti docenti non sanno seguire la giusta via di mezzo di aristotelica memoria, che in questo caso consisterebbe nell’evitare del pari l’eccessiva eleganza (ormai non più apprezzata) ma anche l’altrettanto eccessiva sciatteria.
Oltre a questi che ho descritto, ci sono purtroppo comportamenti ancora peggiori che certi colleghi mettono in atto: battute di spirito sconvenienti e persino oscene pronunciate in presenza degli studenti, turpiloquio ormai diffuso anche nella nostra categoria, esternazione senza ritegno di vizi dannosi come il fumo di sigaretta e l’uso del cellulare eccessivo e maleducato. Si tratta di episodi gravi, che ogni dirigente scolastico dovrebbe censurare e ricorrere, se necessario, e provvedimenti disciplinari, perché farsi vedere dagli alunni a fumare o a usare il cellulare in classe costituisce una violazione del codice comportamentale che esiste in tutti gli edifici pubblici. Ciò è ancor più grave se consideriamo il ruolo di educatori che, nostro malgrado, tutti noi abbiamo; e come possiamo pretendere che gli studenti si comportino in modo corretto, che non fumino e non usino il cellulare in classe, quando sono alcuni di noi che fanno queste cose apertamente e spudoratamente? Io stesso ho visto colleghi giocare con il cellulare, ricevere e mandare messaggini durante le riunioni o gli esami, quando tra gli astanti erano presenti anche molti studenti, ai quali si ha il coraggio di chiedere di non fare quello che noi stessi facciamo. A tal proposito io credo di essere ormai un caso isolato, perché non solo non ho mai fumato in vita mia, ma sono uno dei rarissimi italiani a non usare il cellulare, dato che non voglio rendermi schiavo di un oggetto come purtroppo quasi tutti sono oggi diventati; e quanto al linguaggio, una brutta parola può scappare a tutti, ma occorre stare ben attenti a non farsi sentire dagli studenti, perché sarebbe un esempio pessimo, del quale io mi vergognerei a vita.
In base a ciò che ho detto in questo post, che molti considereranno retrogrado e bacchettone, mi rallegro vivamente di aver abbandonato da tempo l’idea di fare il Dirigente scolastico, perché se lo fossi diventato avrei certamente condotto una vita grama; non sopportando infatti certi comportamenti degli studenti – e dei docenti in ancora maggior misura – avrei preso una serie di provvedimenti restrittivi e disciplinari che mi avrebbero provocato certamente vertenze e denunce di ogni genere, con sindacati e giudici propensi ormai da decenni a dar ragione sempre ai sottoposti nei confronti dei loro superiori o datori di lavoro. Sotto questo ed altri profili ritengo che la posizione del Dirigente scolastico sia molto difficile e che occorra un carattere “diplomatico” per svolgerla al meglio. Si tratta di una qualità che io proprio non possiedo, incline come sono a dire in faccia agli altri ciò che non mi piace ed a prendere decisioni drastiche; è molto meglio quindi relazionarsi con gli studenti in classe nel modo che ritengo più opportuno e consono alla mia funzione, pur essendo consapevole dell’arretratezza ideologica che i “modernisti” troveranno in ciò che dico.

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I colloqui scuola-famiglia: cos’è cambiato?

Mi ricordo che molto tempo fa, i primi miei anni di insegnamento, il rapporto con i genitori degli alunni era diverso da oggi, soprattutto perché erano diversi loro: molto più obiettivi di adesso, non facevano se non raramente gli avvocati difensori dei figli, ma cercavano di collaborare con il docente affinché l’azione educativa andasse a buon fine, almeno nella maggior parte dei casi. Ma ciò che me li fa preferire rispetto a quelli di adesso è il fatto che a quei tempi (parlo di circa 30 anni fa, più o meno) i genitori erano in grado di valutare la professionalità e la validità didattica degli insegnanti dei propri figli, e ciò si manifestava tanto in una critica anche aspra verso i docenti mediocri quanto in una giusta gratificazione di coloro che sapevano ben svolgere la loro professione, con entusiasmo e competenza. E ciò avveniva non perché le famiglie di un tempo fossero più acculturate di quelle attuali, ma in virtù di una diversa concezione della scuola, che non doveva essere un parcheggio quinquennale per ragazzi svogliati e demotivati, ma una palestra di vita, in grado di fornire una formazione ed un metodo di studio e di autonomo ragionamento che servisse poi per la vita. Chi di noi continua a ricevere riconoscimenti, anche a distanza di tanti anni, da parte di ex alunni adesso diventati a loro volta genitori, comprende ciò che voglio dire.
Nel periodo attuale, come spesso ho constatato in questo blog, la scuola è profondamente cambiata, ha assunto i caratteri di un’azienda da collocarsi sul mercato come una qualunque ditta produttrice di automobili o di merendine; quindi è l’esteriorità, la facciata che è passata in primo piano, la forma al posto della sostanza. Oggi le scuole considerate più moderne e più in “vogue” sono quelle dove si svolgono molte attività parascolastiche come gite, settimane bianche, progetti vari ecc., e dove alla fine dell’anno scolastico si distribuiscono voti alti e si fanno registrare promozioni di massa, necessarie perché altrimenti si offusca l’immagine della scuola “efficiente” e moderna, con il rischio che le iscrizioni diminuiscano se si fanno le cose con la necessaria equità. Così l’attività didattica vera e propria, che dovrebbe essere il cardine ed il vanto di ogni istituzione scolastica, passa in secondo piano, ed anzi viene vista quasi come un ostacolo allo svolgimento di tante elette e avveniristiche attività. Ciò corrisponde, del resto, all’imbarbarimento sempre più visibile nella società di oggi, dove trionfano l’ignoranza, l’approssimazione, la volgarità: basta accendere la tv per rendersi conto che la cultura, attualmente, è considerata quasi un orpello inutile in un mondo dove vigono soltanto le leggi dell’economia e del mercato, un passatempo per i disadattati che non si sanno adeguare ai tempi che vivono.
Così, per tornare all’argomento iniziale, è profondamente mutata anche la mentalità dei genitori che vengono a conferire con i docenti dei loro figli. Anche in questo ambito l’esteriorità svolge ormai il ruolo principale: a poche persone interessa la professionalità, la competenza e la preparazione del docente, ciò che è fondamentale è che il figlio o la figlia abbiano buoni voti e che quindi sia possibile per i loro familiari mantenere alto all’esterno il “decoro” della famiglia; altrettanto importante è che gli studenti non vengano gravati da un soverchio carico di studi perché devono avere il tempo necessario per fare sport, uscire con gli amici e soprattutto per sprecare tante ore sui social network o sui videogiochi, altrimenti rischiano di essere esclusi dal gruppo e non essere più quindi “al passo coi tempi”. I docenti che subiscono critiche e contestazioni, quindi, non sono quelli che lavorano poco e male (non numerosi in realtà, ma qualcuno c’è sempre, in ogni scuola) ma quelli che non sono disposti a regalare voti alti a chi non li merita e coloro che richiedono agli alunni un impegno costante, necessario per abituarsi ad entrare veramente nella vita da adulti, quando il mondo dorato degli ozi giovanili finirà ed i ragazzi si troveranno di fronte una realtà diversa da quella attuale.
Io sono reduce da un intero pomeriggio (cinque ore) trascorso nei colloqui con i genitori dei miei alunni, quindi colgo l’occasione per notare ciò che vedo e puntualizzare le differenze con i primi lontani anni della mia esperienza professionale. Ciò che per loro conta in modo quasi esclusivo, come sopra detto, sono i voti ottenuti dai figli: se questi sono buoni, se ne compiacciono e si mostrano orgogliosi dei risultati raggiunti, ma ben di rado ne attribuiscono il merito anche al professore; se sono mediocri, si preoccupano generalmente non di trovare il modo di migliorarli, ma chiedono con trepidazione se il figlio “ce la farà” al termine dell’anno scolastico, una domanda cui oltretutto nessun professore può rispondere, perché la decisione circa l’esito dello scrutinio finale è collegiale, di tutto il Consiglio di classe, e non dei singoli docenti. Se poi l’andamento didattico è proprio negativo, allora viene addotta una serie di giustificazioni che escludono quasi sempre le cause vere dell’insuccesso scolastico, ossia la mancanza di impegno oppure di capacità o attitudini per quel particolare indirizzo di studi: la colpa è dell’emotività, del timore che il ragazzo ha dell’insegnante (così la colpa viene scaricata su quest’ultimo), di situazioni familiari, problemi di salute e chi e ha più ne metta. E’ rarissimo il caso che un genitore riconosca le responsabilità del figlio nei suoi insuccessi; la colpa è sempre della scuola e dei professori, che avrebbero preso in odio un ragazzo (chissà perché poi?), lo avrebbero disamorato e demotivato allo studio provocandone poi la bocciatura, vista ancora come una gravissima disgrazia, una vera e propria catastrofe. Una visione delle cose, questa, che si spiega con le dinamiche della società attuale, basata sull’esteriorità e sul falso ideale del successo a tutti i costi, per cui l’idea dell’insuccesso scolastico appare come qualcosa di insostenibile, di vergognoso, di disonorevole. Questo pregiudizio impedisce quindi la giusta disamina della situazione, che sarebbe invece il pensiero opposto: se un alunno riporta continui insuccessi significa che non è adatto per quel percorso di studi, quindi farebbe bene a cambiare e sceglierne un altro più consono alle sue attitudini; oppure, in caso di non ammissione alla classe successiva, ciò dovrebbe costituire un punto di partenza per ricostruire in forma più proficua il proprio curriculum di studi. Ma quasi mai questi principi vengono compresi ed attuati, e così il dialogo tra docenti e genitori si trasforma spesso in una lamentosa nenia dove si fa di tutto per giustificare lo svogliato e l’incapace e dove si perde completamente la giusta immagine della realtà scolastica e delle vere funzioni dell’istituzione educativa.

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Ansie e incertezze di inizio anno scolastico

Il nuovo anno scolastico è già iniziato per quanto riguarda le riunioni preparatorie dei docenti, e tra pochi giorni cominceranno anche le lezioni. Sul blog torno a parlare dell’argomento che più mi interessa, cioè la scuola, alla quale ho dedicato praticamente tutta la vita; sono però riuscito a mantenere la promessa fatta a giugno di non parlarne per tutte le vacanze estive, in realtà molto più brevi di quanto si potrebbe credere.
Il nuovo anno comincia con tante incertezze e interrogativi dovuti all’attuazione della legge cosiddetta “La buona scuola”, che d’ora in poi comincerà a far sentire i suoi effetti, purtroppo più negativi che positivi. Le novità introdotte non fanno presagire nulla di buono. Le mie preoccupazioni più forti sono relative alla cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, che quest’anno diventa obbligatoria nelle classi terze e quarte dei Licei e degli altri istituti superiori, e al rinnovato obbligo, sostenuto dal Ministero, dell’aggiornamento didattico. Il primo problema è certamente invasivo, checché se ne dica, perché 200 ore di attività lavorativa extrascolastica in un triennio sono tantissime, e non si può pensare che vengano svolte tutte nei periodi di vacanza; ciò comporterà inevitabilmente grossi disagi per il regolare svolgimento delle lezioni e per la completezza dei programmi. E’ inaccettabile, a mio giudizio, il consiglio che alcuni danno in questi casi, quello cioè di “tagliare” alcuni argomenti a vantaggio di altri: come è possibile, ad esempio in una materia come la letteratura italiana, parlare di Manzoni e non di Leopardi, o viceversa? Oppure, in storia, parlare della seconda guerra mondiale se non si è prima affrontato il problema delle cause, dei regimi totalitari precedenti, della prima guerra mondiale e via dicendo? Si possono eliminare gli argomenti secondari ed i corollari, ma non quelli fondamentali che vanno trattati in ogni modo, pena la perdita del senso complessivo e del valore formativo di ogni disciplina. Io non so come si organizzeranno i colleghi, ma prevedo grosse difficoltà; spero soltanto che il tempo da dedicare alle lezioni ed alle verifiche (che vanno fatte anch’esse, e non in maniera superficiale o sbrigativa) resti comunque tale da consentirci di espletare i programmi in maniera decente. Dico ciò in nome dell’obiettivo primario della formazione degli studenti, ma anche in vista dell’esame di Stato: c’è infatti l’eventualità che un commissario esterno si lamenti dell’esiguità del lavoro svolto e che di ciò dia la colpa al collega interno, senza tener conto di tutto il tempo-scuola che se ne va nelle molteplici attività extra- o parascolastiche.
Il secondo motivo di ansia riguarda il cosiddetto “aggiornamento in servizio”, che tutti i governi succedutisi negli ultimi vent’anni hanno sollecitato e talvolta imposto ai docenti. Anche qui io sono fortemente scettico, e non perché pensi che aggiornarsi non sia utile e anzi indispensabile, ma perché molto spesso questi corsi sono inconcludenti e tenuti da persone che poco si intendono dei veri problemi che il docente trova nella pratica quotidiana della sua professione, tanto che i loro interventi si risolvono in fiumi di parole poco spendibili nella fattispecie quotidiana. Molti di questi corsi riguardano le nuove tecnologie (sulle quali siamo già informati abbastanza per quel che ci serve, anche perché esse sono soltanto strumenti operativi ma non sostituiscono le facoltà umane), oppure si rifanno ad un pedagogismo ormai vecchio e banale che si esprime in un linguaggio astruso e del tutto avulso dalla realtà effettiva. Questi signori, in pratica, parlano quasi sempre della classe e degli alunni ideali, che esistono solo nella loro fantasia, non di quelli veri, in carne ed ossa, che ci troviamo di fronte tutti i giorni. E il Ministero, con questa insistenza paranoica sui cosiddetti BES e DSA, ha rincarato la dose di trito pedagogismo. L’unico corso di aggiornamento che io vorrei è quello specifico sulle mie discipline, che mi propone argomenti e contenuti nuovi, approfondimenti critici, suggerimenti bibliografici per migliorare effettivamente le mie competenze; un docente, per quanto preparato sia, ha sempre qualcosa da imparare, anche perché gli studi filologici, storici, filosofici ecc. proseguono il loro cammino, ed è bene ch’egli ne venga messo a conoscenza.
Altra notevole incertezza è quella che riguarda le novità della legge sull’impiego e la gratificazione del personale docente. Da quando è stato istituito il cosiddetto “organico potenziato” in tutte le scuole c’è un certo numero di professori in più rispetto al necessario, che vengono utilizzati in vari modi: in certi casi fanno soltanto le supplenze per le assenze dei colleghi, in altri casi fanno compresenze con altri docenti per determinate esigenze della scuola, in altri ancora tengono i corsi di recupero per gli studenti meno brillanti, ecc. Da quest’anno c’è però la novità, chiarita da una circolare ministeriale, ch’essi possono essere anche utilizzati al posto dei docenti curriculari, affidando cioè loro l’insegnamento annuale in alcune classi. Io condivido questa impostazione, perché non trovo giusto che questi colleghi giovani siano occupati per poche ore settimanali mentre a noi “vecchi” insegnanti della scuola tocchi l’orario intero delle 18 ore, con tutto ciò che comporta i termini di preparazione, correzione degli elaborati riunioni ecc. Ma come potranno i Dirigenti scolastici distinguere tra i vari docenti a disposizione e decidere cosa sia più vantaggioso per ciascuna classe? C’è il rischio che, comunque vada, le scelte non siano le più eque e che a sostenere il peso maggiore dell’insegnamento siano sempre i docenti con più esperienza e che danno ai Dirigenti maggiori garanzia di efficacia e di gradimento per studenti e genitori. Potrebbe accadere che chi s’impegna meno, chi provoca problemi relazionali con le altre componenti scolastiche, chi è meno preparato e didatticamente inefficace goda di un impegno minore e faccia, in pratica, la bella vita, limitandosi a qualche ora di supplenza o di corso di recupero. Non dico che ovunque avverrà questo, ma è molto probabile che accada piuttosto spesso, in virtù del potere che la legge della “Buona scuola” concede ai Dirigenti, gravati però proprio in base a questo potere di una forte responsabilità. Questo presupposto, peraltro, vale anche per quanto riguarda il famigerato “bonus premiale”, cioè il limitato vantaggio economico concesso ad una ridotta percentuale di docenti di ogni scuola,  ritenuti eccellenti rispetto agli altri. Non voglio tornare sull’argomento dei criteri in base ai quali sono state fatte le scelte, su cui ho già espresso sinceramente il mio pensiero. Aggiungo solo una cosa: ho notato che nella maggior parte degli istituti è stata compilata la lista dei premiati ma non sono stati resi noti i loro nomi, forse per reticenza dei Dirigenti che in tal modo vogliono evitare liti e malumori tra gli insegnanti della loro scuola. Se però qualcuno – esclusi i presenti – aspirava ad ottenere il bonus non per quei pochi soldi che si aggiungono allo stipendio ma per il prestigio che la collocazione in quella lista poteva apportargli a livello di scuola e di territorio, in questo modo è rimasto, come si suol dire, con un palmo di naso. Che gratificazione può venire a un docente “premiato” se nessuno viene a sapere di questo premio? Mi sembra di risentire una storiella che mi raccontava mio padre quand’ero bambino e che riferiva di un tale che, alla domenica, dava al proprio figlio una banconota da cinquanta lire (si parla di un secolo fa circa) perché facesse bella figura con gli amici quando usciva, ma poi alla sera pretendeva di rivederla intera, senza che il figlio avesse speso neanche un centesimo. Forse chi ha escogitato questa bella trovata avrebbe dovuto essere più esplicito e prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Ma questo è chiedere troppo a chi legifera senza mai aver messo piede in una scuola.

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Bilancio dell’anno scolastico trascorso

Con la conclusione dell’esame di Stato, con il quale i miei studenti sono stati tutti felicemente promossi, è terminata l’attività didattica di quest’ultimo anno scolastico 2015/16 e sono iniziate anche per noi le vacanze. Detto per inciso che queste vacanze non sono così lunghe come l’opinione pubblica mostra di credere, poiché a fine agosto saremo di nuovo a scuola per le prove di recupero dei debiti formativi, è tempo di fare un bilancio dell’anno scolastico trascorso, che non è stato esattamente uguale ai precedenti; vi sono state infatti novità di tipo legislativo che riguardano la scuola nel suo insieme, ma anche una percezione diversa del mio lavoro dal punto di vista personale.
Per quanto concerne il primo aspetto, vi sono stati elementi nuovi legati alla legge cosiddetta della “Buona scuola”, che non mi hanno particolarmente entusiasmato, anzi mi hanno in gran parte deluso. In primo luogo ho notato che è stato immesso in ruolo un gran numero di docenti, alcuni dei quali senza un effettivo accertamento delle proprie capacità culturali e didattiche. Tutti sostengono di aver “vinto un concorso”, ma molto spesso si è trattato di stabilizzazione di rapporti lavorativi precedenti prestati con abilitazioni conseguite in modo vario e non sempre rigoroso; è vero che questo è sempre successo, in quanto i docenti vincitori di concorso ordinario a cattedre saranno al massimo il venti per cento del personale in servizio, ma stavolta la sanatoria mi è sembrata veramente enorme, anche perché avvenuta in seguito a uno dei soliti diktat dell’Europa di cui noi italiani siamo sudditi più che protagonisti. Ma ciò che è più bizzarro è che questa sanatoria non si è limitata a coprire i posti vacanti, ma sono stati immessi in ruolo addirittura circa 50.000 docenti in più rispetto agli organici, quelli che sono andati a formare il cosiddetto “potenziamento”: in base a ciò ogni scuola ha avuto un certo numero di insegnanti in più rispetto al necessario, che sono stati impiegati per lo più in supplenze e corsi di recupero, ma che in realtà hanno passato molto tempo a girovagare per i corridoi o a giocare col cellulare in sala docenti mentre noi, professori di ruolo con sede assegnata in precedenza, abbiamo dovuto continuare a fare le nostre 18 ore, con relativo impegno pomeridiano nella correzione dei compiti, nell’aggiornamento ecc. A me questa situazione è parsa un po’ bizzarra, soprattutto il fatto che, con la crisi economica e il debito pubblico che ci ritroviamo, siano stati pagati così tanti stipendi in più del dovuto. Francamente mi è sembrato uno spreco di denaro pubblico; ma può darsi che mi sbagli e che questa impressione derivi dal mio noto conservatorismo.
A questa bella novità se ne sono aggiunte altre, come la famigerata alternanza scuola-lavoro, che quest’anno ha coinvolto le classi terze ma che è destinata, entro due anni, a toccare tutte le classi del triennio conclusivo degli studi. Non so per quanto dovrò sopportare questa situazione perché sono vicino alla pensione; ma la cosa in sé mi è sembrata un assurdo per i Licei, che forniscono una formazione culturale rivolta all’astrazione ed al pensiero autonomo che ben poco ha a che vedere con le aziende ed il lavoro manuale. Più che altro questo provvedimento mi sembra un’ulteriore concessione del governo a quella mentalità aziendalistica ed economicistica che purtroppo da tempo coinvolge anche il nostro sistema educativo. Secondo questa mentalità bisogna studiare solo ciò che “serve” nella pratica quotidiana, e questo è quanto di più assurdo ed alieno possa esservi dall’impostazione culturale su cui si sono basati per decenni i Licei, specie il Classico e lo Scientifico. Ma anche questa mia contrarietà può spiegarsi con il mio conservatorismo e con la mia età: si sa, dopo i sessant’anni non si può più andare al passo coi tempi e soprattutto con il pensiero delle nuove generazioni che ci stanno governando o aspirano a governarci.
Queste novità legislative sono quelle che più mi hanno colpito e reso perplesso di quest’ultimo anno scolastico; ma qualcosa è cambiato anche dal punto di vista mio personale, all’interno della mia scuola e delle altre del territorio che ben conosco. Ho avuto l’impressione che quel che oggi più conta nell’attività del docente non sia più la sua preparazione, la sua efficacia didattica, i principi morali e civili che riesce a trasmettere ai suoi alunni, bensì la capacità di assumersi incarichi al di fuori del lavoro in classe, la volontà di organizzare eventi e progetti che giovino all’immagine esterna dell’istituto, la tendenza a creare con gli studenti un rapporto “tranquillo” che non provochi tensioni o problemi con le famiglie e che alla fine lasci tutti contenti. Un po’ è sempre stato così, il professore molto esigente che dà anche voti bassi quando è necessario viene osteggiato, mentre quello che fa l’amico dei ragazzi e li gratifica con buoni voti è sempre risultato più simpatico; ma adesso mi sembra che questo andazzo sia andato rafforzandosi e che si stia diffondendo l’abitudine di attirarsi la simpatia di alunni e famiglie con atteggiamenti compiacenti, amichevoli, a volte anche adulatori, che francamente non mi sembrano confacenti ad una visione seria ed efficace del rapporto educativo. Io probabilmente sbaglio nel senso opposto perché ho ritenuto ed ancora ritengo che il bravo docente sia colui (o colei) che insegna con competenza le sue materie e non concede troppa confidenza agli alunni, non crea un rapporto di “complicità” che all’inizio sembra piacevole ma che poi risulta deleterio per la formazione dei ragazzi e la loro futura capacità di affrontare i problemi della vita. Chi ha sempre la strada spianata non riuscirà ad affrontare la prima difficoltà che gli si porrà davanti. Io la penso così, ma forse anche questo va attribuito al mio conservatorismo ed alla mia età ormai non più verde; oltretutto mi sto accorgendo che noi docenti “anziani” stiamo andando incontro alla “rottamazione”, ad essere soppiantati dai colleghi più giovani, la generazione per intenderci dai 35 ai 50 anni, dotati di uno slancio vitale e di un entusiasmo ben maggiori dei nostri, legati come siamo ad una visione della scuola ormai inveterata. E’ il nuovo che avanza, nel bene e nel male.
Detto questo, mi propongo per tutta l’estate di non parlare più di scuola, perché le vacanze debbono essere anche mentali, nel senso che occorre liberarsi per un po’ dai problemi quotidiani del nostro lavoro che ci affliggono per dieci mesi e più all’anno. In questo periodo, almeno fino a settembre, parlerò d’altro: questioni sociali e politiche, recensioni di libri o altri argomenti culturali, fatti di cronaca. Con la scuola voglio chiudere, almeno per qualche settimana, anche perché il blog non è stato creato a senso unico ma per tutto ciò che mi può interessare o in cui sento di avere qualcosa da dire.

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I difetti della classe docente

In questi ultimi tempi mi pare che il comportamento di molti colleghi, che hanno boicottato (inutilmente) l’approvazione della riforma della scuola, abbia messo a nudo le magagne, i difetti e le frustrazioni che da molto tempo caratterizzano la mia categoria, quella degli insegnanti di ogni ordine e grado. Dal computo vanno però esclusi i docenti universitari, i quali pure, nonostante gli evidenti privilegi di cui godono, si lamentano abbastanza e non sono mai contenti di nulla; ma sulla casta degli accademici preferisco sorvolare, anche per non attirarmi addosso varie proteste e forse anche qualche querela.

Torniamo quindi ai docenti di scuola primaria e secondaria, che hanno scatenato un putiferio contro la riforma Renzi-Giannini senza neanche conoscerla bene, dando ancora una volta dimostrazione del loro più cupo pessimismo, una caratteristica questa che è un po’ comune a tutto il popolo italiano, ma che nella categoria degli insegnanti alberga ancor più che nelle altre. Sulla riforma sono state dette cose assurde, che non sono scritte da nessuna parte e che nessuno ha mai neppure lontanamente pensato: che cioè questa legge distruggerebbe la scuola pubblica a vantaggio di quella privata (lo si dice da 20 anni e anche più, con tutti i governi), che non esisterà più la libertà d’insegnamento, che noi docenti diventeremo schiavi dei presidi, che la scuola stessa è morta per sempre ed altre amenità di questo tipo. Ci manca solo l’invasione delle cavallette e poi siamo al completo, se stiamo a sentire queste Cassandre e questi Calcanti che sanno profetizzare soltanto sciagure.

Il pessimismo cosmico, la pretesa di conoscere il futuro (cosa di cui già gli antichi dubitavano) ed il vederlo tutto nero e senza speranza è quindi il primo dei difetti caratteristici della nostra classe docente. A questo ne è legato a doppio filo un altro, anch’esso molto diffuso: il lamentarsi continuamente, il piangersi addosso, il non essere mai contenti di nulla. Si comincia con le lamentele riguardanti lo stipendio, e qui siamo tutti d’accordo sul fatto che gli insegnanti italiani sono pagati poco rispetto ai colleghi europei, che non lavorano certo più di noi; è però anche vero che quando abbiamo scelto questo mestiere sapevamo già che non saremmo mai diventati ricchi, e quindi evidentemente, se abbiamo preso la decisione di insegnare, ci avrà spinto qualche altro motivo anche più nobile del semplice accumulo di denaro, altrimenti avremmo seguito altre strade. Io personalmente non mi sono mai lamentato dello stipendio perché ritengo che il denaro nella vita non sia tutto e che quando si ha a sufficienza ciò che serve per condurre una vita dignitosa, si può anche rinunciare al sovrappiù in cambio di un po’ più di tempo libero e della possibilità di leggersi in pace un libro o farsi una passeggiata quando lo riteniamo opportuno. Il lavoro non deve impegnare tutta la vita, ed è inutile secondo me guadagnare molto quando non si ha la libertà di vivere la propria vita come si vuole. E comunque le lamentele dei docenti non riguardano solo lo stipendio, ma anche il lavoro stesso: certi colleghi, ad esempio, si dicono stanchi morti dopo aver fatto tre ore di lezione o dopo aver corretto un pacco di compiti. Quando li sento lamentare io penso tra me e me: cosa direbbero se dovessero stare in una fabbrica per otto ore al giorno, con solo trenta giorni di ferie all’anno?

Ma il difetto più grande e inguaribile di molti docenti (non dico tutti) è la presunzione, il credere cioè di essere perfetti e di non dover essere non dico giudicati, ma neanche valutati da nessuno. Nonostante le manifestazioni di una modestia spesso finta, noi docenti siamo tra le persone più orgogliose e supponenti che si possano immaginare. Lo vediamo chiaramente anche in occasione delle nostre riunioni di dipartimento, dove nessuno di noi è disposto ad accettare critiche né suggerimenti da parte dei colleghi, perché ciascuno è fermamente convinto di essere bravissimo e di non aver bisogno di consigli da nessuno. Se un docente del triennio, ricevuta una classe dal collega del biennio, si azzarda a esprimere un dubbio sulla preparazione dei ragazzi o sul metodo di lavoro del collega stesso, apriti cielo e spalancati terra! Costoro sono insindacabili, fanno sempre tutto bene e nel modo migliore, guai a mettere in dubbio anche un solo minimo aspetto del programma svolto negli anni precedenti. Ed è proprio questa presunzione che ha provocato un’alzata di scudi ogni volta che un ministro qualsiasi (che sia Berlinguer, la Moratti, la Gelmini o la Giannini) abbia appena affacciato l’ipotesi di una valutazione del nostro lavoro; ed io penso che sia proprio questa la ragione principale delle proteste contro la recente riforma, il fatto cioè che i docenti si considerano intoccabili, insindacabili, e spesso sono proprio i più scadenti quelli più accesi nella protesta. Io personalmente non temo nulla da un’eventuale valutazione del mio lavoro; e se dovessero scoprire in me e nel mio modo di essere e di insegnare dei difetti o delle mancanze, io cercherei di emendarmi e di superare le difficoltà, non m’indignerei certamente solo perché qualcuno si permette di esprimere un giudizio sul mio operato.

Va anche detto che molti di noi docenti – e credo più gli uomini che le donne – si sentono ingabbiati in questo lavoro, non sufficientemente considerati a livello umano e sociale, e cercano così un riscatto tentando di emergere in ogni modo; e anche questo è un fattore che può spiegare la presunzione di cui parlavo sopra. Faccio un esempio che riguarda anche me personalmente. Io e molti altri docenti di liceo avevamo in realtà, negli anni della nostra giovinezza, l’aspirazione a fare i ricercatori, a percorrere la carriera universitaria; ora, essendo stati esclusi da questa prospettiva per varie cause che non sto qui a dire, abbiamo ripiegato sulla scuola considerandola però non abbastanza gratificante per quella che è la nostra personalità di studiosi. Così alcuni di noi, come il sottoscritto, hanno continuato a fare attività di ricerca e a pubblicare saggi e libri, spesso anche con più zelo dei colleghi universitari, trovandovi un’adeguata gratificazione; altri invece, che si sono ritrovati a fare gli insegnanti dopo aver dovuto rinunciare a più alte aspirazioni, esprimono questa loro insoddisfazione tentando di raggiungere posizioni di preminenza o di rilievo all’interno dell’istituzione scolastica, autocelebrandosi o comunque mettendosi in evidenza con atteggiamenti non sempre giustificabili, come la tendenza a prevaricare i colleghi o a mettersi in conflitto con il Dirigente o altre componenti dell’organizzazione scolastica. Le frustrazioni private e personali, purtroppo, sono spesso causa di comportamenti scorretti sia verso i colleghi che verso gli alunni, i quali perciò diventano vittime della megalomania altrui. Non che i ragazzi ed i genitori non abbiano le loro colpe, per carità! Ne hanno molte di certo, ma anche noi docenti ne abbiamo, ed io credo che una buona dose di modestia, di equilibrio e di autocritica non farebbe male neppure a noi, dato che – come è noto – non ha fatto mai male a nessuno.

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Gli studenti e la traduzione dalle lingue classiche

Questa mattina, mentre i miei studenti si stavano cimentando con il compito di greco, io li osservavo affannarsi tra il dizionario ed il foglio protocollo, e mi chiedevo se ancora oggi, nel 2015, valga la pena di sottoporre gli alunni a questo tipo di esercizio, che per loro diventa sempre più difficile e gravoso. Lo provano i risultati deludenti di ogni prova di traduzione dal latino e dal greco, in cui, tranne tre o quattro alunni per classe, tutti gli altri falliscono più o meno miseramente; e se alcuni, pur compiendo diversi errori, mostrano comunque di aver compreso il significato generale del brano che è stato loro assegnato, altri non riescono neppure a rendersi conto di che cosa stavano leggendo e tentando di tradurre. Intendiamoci, la traduzione dalle lingue classiche non è mai stata facile, neanche cinquant’anni fa; ma allora si iniziava a studiare latino alla scuola media, veniva effettuato in quella scuola (ma anche alle elementari) uno studio approfondito e sistematico della lingua italiana, gli strumenti di diffusione della cultura erano soltanto i libri e quindi la lettura era il mezzo essenziale con cui ci si approcciava ai testi. Oggi tutto questo non esiste più: alla scuola primaria lo studio linguistico si è fortemente ridotto fin quasi a scomparire soppiantato da una serie di progetti e attività che nulla hanno a che vedere con le strutture della lingua italiana, e soprattutto si è diffusa la cosiddetta “civiltà dell’immagine” che, mediante la tv, i computers, i cellulari ecc. presenta al bambino ed al ragazzo una serie di informazioni già pronte e immutabili. Ne deriva che il ragionamento autonomo, l’intuito, la capacità di operare scelte concettuali, cioè proprio le qualità che occorrono per tradurre bene dal latino e dal greco, si sono talmente ridotte da atrofizzarsi, proprio come avverrebbe se una persona, ad esempio, si legasse un braccio al collo per vent’anni: una volta sciolto, quel braccio non potrebbe più essere utilizzato. Si è creata perciò nelle scuole dove ancora le lingue classiche vengono studiate (licei classico e scientifico soprattutto) una situazione di grave imbarazzo per docenti e studenti, i quali, se svolgono onestamente il loro lavoro, sono costretti a rimediare con l’orale (specie con lo studio della storia letteraria) un risultato degli scritti che non soddisfa mai. Ma molti alunni, a nord come a sud, si sono attrezzati per risolvere il problema copiando i compiti da internet con il cellulare, mentre i docenti sempre più “tirano a campare” fingendo che il problema non esista e persino, in qualche caso, lasciando copiare i propri studenti o aiutandoli sconciamente all’esame di Stato. Il problema è macroscopico e diffuso ovunque: proprio oggi, tanto per fare un esempio, ho ricevuto un commento al mio blog di una signora, madre di un alunno di un liceo classico, la quale denuncia che nella scuola del proprio figlio tutti copiano i compiti da internet, ed i prof. fanno finta di non accorgersene. Questa, a casa mia, si chiama ipocrisia e squallido opportunismo. E i politici non sono da meno: qualche anno fa il sig. Profumo, ministro dell’istruzione dello sciagurato governo Monti, fu interpellato proprio su come risolvere la questione dei cellulari usati durante i compiti e gli esami. Rispose di non avere la mentalità dei servizi segreti, il che equivale a dire che lui si chiamava fuori da ogni possibile intervento.

Ma allora come si può uscire da questo ginepraio, da questa ipocrisia che inficia le nostre scuole ed il rapporto stesso tra alunni e docenti? Anzitutto occorre partire dalla constatazione – dolorosa ma veritiera – che i ragazzi di oggi, per i motivi detti prima, non sono più in grado di tradurre decentemente dal latino e dal greco, e che questa nobile attività è ormai diventata un lavoro da esperti filologi, non da comuni studenti. Se i nostri politici, che pur danno mostra di voler riformare la scuola ad ogni piè sospinto, si rendessero conto di questo, potrebbero risolvere loro il problema, e a costo zero. In che modo? Cambiando finalmente la seconda prova scritta d’esame del liceo classico, la quale, nonostante tutte le promesse e i discorsi avveniristici dei vari ministri che si sono succeduti, è rimasta ancora come 90 anni fa, ai tempi di Gentile: una versione unica e insindacabile dal latino o dal greco, che oltretutto a volte è molto difficile, come ad esempio quella di tre anni fa, un brano di Aristotele praticamente incomprensibile per i ragazzi, che mise in difficoltà perfino i docenti liceali e universitari. Assegnare brani del genere agli studenti di oggi è pura follia, che può spiegarsi solo in due modi: o con l’incompetenza assoluta di chi sceglie questi brani da tradurre o con la malcelata volontà di distruggere il Liceo Classico a vantaggio di altre scuole. Con questo sospetto io mi pongo una questione: perché la seconda prova di altri licei (vedi lo scientifico) è stata più volte modificata mentre quella del classico resta sempre la classica traduzione che la maggior parte dei nostri alunni non è in grado di svolgere se non copiando con il cellulare o con l’aiuto di professori compiacenti? Si dice da ogni parte che la scuola deve adeguarsi alla realtà attuale. Benissimo. Allora cominciamo a sostituire la vecchia “versione” con qualcosa di diverso, tipo un’analisi linguistica e storico-letteraria di un testo già tradotto, una serie di quesiti di letteratura o altro che dir si voglia. Da parte mia, consapevole del problema, ho già scritto più volte al Ministero per attirarvi l’attenzione di chi di dovere, ma non ho mai ricevuto risposte adeguate. Se da parte ministeriale si aprissero finalmente gli occhi alla realtà e si modificasse la seconda prova scritta d’esame del Liceo Classico, noi docenti continueremmo certamente lo studio delle lingue classiche, ma per applicarlo sostanzialmente all’analisi dei testi degli autori ed alla conoscenza di questo importante aspetto del mondo antico, ma non saremmo più costretti a imporre sistematicamente queste traduzioni dall’esito spesso disastroso fingendo di non vedere la realtà, cioè che gli alunni non sono in grado di svolgerle e che, di conseguenza, tentano di trovare il modo di aggirare l’ostacolo. Del resto io ho sempre sostenuto, molto prima che si diffondesse la moda delle copiature con i cellulari, che la traduzione dal latino e dal greco, pur essendo un esercizio utile, non può essere considerata l’unica forma di accertamento delle conoscenze degli studenti nei riguardi di queste discipline: esistono in esse altri aspetti, come gli argomenti di storia letteraria ed i valori umani espressi dagli scrittori antichi, che resteranno certamente più a lungo nel bagaglio culturale degli studenti una volta usciti dal liceo rispetto alle competenze linguistiche. Ma di ciò i più fingono di non avvedersi e continuano a nascondere la testa sotto la sabbia e ad avallare comportamenti che sono invece da censurare e che limitano fortemente la valenza educativa e formativa della nostra scuola.

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La pagella per i prof.

Augusto Cavadi, filosofo e docente di liceo con un’anzianità di 40 anni, ha pubblicato di recente (il 16 ottobre) un articolo su “Repubblica”, sezione di Palermo, in cui prende parte al dibattito, molto attuale, circa la tanto discussa valutazione delle scuole e dei docenti. La sua proposta, apparentemente provocatoria, mi pare invece attuabile più di altre e soprattutto molto concreta: poiché infatti egli ritiene che ogni docente debba fare carriera in base al merito e non all’anzianità, e che nessuno possa arrivare in cattedra se non per meriti accertati e non tramite sanatorie, avanza la proposta di compilare una “pagella” per ciascun docente in ogni scuola, allo scopo di distinguere i professori veramente preparati e impegnati nel loro lavoro da coloro che avrebbero dovuto scegliere un altro mestiere. Consiglia pertanto di formare commissioni costituite da un docente del consiglio di classe, un rappresentante del personale ATA, un genitore e tre studenti, o meglio tre ex-studenti, che abbiano lasciato la scuola di appartenenza da non più di tre anni. A questi studenti andrebbero rivolte una serie di domande che porterebbero, in base alle risposte, ad assegnare dei voti ai professori e stilarne quindi la pagella. Le domande suddette potrebbero essere, ad esempio: “Il tuo prof. era puntuale a lezione?” “spiegava in modo appassionato o svogliato?”, “faceva monologhi eruditi o si faceva capire bene dagli alunni e li coinvolgeva nella spiegazione?”, “utilizzava bene l’ora a disposizione?”, “era veloce nella revisione dei compiti scritti?”, “sapeva instaurare un buon rapporto con la classe, in modo da evitare sia l’instaurazione di un clima di terrore sia il lassismo e l’indisciplina?”. Secondo Cavadi le risposte più attendibili le fornirebbero gli studenti usciti dalla scuola da non meno di un anno (perché in caso contrario potrebbero avere ancora simpatie o risentimenti verso alcuni docenti), e da non più di tre, perché un tempo troppo lungo potrebbe offuscarne la memoria.
Debbo dire che fino ad ora non conoscevo se non di nome il prof. Cavadi, ma il suo articolo mi trova sostanzialmente d’accordo, tranne che sulla composizione della commissione per la pagella ai professori: non vedo infatti cosa c’entri in essa la partecipazione del personale ATA, che, con tutto il rispetto, non ha certo la competenza per giudicare il lavoro dei docenti. Io vedrei volentieri in questa commissione, oltre al genitore ed agli ex studenti, anche il dirigente scolastico e un docente anziano della scuola che appartenga al medesimo ambito disciplinare del docente da valutare. Chi infatti meglio del Dirigente e dei colleghi anziani può giudicare l’effettivo valore di ogni docente della scuola, che essi conoscono certamente per esperienza? Sono invece d’accordissimo nell’affidare questo compito agli ex-studenti e non agli studenti in corso, perché questi ultimi hanno sì la capacità, ma non la maturità necessaria per giudicare oggettivamente i loro insegnanti. Mi spiego: i ragazzi sanno benissimo chi dei loro professori è più o meno efficace didatticamente, ma sono condizionati dalle valutazioni loro assegnate, alle quali tengono moltissimo: se quindi dovessero dare un parere sui loro insegnanti, non favorirebbero i migliori, ma quelli che danno loro i voti più alti e che li fanno studiare di meno. E non mi si dica che non è vero, perché tutti abbiamo avuto 15-17 anni, e tutti ci saremmo comportati così; una volta usciti dalla scuola, invece, le cose cambiano e lo studente, quando è ormai giunto all’università o nel mondo del lavoro, si rende conto che i docenti didatticamente più validi erano proprio quelli che assegnavano voti bassi e facevano studiare di più, perché solo così si crea la preparazione e la formazione culturale della persona umana. Basta parlare con un ex studente e ci accorgiamo subito che non ha alcuna stima per quei professori che assegnavano voti sufficienti per principio, perché di quelle materie, non essendo stato costretto a studiarle, non ricorda nulla; apprezza invece proprio quei professori che, con la minaccia del voto negativo, costringevano gli alunni a studiare, perché solo così si riesce ad imparare qualcosa.
E’ certo comunque, al di là della proposta di Cavadi, che la valutazione dei docenti andrebbe effettivamente realizzata, perché è profondamente ingiusto e nocivo per l’intera comunità nazionale il fatto che continuino a restare in cattedra persone incompetenti o peggio demotivate, giacché è palese che il primo che deve dimostrare entuasiasmo ed interesse per le proprie discipline è proprio il professore, altrimenti non si può pretendere che gli studenti, che sono in età adolescenziale e quindi estremamente fragili, studino con impegno e volontà. A parer mio, tanto per dirne una, non si dovrebbe permettere ai docenti di esercitare altre attività lavorative (studi legali, professionali ecc.), ma dovrebbero dedicarsi totalmente all’insegnamento, perché è una professione che, se fatta bene, assorbe talmente tante energie da non lasciare spazio ad altro. Ed è una vera e propria catastrofe, secondo me, anche l’intenzione del governo di assumere 150.000 precari senza sottoporli ad un concorso serio e selettivo che ne accerti la reale disposizione all’insegnamento e l’oggettiva preparazione nelle loro discipline. Le immissioni in ruolo “ope legis”, cioè le sanatorie, non esistono in altri ambiti: chi assumerebbe un chirurgo o un pilota di aerei senza un preventivo accertamento delle sue capacità? Alle sanatorie si è fatto invece ricorso – purtroppo – nella scuola italiana molto spesso, a partire dagli anni ’70, e ciò ha provocato disastri inenarrabili, mettendo in cattedra persone assolutamente inadatte a questa professione, che è sì stancante, usurante e difficile, ma anche fondamentale per ogni Paese che voglia definirsi moderno e civile, e non meno importante di quella del chirurgo o del pilota.

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I nipotini degeneri del ’68

A leggere gli articoli e i commenti sulla scuola che compaiono sui siti internet e sui vari blog, si ha l’impressione di essere di fronte ad un riacutizzarsi delle contrapposizioni ideologiche da parte di alcuni che ancor oggi si scagliano contro quelli che un tempo erano i classici “nemici”, ossia il governo, le istituzioni e gli avversari politici. Tanto per fare un esempio, ho letto oggi un articolo pubblicato sul sito di “Orizzonte Scuola” il cui autore, di cui non faccio il nome, sosteneva che la scuola attuale è ancora autoritaria e “fascista” (sì, è inaudito, ma proprio questo è il termine impiegato) solo perché persiste una forma di rispetto verso i docenti che, in alcuni casi, si può esprimere anche con un gesto formale, il fatto cioè che gli alunni si alzano in piedi al momento dell’ingresso dell’insegnante in aula. Secondo l’autore dell’articolo, questo gesto rappresenterebbe un residuo del fascismo e della scuola coercitiva e autoritaria.
Non intendo esporre qui con le parole che mi verrebbero alla mente la mia opinione sull’articolo e su chi l’ha scritto perché rischierei una denuncia penale, quindi mi limito a esprimere pacatamente il mio pensiero. La scuola attuale è tutto fuorché autoritaria e coercitiva, non solo perché gli studenti vengono blanditi in ogni modo e molto spesso promossi senza merito, e non solo perché i docenti hanno da tempo rinunciato ad alcune forme di ossequio che prima esistevano e che sarebbe stato meglio conservare, ma anche perché ormai il rapporto insegnante-alunni, anche quando non arriva all’amicizia su facebook, è improntato a cordialità e rispetto reciproco, non esiste più il docente che terrorizza gli alunni con il solo sguardo, come succedeva quando andavamo a scuola noi. Va anche aggiunto che i genitori, un tempo ossequiosi collaboratori del lavoro dei professori, oggi fanno i sindacalisti dei figli, vengono persino a contestare i nostri metodi di insegnamento, sono anche ascoltati dai dirigenti scolastici e spesso soddisfatti nelle loro richieste: non è raro infatti il caso che un docente venga spostato di sezione o di classe perché non gradito a certi genitori. Mi pare quindi che la realtà scolastica di oggi sia l’esatto contrario di quel che afferma l’articolo in questione; caso mai siamo noi docenti a subire condizionamenti e talvolta anche prevaricazioni da parte di studenti e genitori, specie dopo il famigerato “Statuto delle studentesse e degli studenti” del ministro Berlinguer. Per quanto mi riguarda, io non ho mai preteso che gli alunni si alzassero in piedi al mio ingresso; pretendo soltanto il rispetto dovuto all’età e alla funzione che ricopro, e che comunque ho sempre contraccambiato, convinto come sono del fatto che ciascuno abbia la sua dignità e che chiunque vada trattato con cortesia e affabilità.
Articoli come quello che ho citato rivelano la persistenza, ancor oggi nel 2014, degli steccati ideologici che speravamo di avere ormai superato; mi accorgo invece che esistono ancora i nipotini degeneri del ’68 che continuano a sostenere il “sei politico” (visto che molti affermano tuttora che le bocciature non dovrebbero esistere), che continuano a stare sulle barricate contro la classe politica, il governo Renzi, il ministero dell’istruzione nel nostro caso, ed evocano fantasmi come l’autoritarismo, la scuola classista, il professore oppressivo ecc. ecc. Forse qualcuno dovrebbe dire a questi nostalgici che gli ideali del ’68 non soltanto sono vecchi come il cucco, ma hanno rivelato chiaramente, in 40 anni di applicazione, la loro totale inefficacia, considerati i disastri che hanno provocato nella scuola e nella società, primo tra tutti l’aumento dell’ignoranza e della massificazione intellettuale causata dall’abbandono della disciplina, dal pullulare di progetti e attività che hanno sottratto tempo prezioso ai programmi curriculari, dalle lauree facili e concesse anche ad autentici ignoranti. Dovrebbe essere chiaro a tutti, inoltre, che nel mondo attuale certe realtà come la suddivisione tra la scuola dei ricchi e quella dei poveri, cavallo di battaglia di quel famoso don Milani che molti continuano a infilare dappertutto come il prezzemolo, non esistono più. Oggi la scuola è giustamente aperta a tutti, gli studenti vedono rispettati i loro diritti, ma questo non li esime dal dovere di mostrare cortesia e rispetto per i docenti; alzarsi in piedi al loro ingresso in aula, pertanto, è un piccolo segno di questo atteggiamento mentale, che io non pretendo ma in cui, d’altro canto, non vedo nulla di reazionario o di autoritario.
E poi c’è un altro tratto tipico dell’eloquio di questi nostalgici di ideologie sconfitte dalla storia, il fatto cioè che costoro, proprio come facevano negli anni ’70, continuino a riesumare il fascismo e ad applicare l’infamante titolo di “fascista” a tutte le persone o le cose che non corrispondono alla loro visione del mondo. Perciò, secondo l’autore dell’articolo suddetto, l’alzarsi in piedi da parte degli alunni quanto entra in classe un professore sarebbe un residuo del fascismo, senza tener conto del fatto che tale gesto esisteva anche prima che Mussolini prendesse il potere in Italia, ed è continuato ad esistere anche dopo, e senza considerare, per giunta, che anche docenti di dichiarata fede marxista non hanno impedito ai loro alunni di salutarli in quel modo. Ora, nessuno può contestare che storicamente il fascismo è finito circa 70 anni fa, ed è patetico quindi rievocarlo adesso; sarebbe come se qualcuno desse del “ghibellino” o del “carbonaro” al suo avversario politico, facendo cioè riferimento a movimenti e ideali che fanno parte della storia del passato e che oggi non esistono più. Ma in realtà il rievocare il fascismo morto e sepolto ha una precisa funzione: quella di trovare un “nemico”, qualcuno da insultare e da additare al pubblico disprezzo, allo scopo di tenere in vita ideologie anch’esse morte e sepolte, la cui spaventosa realizzazione, portatrice di milioni di vittime, si è finalmente infranta con la caduta del muro di Berlino. Chi continua ancor oggi a credere a quei fantasmi, a illudersi che un tale disumano sistema politico possa realizzarsi, ha bisogno della contrapposizione, degli steccati ideologici, del “nemico”, perché altrimenti la sua parrebbe – ed è effettivamente – una lotta contro i mulini a vento. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, ed ecco perchè nel 2014 qualcuno continua a ragionare come fossimo ancora negli anni ’70 e a sentirsi sulle barricate. Sono i brutti scherzi che gioca la nostalgia, o meglio – almeno per le persone della mia età – il rimpianto della giovinezza perduta.

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Dottor Jekyll e Mister Hyde: la doppia vita dei nostri studenti

Chi di noi non ha letto il celeberrimo romanzo di R.L.Stevenson, Lo strano caso del dott. Jekyll e di Mr. Hyde, dove il geniale scrittore immagina che un uomo possa sdoppiarsi in due opposte personalità, collocando tutto il bene della sua anima in una e tutto il male nell’altra? Orbene, questo romanzo mi è venuto in mente in questi giorni, dopo aver letto su internet le “riflessioni” (chiamiamole così) di alcuni studenti della mia scuola. Entrando in alcuni social-network da loro frequentati (specialmente Facebook e Twitter, ma anche altri) si resta esterrefatti del linguaggio che usano, pieno di oscenità, di parolacce e persino di bestemmie, e del livore che sfogano impunemente sulla scuola e sui loro professori, ricorrendo anche ad insulti irripetibili. Eppure questi stessi studenti, se li si guarda in classe al mattino, sono generalmente cortesi, corretti e persino timidi nel rivolgersi agli insegnanti, tanto da fare a questi ultimi un’ottima impressione. Poi, quando escono di scuola, si trasformano improvvisamente in mostri tipo mister Hyde, inveendo contro i docenti, le materie di studio e tutto ciò che riguarda la scuola, magari dicendosi vittime di non si sa quale bieca tirannia che li costringe a sacrificare un po’ del loro prezioso tempo per studiare, un tempo che dedicherebbero ben più volentieri al divertimento ed al vagabondaggio.
E’ vero che l’invettiva contro la scuola e i docenti è sempre andata di moda, anche ai nostri tempi; ma allora gli anatemi venivano scagliati su una panchina del giardino pubblico o nelle stanze private di qualche abitazione, e quindi nessuno ne veniva a conoscenza. Invece oggi questi studenti, che si credono grandi ed emancipati ma sono in realtà bambini viziati ed ingenui anche a 18-19 anni, scrivono sui social network credendo che quello sia un loro spazio privato che nessuno vede; ma si ingannano, perché in realtà ciò che viene scritto su internet è pubblico e può essere letto da chiunque, anche dai diretti interessati. Ed in effetti non è bello che un docente, pienamente rispettato in classe, venga poi insultato in questa maniera vile e subdola, nella convinzione di agire nell’ombra. Vi sono colleghi che, pur sapendo di questo fatto, se ne disinteressano e non gli danno la dovuta importanza; e invece secondo me la cosa è intollerabile, perché la dignità personale di ciascuno deve essere sempre salvaguardata e nessuno ha diritto di insultare il prossimo, neanche su internet, perché un tale comportamento costituisce un reato penale e gli studenti debbono quindi sapere a cosa potrebbero andare incontro, loro e le loro famiglie se sono minorenni.
Per questo motivo, il primo giorno di scuola, ho diffidato i miei alunni dal compiere azioni simili, avvertendo che ciò potrebbe comportare, oltre a provvedimenti disciplinari scolastici, anche una denuncia penale. Ho anche informato della cosa il Dirigente della mia scuola, con il quale abbiamo concordato di avvertire gli studenti, in occasione di una prossima assemblea d’Istituto, circa le loro responsabilità ed i loro doveri.
Al di là di quello che può accadere, è comunque sconfortante l’esistenza di un fenomeno simile, che a mio parere dovrebbe far riflettere tutti i docenti, perché avviene dappertutto, in tutte le scuole o quasi. E non si può fare orecchi da mercante dicendo “lasciamo perdere, sono ragazzi”, perché le norme della vita civile debbono essere apprese fin dall’infanzia e non si può transigere quando si tratta dell’onorabilità e della dignità altrui. Questa società, con il libertarismo che la distingue, ha fatto falsamente credere ai cittadini, fin da quando sono studenti, che tutto sia lecito e che tutto si possa fare. E’ ora di rientrare nei ranghi e insegnare a questi ragazzi ad essere persone corrette e responsabili, ancor prima di trasmettere loro i contenuti culturali delle nostre discipline. E se con le buone maniere non si ottiene il risultato, si applicheranno le dovute sanzioni, senza alcun timore di passare per “repressori”. Blandire gli studenti, sostenerli sempre, anche quando sbagliano, è un pessimo insegnamento che danneggia soprattutto loro, futuri genitori e futuri cittadini.
Non so se avrò commenti a questo post. Mi auguro però che non venga in mente a nessuno di tirar fuori la solita storia della scuola repressiva, dei docenti che danno poco e pretendono molto, dei poveri studenti perseguitati ecc. Si tratta di colossali fandonie, che potevano avere un fondamento cinquant’anni fa ma non certo adesso, quando i rapporti interpersonali sono totalmente cambiati rispetto a prima, tutti noi teniamo conto dei problemi degli studenti, programmiamo le interrogazioni, aiutiamo tutti agli scrutini, anche al di là di ciò che sarebbe giusto ed equo. Se la ricompensa è questa, allora sarebbe meglio tornare alla scuola dei tempi miei (anni ’60), quando al professore non potevamo neppure rivolgere la parola, se non interpellati, e dove venivamo interrogati anche quattro o cinque volte di seguito, senza alcun preavviso. Certo, la società è cambiata, ma non deve cambiare fino al punto da poter gettare nel fango l’onorabilità di chi ha dedicato, suo malgrado, tutta la sua vita ad una “missione”, quella dell’insegnamento, che oggi ben pochi stimano e riconoscono.

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