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Propaganda e pensiero unico

Noi diamo per scontato, ogni volta che leggiamo o ascoltiamo qualcosa che riguarda la politica, che la nostra sia una democrazia matura, che da noi ci sia veramente il pluralismo ed il rispetto per tutte le opinioni, e marchiamo sdegnosamente la differenza che distinguerebbe il nostro Paese, membro della NATO e dell’Europa di Bruxelles, dai paesi cosiddetti “totalitari” come la Russia, la Cina o altri. Eppure, se focalizziamo l’attenzione sull’informazione televisiva che abbiamo, o anche su quella della carta stampata, ci accorgiamo che la propaganda in atto in Italia non è molto diversa da quella di Putin o di altri dittatori del suo calibro. Non ci vuol molto ad accorgersi che da noi l’informazione è pilotata dal potere politico e che si svolge a senso unico: esiste cioè, in pratica, una sola linea interpretativa dei fatti che tutti siamo indotti (con le buone o con le cattive) a seguire. E’ un pensiero unico che viene dall’alto e che s’impone attraverso tutti i canali televisivi (pubblici o privati) e tutte le principali testate giornalistiche, un pensiero che viene ripetutamente gettato sulle nostre teste, con un martellamento continuo a cui non è possibile sottrarsi, a meno che qualcuno non decida di spegnere per sempre la TV, non leggere mai i giornali e non entrare mai nei social come Facebook. Ma rispettare queste regole è difficile, specie in una società moderna dove a tutti piacerebbe essere informati imparzialmente.

L’ultimo caso di pensiero unico riguarda la guerra Russia-Ucraina, sulla quale siamo bombardati tutti i giorni con un lavaggio del cervello che occupa almeno due terzi di ogni telegiornale. Sull’evento c’è ormai, da parte di tutte le fonti d’informazione, una visione unica che è quello di Biden, dell’Europa dei burocrati di Bruxelles e del nostro Draghi, cagnolino fedele e sottomesso ai diktat degli USA e dei signori citati prima. Secondo questa versione Putin è un criminale, un assassino che ha invaso un paese libero e per questo va condannato senza se e senza ma, anche adottando provvedimenti assurdi e stupidi come le sanzioni internazionali, che faranno molti più danni a noi che alla Russia. E nonostante che questa sia una verità evidente a tutti (abbiamo bisogno del gas russo e delle materie prime, altrimenti la nostra economia si blocca), Draghi e gli altri fedeli servitori dei Biden e compagnia continuano con questa follia delle sanzioni, al fine soprattutto di favorire l’alleato americano che guadagnerà alle nostre spalle vendendoci il suo gas ed il suo petrolio a prezzi superiori a quelli pagati a Putin. Altrettanto folle è la logica della armi date all’Ucraina, che serviranno solo a prolungare il conflitto e a far compiere altre stragi e altre atrocità. Se l’Europa avesse avuto veramente la volontà di far cessare il conflitto avrebbe dovuto restare neutrale, assistere i profughi e muoversi soprattutto sul piano diplomatico, senza prendere una posizione così netta solo per compiacere l’alleato americano, che in tutto ciò coltiva soprattutto i propri interessi politici ed economici.

Eppure, una posizione così netta assunta dall’Europa, alla quale Draghi si è allineato passivamente, non ammette repliche, non ammette contraddittorio. Chiunque si azzardi a dissentire da questa follia viene immediatamente etichettato come “putiniano” e pubblicamente sbeffeggiato ed emarginato. E’ successo a tutti coloro che hanno cercato in TV di indagare sulle cause del conflitto senza accettare come tanti burattini la versione ufficiale trasmessa dalla propaganda di regime; lo stesso è accaduto a chi ha messo in luce l’ambiguo comportamento degli USA e della NATO, che dopo la fine dell’Unione Sovietica avrebbe addirittura dovuto sciogliersi o almeno ritirarsi, non continuare ad avanzare verso est minacciando di porre missili atomici a poche centinaia di chilometri da Mosca. C’è stato chi ha ricordato la crisi di Cuba del 1963, quando i sovietici posero i missili a poca distanza da New York e furono poi costretti a rimuoverli; perché invece alla NATO dovrebbe essere consentito ciò che fu negato allora ai russi?

Gli argomenti per opporsi al pensiero unico ufficiale, senza tuttavia giustificare l’aggressione russa all’Ucraina, sarebbero molti, ma pochi si azzardano a parlare in un Paese dove si accetta una sola versione dei fatti: chi vi si oppone, qui da noi, fa poca strada, ma viene immediatamente tacitato e poi cacciato e messo nel ghetto dei “putiniani”, quando invece chi trova anche altre responsabilità nel conflitto non vuole affatto giustificare Putin ma semplicemente cercare di vedere al di là del muro ideologico che i nostri mass-media pilotati dal regime vogliono metterci di fronte agli occhi.

Certo, è vero che in Italia gli oppositori non subiscono conseguenze fisiche, non vengono avvelenati né messi in prigione per aver contestato il regime; ma subiscono ugualmente una censura strisciante e corrosiva che finisce per metterli a tacere. Il sistema usa contro di loro l’arma dello scherno e dell’emarginazione ideologica, una sorta di “confino” da cui non escono più. Così è avvenuto per qualsiasi circostanza in cui vi sia stata un’opposizione al pensiero unico del “politicamente corretto”, altra infelice imposizione di origine americana. Gli esempi non sono difficili da indicare: coloro che si opponevano al modo in cui lo sciagurato governo Conte 2 ha affrontato l’epidemia di Covid sono stati bollati come “negazionisti”, quando a nessuno veniva in mente di negare l’esistenza del virus; coloro che non si sono vaccinati hanno subito un’infamante gogna mediatica che è durata mesi e che ha ottenuto l’effetto contrario di quel che si proponeva; coloro che auspicano una maggiore libertà decisionale dell’Italia ed una riduzione della nostra sottomissione agli stranieri viene subito etichettato come “sovranista”. L’emarginazione del dissidente investe poi tutti coloro che mostrano perplessità di fronte alle tesi dei paladini dei cosiddetti “diritti civili”: così chiunque si azzarda a difendere la famiglia tradizionale formata da un uomo e una donna è immediatamente bollato come “omofobo”; chiunque trova il coraggio di dire che occorrerebbe porre un limite all’immigrazione clandestina, i cui effetti nefasti sono sotto gli occhi di tutti, è subito definito “razzista”; senza poi contare l’etichetta di “fascista” sempre affibbiata a chi non accetta certi falsi miti ancora in vigore oggi a 80 anni dalla fine della guerra civile italiana.

E’ vero quindi che gli oppositori in Italia non vanno in galera, ma questo non è sufficiente per poter definire la nostra una vera democrazia; non può essere tale un regime in cui viene propagandata, con un martellamento continuo, un’unica versione dei fatti, e dove chi non accetta questa versione viene bollato con i peggiori epiteti, sbeffeggiato ed escluso dal dibattito pubblico. Sì, perché da noi esiste anche la censura, per chi non lo sapesse: le TV non invitano i dissidenti o li invitano solo per ridicolizzarli, i social come Facebook sospendono il profilo o cacciano addirittura per sempre chiunque esprime un’opinione contraria al “politicamente corretto”, e non mi si venga a dire che questo è conforme alle regole del vivere civile.

Nella fattispecie la propaganda di regime che abbiamo in Italia, con tutte le TV e i giornali schierati come tanti soldatini al servizio del governo, a sua volta schiavo dei diktat americani ed europei, non differisce molto da quella della Russia o di altri paesi totalitari. Il senso di frustrazione che prova chi subisce questa emarginazione è forte, si ha la sensazione di essere soli in un deserto dove la nostra voce non è ascoltata oppure, se viene ascoltata, riceve per risposta lo scherno e l’insulto. Quindi la nostra non è una democrazia ma una dittatura; una dittatura che non ricorre ai carri armati o alla galera per i dissidenti solo perché non ne ha più bisogno. Come già diceva Pasolini molti decenni fa, oggi della repressione violenta non v’è più alcuna necessità: basta riuscire ad asservire la TV e tutti gli altri mezzi di informazione, ed il gioco è fatto.

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Un Paese di ignoranti

Un tempo la cultura era un valore positivo in ogni società; oggi invece, almeno nella nostra, è diventata per molti uno svantaggio, un inutile fronzolo, un peso da togliersi di dosso il prima possibile. E di converso l’ignoranza, un tempo condannata anche in modo eccessivo perché molte persone ne erano afflitte senza averne colpa, è diventata adesso quasi un titolo di vanto. I modelli proposti dalla TV e dai social esaltano altre qualità individuali come la bellezza fisica, il successo, la ricchezza materiale; di conseguenza il non sapere, l’essere privo di ogni competenza e di ogni conoscenza non è sentita come una mancanza, ma come un merito. La persona di cultura è spesso svalutata, ritenuta noiosa e pedante, quando addirittura non è apertamente guardata con sospetto e avversione.

Di questa attuale svalutazione della cultura nella nostra società contemporanea fornisco alcuni esempi. Nonostante che la maggioranza dei cittadini sia stata a scuola ed abbia terminato almeno un istituto di istruzione superiore, ciò non ha impedito la diffusione dell’analfabetismo funzionale: moltissime persone, infatti, sanno leggere e scrivere, ma non riescono a comprendere il senso di ciò che leggono, e se debbono scrivere non sono in grado di costruire un periodo in lingua italiana che sia sintatticamente corretto. Questo fenomeno a me sembra gravissimo: a che è servito a costoro andare a scuola per almeno tredici anni senza aver raggiunto le più elementari conoscenze di lingua? Ma il bello è che di tale condizione nessuno si preoccupa, pare anzi che questo genere di ignoranza – perché di ciò si tratta – venga comunemente accettata come facente parte della più ordinaria normalità.

A me risulta però che esista e sia molto diffuso anche un altro genere di analfabetismo, che io chiamo “di ritorno”. Mi riferisco alla limitatezza culturale di tante persone che non soltanto hanno frequentato le scuole superiori, ma si sono anche laureate diventando brillanti medici, avvocati, architetti o altro che dir si voglia. La maggior parte di costoro non legge più un libro dai tempi dell’università e presenta una spaventosa ignoranza in tutto ciò che non fa parte delle proprie specifiche competenze professionali: la storia, la geografia, la letteratura, le scienze, tutto lo scibile che hanno incontrato nel loro percorso è andato irrimediabilmente perduto. Tutto dimenticato, tutto sparito. Illustri e celebri professionisti, ricchi e famosi, non sanno chi erano Giulio Cesare o Napoleone, né quando sono vissuti né che cosa abbiano fatto, né dove si trovino l’Armenia o il Paraguay, né che cosa abbiano scritto Manzoni e Leopardi. Anche a costoro si potrebbe chiedere: cosa siete andati a fare a scuola? Cosa vi è rimasto della vostra istruzione?

Ma l’ignoranza più crassa e diffusa si vede dai social come Facebook, dove per mettere un post o scrivere un commento occorrerebbe quanto meno avere una minima conoscenza della lingua italiana; invece gli sfondoni e gli orrori ortografici e sintattici abbondano senza limiti, per non parlare della limitatezza lessicale di gente che magari, pur avendo un diploma, conosce appena 500 parole ed impiega sempre quelle. E se qualcuno che ne sa un po’ di più si azzarda a correggerli anziché ringraziarlo lo insultano, intimandogli di “non fare il professorino” e asserendo che ciò che conta è il concetto, poi se “a dormire” è scritto “ha dormire” non importa nulla, basta intendersi.

A questo punto c’è da chiedersi a cosa serva la scuola se tante persone, pur diplomate e laureate, non posseggono più neppure le competenze di base e si dimenticano in poco tempo tutto ciò che hanno studiato. Ma il problema non sta negli insegnanti, che nella gran maggioranza dei casi sono preparati e professionali, bensì nella mentalità corrente, che non conferisce alla serietà degli studi l’importanza che dovrebbe avere. La tendenza generale dei personaggi pubblici, dai divi dello spettacolo ai pedadogisti ed ai sociologi, è quella di blandire gli studenti, giustificarli sempre e comunque e soprattutto non biasimarli quando si comportano in modo scorretto, ad esempio copiando o cercando ogni scusa per non impegnarsi e ingannare i docenti; anzi, dalla TV arrivano messaggi compiacenti con tali comportamenti, come se non studiare, copiare o andar male a scuola fosse un merito e non un atteggiamento censurabile. Ho sentito celebrità televisive vantarsi di essere stati degli asini a scuola o di aver copiato i compiti, ed il tutto è accompagnato da risolini compiacenti, come se l’ignoranza che è la inevitabile conseguenza di questi atteggiamenti fosse cosa di cui andare fieri. A ciò si aggiunge la tendenza, ormai invalsa da molti anni, alle promozioni generalizzate, anche degli studenti per i quali sarebbe estremamente giovevole ripetere un anno del loro percorso. Tutte queste situazioni messe insieme non possono che dare un unico risultato: l’ignoranza, che a me pare una sciagura ma che invece, per l’opinione comune, è cosa di poco conto, anzi è auspicabile per poter controllare meglio il popolo ed imporgli una sorta di regime come quello in cui già ci troviamo, almeno da quando è iniziata la pandemia. E allora, se siamo contenti, continuiamo così: tanto, come disse qualcuno, con la cultura non si mangia.

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Perché l’odio sui social

Si fa tanto parlare in questo periodo del problema dell’odio sui social network ed in particolare su Facebook, dove in effetti sono spesso presenti sarcasmi, insulti ed anche minacce di morte contro presunti avversari politici o di altro genere. Il fenomeno è diffuso e preoccupa chi sta al potere, tanto che si vogliono persino istituire commissioni per contrastarlo, sebbene, a rigor di logica, non ce ne sarebbe bisogno, dato che già esiste il Codice Penale che punisce l’insulto, la diffamazione, la minaccia ecc. Basterebbe identificare le fonti dell’odio (cosa che con i mezzi informatici moderni è possibile, nessuno è totalmente garantito dall’anonimato) ed operare le relative denunce, processi e condanne. Invece si preferisce istituire commissioni parlamentari con il rischio concreto che queste, con la scusa di combattere l’odio, esercitino in realtà una vera e propria censura contro chi dissente dal pensiero unico comune e dal “politicamente corretto” oggi in voga. Ma di questo non voglio parlare, perché ho già chiarito la mia posizione in altri post.
Due sono invece le osservazioni che intendo fare a proposito di questo fenomeno. La prima è che l’odio contro il “nemico”, che certe ideologie tengono in vita anche quando non esiste più proprio per scatenare il proprio livore contro chi la pensa in modo diverso, è sempre esistito ed anche in forma più virulenta di quello di oggi; la differenza è che adesso c’è internet, e quindi ciò che prima si diceva al bar, in casa o su una panchina dei giardini pubblici adesso si diffonde a macchia d’olio e moltissime persone ne vengono a conoscenza. Ma ciò non significa che oggi ci sia più odio politico di quanto non ce ne fosse prima: basti pensare agli anni ’70 dello scorso secolo, che io grazie alla mia età ho vissuto, dove si assisteva continuamente a scontri di piazza ed ad una violenza fisica che arrivava persino all’omicidio, molto peggio quindi di adesso quando ci si limita all’insulto telematico. Con ciò non voglio assolutamente giustificare l’inciviltà e la rozzezza di coloro che si servono dei social per insultare e minacciare, scambiando le convinzioni politiche personali con il tifo da stadio; è un fenomeno riprovevole, questo è certo, ma non paragonabile alla violenza degli “anni di piombo” ed al terrorismo che purtroppo abbiamo vissuto nel nostro Paese. La differenza è che oggi tutto si diffonde ampiamente e rapidamente, ma non credo che l’intensità del fenomeno sia maggiore di quella precedente. E’ un po’ come il bullismo nelle scuole: oggi sembra più grave perché la diffusione di internet e dei social costituisce una gogna mediatica per certi ragazzi perseguitati che, in alcuni casi estremi, ha provocato persino dei suicidi; ma la derisione del diverso, la minaccia e persino la scazzottata fuori dai cancelli della scuola sono cose sempre esistite, direi anzi che ai tempi miei erano più marcate e grossolane di quelle attuali.
La seconda considerazione che vorrei fare riguarda la causa, l’origine di tutto questo odio sui social. Lo scarso controllo che c’è di internet da parte degli organi giudiziari, l’incuria dei gestori dei social che lasciano passare di tutto (non sempre, ma qui il discorso darebbe lungo e quindi lascio perdere) e la falsa credenza di poter restare anonimi hanno provocato in molte persone una vera e propria liberazione da quei deterrenti sociali, come l’urbanità e la buona educazione, che tutti siamo costretti a mantenere nel dialogo “faccia a faccia” con i nostri simili. Se abbiamo di fronte materialmente un’altra persona, pur in forte disaccordo con noi, tendiamo a sostenere magari animosamente le nostre convinzioni, ma non arriviamo quasi mai all’insulto volgare o alla minaccia, a meno che gli interlocutori non siano dei veri e propri “burini”, come dicono a Roma; dietro lo schermo di un computer invece, proprio perché l’avversario non è fisicamente presente, molte persone lasciano cadere tutti i freni inibitori e si sentono autorizzati a scatenare tutti i propri più bassi istinti. Torna a proposito, in questa questione, quel che sosteneva Pirandello, che cioè ciascuno di noi non è se stesso quando vive in società, ma porta una maschera fatta di perbenismo, di ipocrisia, di succube accettazione delle cosiddette “buone norme” del vivere sociale. Ma ecco che oggi, con l’avvento di internet e dei social, è diventato possibile esprimersi come parlando da soli ad una folla di ascoltatori, cioè avere un pubblico che legge quel che scriviamo, cosa che un tempo era riservata agli scrittori o ai grandi oratori che parlavano in pubblico; diventa quindi possibile gettare la maschera e tirar fuori quell’acredine, quella dose di rabbia e di violenza che alberga in ciascuno di noi. Di qui l’entità di un fenomeno che va sempre crescendo, come io stesso constato in base agli insulti che ricevo quasi ogni giorno a motivo delle mie idee non allineate con il pensiero unico comune; ma a tutto si fa l’abitudine, anche alla maleducazione altrui, e quindi io mi limito a rispondere in molti casi, giacché non ho la virtù cristiana di chi porge l’altra guancia, oppure a cestinare certi commenti al blog che non meritano di essere conosciuti.
Io non credo che il fenomeno possa essere eliminato o ridotto, a meno che non si voglia chiudere definitivamente tutte le porte e impedire alle persone di far sentire la propria voce sui social, i forum e gli altri luoghi virtuali dove a ciascuno è permesso di esprimersi. Contrastare l’odio con le commissioni parlamentari è inutile, perché non si possono conculcare per legge i sentimenti umani. Si può far rispettare le leggi con lo strumento giudiziario, ma l’operazione è estremamente difficile perché si dovrebbero incriminare centinaia di migliaia, se non milioni di persone. Resta il buon senso e la cultura, gli unici strumenti che possono veramente circoscrivere questo stato di cose; ma è difficile fare appello a questi valori in una società dove la scuola è continuamente svalutata da riforme assurde e dove i cattivi esempi vengono dall’alto. Quando un miserevole buffone fonda un partito sulla base del “vaffa…” è difficile poter sperare in qualcosa che assomigli anche lontanamente all’umanità ed alla cultura.

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E’ uscito il mio nuovo libro!


Ieri 23 ottobre 2019 è uscita a Milano, presso la casa editrice “La vita felice”, la mia edizione dell’Hecyra (cioè “La suocera”) di Terenzio, poeta comico romano vissuto tra il 195 e il 159 avanti Cristo. L’opera consiste in un’introduzione all’Autore, con particolare riguardo al problema della sua originalità e dei suoi ideali, cui segue la traduzione (con il testo latino a fronte) ed infine una serie di note esplicative. Vi sono anche brevi accenni alla tradizione manoscritta, cioè i codici medievali ed umanistici che ci hanno tramandato la commedia, ed uno schema dei vari metri che il poeta ha impiegato nel suo lavoro. Si tratta del mio undicesimo libro, il primo composto dopo il pensionamento.
Al di là della soddisfazione personale che accompagna ogni pubblicazione, stavolta ho anche ricevuto una gratificazione in più: le congratulazioni ed i riconoscimenti pervenutimi da parte degli amici di Facebook, sia quelli del mio profilo che quelli del gruppo da me fondato, che si intitola “Docenti di materie classiche”. Inutile negare che tutto ciò fa piacere, è forse il miglior riconoscimento per chi, da modesto studioso ed ex professore di liceo, intende ancora – nonostante l’età – realizzare un principio mirabilmente espresso da Cicerone, secondo cui la cultura è utile e ammirevole soltanto quando chi ce l’ha la mette a disposizione degli altri. Ed io, che non ho mai smesso di studiare, approfondire e pubblicare anche durante gli anni in cui ero in servizio a scuola, tanto più intendo farlo adesso; e non soltanto perché quando si è in pensione occorre in qualche modo riempire le giornate, ma anche perché questo è un modo per sentirsi ancora vivo e utile alla comunità. Perciò intendo continuare il lavoro di ricerca finché le forze me lo consentiranno, non dedicandomi però a studi astrusi di tipo scientifico, ma a pubblicazioni di tipo divulgativo, con un linguaggio comprensibile a tutti e tale da avvicinare ai classici anche persone che finora ne sono tenute lontane.
Parliamo però brevemente di questa Suocera, la donna che dà il titolo alla commedia di Terenzio. Con lei l’Autore, vissuto a Roma in un periodo in cui la nuova cultura greca si stava affermando e si andava sovrapponendo agli antichi valori romani del cosiddetto mos maiorum, ha voluto sostanzialmente rivalutare la dignità femminile attraverso il ribaltamento di un luogo comune che esiste ancor oggi, quello cioè secondo cui tutte le suocere sarebbero invadenti e autoritarie, specie con le loro nuore. Quella di Terenzio è invece una bravissima donna che altro non pensa che al bene della famiglia; e quando, in assenza del figlio, la nuora fugge dalla casa di Sostrata (così si chiama infatti la protagonista) per tornare da sua madre e tutti la accusano di esserne la causa, lei rinuncia a difendersi ed arriva anche a manifestare l’intento di ritirarsi in campagna con il marito per lasciare la sua casa a disposizione degli sposi e non essere loro d’intralcio (cosa, a quei tempi, pressoché inconcepibile). In realtà lei è del tutto innocente, perché la fuga della ragazza è dovuta ad un’altra ragione, l’essere cioè incinta di un bambino concepito in seguito ad una violenza avvenuta prima del matrimonio. Poi alla fine tutto si sistemerà, perché si scoprirà che colui che compì quella violenza non è altri che il legittimo marito della ragazza; ma questo lieto fine, inevitabile perché rientra nelle convenzioni del genere letterario della commedia, interessa poco a Terenzio, giacché ciò ch’egli intende studiare è l’animo umano, così come si manifesta nei rapporti familiari e sociali. La diffusione di un preciso messaggio culturale interessa al poeta assai più della comicità e del divertimento del pubblico: infatti questa, a quanto ne sappiamo, è l’unica commedia romana che fece fiasco per ben due volte, quando il pubblico abbandonò il teatro per seguire altri spettacoli, e soltanto alla terza rappresentazione poté essere portata a termine. Per gli spettatori del tempo, abituati alla spumeggiante comicità di Plauto, questa commedia era troppo intellettuale e poco esilarante; ma Terenzio non si dette per vinto, finché non ebbe raggiunto il successo.
La commedia latina, com’è noto, ricalca quella greca per lo schema compositivo, i caratteri dei personaggi ecc.; ma Terenzio si premura soprattutto di adattare alla società romana i contenuti degli originali. Così, in questo caso, egli si preoccupa di un problema sociale finora quasi assente dal panorama ideologico romano, quello cioè della condizione della donna. Nella nostra commedia questo intento è evidente non solo nella figura di Sostrata ma anche in quello di Criside, una “cortigiana” (cioè una prostituta di lusso) che Panfilo, il protagonista maschile, frequentava prima di sposarsi. Nell’immaginario popolare le donne di questa categoria avevano una considerazione del tutto negativa, perché si attribuivano loro tratti stereotipi come la sfrontatezza, l’avidità di denaro, la povertà intellettuale; invece Terenzio ci presenta una cortigiana di segno del tutto opposto, perché è proprio lei, che pure avrebbe avuto interesse a che il matrimonio di Panfilo andasse a rotoli, che fa di tutto per riavvicinare gli sposi e ci riesce mediante un segno di riconoscimento. Sotto questo profilo l’opera terenziana è profondamente innovativa, non certo dal punto di vista politico (egli non pensò mai ad un mutamento dell’ordine costituito), bensì da quello socio-culturale, nel tentativo di ribaltare certe credenze e luoghi comuni non più in linea con la nuova etica ch’egli contribuì a creare con la cosiddetta’”humanitas”, la concezione cioè dell’uomo non solo come cittadino dedito alla comunità ma anche come individuo, depositario di sentimenti e di passioni che dovevano essere volte al bene. Perciò teorizzò e descrisse rapporti familiari e sociali (ad es. tra padre e figlio, tra padrone e servo ecc.) che non fossero più verticali, dove l’uno è sottoposto all’altro, ma orizzontali, dove le persone sono su un piano di sostanziale parità e di reciproca solidarietà. Per questi motivi io amo particolarmente questo poeta, ho tradotto tutte le sue sei commedie e ne ho già pubblicate tre. Spero che in futuro anche le altre tre possano aggiungersi all’elenco, se non altro perché, come dicevo prima, quando si è in pensione occorre in qualche modo riempire le giornate.

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La civiltà dell’odio

Dispiace, purtroppo, constatare che nella nostra società la diffusione di internet e dei social ha portato un inasprimento dei rapporti sociali ed una larga diffusione della volgarità, dell’insulto e dell’odio, molto più facilmente esprimibile da chi sta dietro una tastiera rispetto a chi parla di fronte ad un avversario fisicamente presente di fronte a lui. L’istinto di violenza, di aggressività, di affermazione incondizionata della propria personalità e delle proprie idee ha trovato largo spazio con i “social” di oggi ed anche nel dibattito politico dei cosiddetti “talk show” televisivi, dove la litigiosità è molto aumentata negli ultimi anni. Di per sé la cosa potrebbe avere anche un lato positivo, nel senso che la sincerità, il dire cioè apertamente ciò che si pensa non è un male, ed è certo migliore dell’ipocrisia di chi adula gli altri o nasconde il proprio pensiero per fini personali, fingendo cortesia e benevolenza. Io ricordo con piacere una commedia di Molière, “Il misantropo”, dove il protagonista non è definito tale perché odia la compagnia degli altri, ma perché ha il coraggio di esprimere le proprie convinzioni e le proprie critiche nei confronti del prossimo, come quando dice apertamente ad un sedicente poeta che le sue poesia non gli piacevano affatto, suscitandone ovviamente il risentimento. Però la sincerità ed il coraggio delle proprie idee sono cosa diversa dalla maleducazione, dalla volgarità e dall’esternazione dell’odio a cui purtroppo assistiamo oggi, in un periodo in cui si sono perduti i giusti valori ed i giusti principi che dovrebbero regolare i rapporti umani.
Vediamo un po’ questo problema dell’odio sociale in politica e sui social. Per il primo ambito sarà sufficiente un solo esempio. Nei cinque anni precedenti le ultime elezioni (2013-2018) il Partito Democratico ha avuto la responsabilità del governo, e ha dovuto sopportare non solo le legittime critiche che l’opposizione per sua natura deve esprimere, ma anche i più volgari insulti da parte del Movimento Cinque Stelle, la cui volgarità e ignoranza è apparsa in ogni occasione: i partiti di governo (il PD soprattutto ma anche gli altri, per non parlare di Berlusconi) hanno ricevuto tutti i peggiori insulti, tra cui quello di essere tutti corrotti, ladri, mafiosi ecc., per dire solo alcuni dei titoli che i grillini hanno rivolto agli avversari. I partiti al governo sono stati accusati di aver rovinato l’Italia e aver condotto i cittadini alla fame, cosa che in verità era del tutto falsa, perché le condizioni di vita del nostro Paese erano e sono ancora buone e molto migliori di quelle di altre nazioni europee. Io, che non sono favorevole né al PD che ai Cinque Stelle, di fronte a quel volgare succedersi di insulti che la banda dei seguaci del buffone genovese lanciava contro il governo, dovetti prendere le parti del PD e soprattutto di Renzi, una persona che ha fatto sì molti errori (v. la legge 107 sulla scuola) ma che ha cercato anche con sincerità ed impegno di fare qualcosa di positivo per il nostro Paese. Però, adesso che le ultime elezioni hanno cambiato il quadro politico italiano e che al governo ci sono (malauguratamente!) i Cinque Stelle, il PD sta facendo lo stesso errore che prima facevano i suoi avversari, lasciandosi guidare dall’odio e ripetendo le stesse assurdità che qualche anno fa dicevano loro, cioè che il governo sta portando l’Italia alla rovina, che ci saranno pesantissime tasse aggiuntive, che moriremo tutti di fame ecc. Anche loro adoperano insulti gratuiti (oggi il PD ha definito “indegno” il ministro Salvini) e montano una campagna di odio che non fa certo onore a nessuno. Se il PD vuole con ciò vendicarsi degli insulti subiti quando era al governo, ha sbagliato strada: convinti come sono, a sinistra, della loro superiorità culturale sugli avversari, non dovrebbero usare i loro stessi metodi ed il loro stesso linguaggio, altrimenti si mettono essi stessi alla pari con i Cinque Stelle, che sono difficilmente superabili sul piano dell’insulto e della volgarità.
Sono tuttavia i cosiddetti “social” come Facebook il campo d’azione dove l’odio e l’insulto si diffondono con maggior vigoria grazie soprattutto al relativo anonimato che l’uso privato di un computer o uno smartphone sembrano consentire. In realtà chi offende o diffama altre persone può essere rintracciato e denunciato, tramite la Polizia Postale ed i mezzi di ricerca elettronici che esistono adesso, ma molte persone, pur offese, rinunciano a intraprendere un iter giudiziario lungo e fastidioso e con il rischio di non ottenere nulla; perciò, nella maggior parte dei casi, si limitano a rispondere agli insulti con altrettanti insulti ancor più sanguinosi, credendo in questo modo di vendicarsi adeguatamente e finendo invece per mostrare un comportamento infantile e indegno di persone civili. Avviene così che sui social vengono scatenate vere e proprie campagne di odio contro qualcuno solo perché esprime idee diverse dalle nostre, e queste campagne sono spesso organizzate scientemente da associazioni, partiti o organi di informazione allo scopo di screditare gli avversari e farli passare per quello che non sono. Le accuse di questo genere si incrociano vicendevolmente, e ciascuno accusa l’altro di essere un “hater”, cioè un odiatore del prossimo, affibbiandogli etichette infamanti. Così l’odio, anziché diminuire, aumenta sempre più, perché chi si sente offeso – e ritiene ingiuste le accuse che riceve – è portato a rispondere con lo stesso linguaggio, e così si forma una spirale di intolleranza e di incomprensione che non si ferma più. Ho usato consapevolmente il termine “incomprensione” perché va anche detto che è difficile giudicare il pensiero di una persona (o peggio, la persona stessa) da ciò che scrive in un commento di Facebook: spesso si viene fraintesi, ciò che viene scritto con un senso viene recepito in un altro totalmente diverso, e l’equivoco non fa altro che inasprire un clima già notevolmente alterato.
A questo punto non posso però evitare, prima di concludere, di esprimere un mio giudizio sul dibattito politico attuale. Di recente la sinistra, servendosi anche di trasmissioni televisive come “Che tempo che fa” di Fabio Fazio, ha lanciato le solite accuse di “razzismo” e di “fascismo” contro tutti coloro che non approvano l’arrivo incontrollato dei migranti stranieri nel nostro Paese, servendosi anche di “intellettuali” come Saviano, Canfora, Cacciari ed altri, lasciati parlare senza contraddittorio e liberi di accusare e di insultare persino un ministro della Repubblica, Matteo Salvini, indicato come il creatore ed il fomentatore della campagna di odio razziale che, a loro dire,ci sarebbe in Italia contro gli stranieri e i “diversi” di ogni genere. A me la cosa fa sorridere per due motivi: primo, perché viene spacciato per “razzismo” ciò che non lo è affatto, in quanto la preoccupazione per il diffondersi della criminalità slava, romena, albanese, nigeriana ecc. in Italia non può essere definita razzista se non dalla malafede di coloro che hanno qualche tornaconto personale nell’accoglienza di questi stranieri che vengono qua a delinquere perché le nostre leggi sono assai più miti e lassiste di quelle dei loro paesi di origine. Il razzismo è cosa ben diversa e s’identifica con il considerare la propria razza come geneticamente superiore alle altre come avveniva, ad esempio, nella Germania nazista; ma chi subisce o denuncia i furti in villa dei criminali slavi o i ROM che rubano sugli autobus e nelle strade non lo fa perché si sente geneticamente superiore a loro, ma perché si preoccupa della propria sicurezza. Chi non approva che gli immigrati di colore siano mantenuti a spese nostre negli alberghi e vadano tutto il giorno in giro con lo smartphone senza fare nulla mentre i nostri pensionati vivono a stento con 500 euro al mese di pensione non lo fa perché si sente superiore agli immigrati, ma perché questo stato di fatto è profondamente ingiusto, e grida vendetta il fatto che gli stranieri vengano preferiti agli italiani in tanti aspetti della vita sociale, compresa l’assegnazione delle case popolari. Chi dice “prima gli italiani” ha perfettamente ragione, perché così fanno tutti gli altri Stati europei e occidentali.
C’è però un secondo motivo che fa indignare. La nostra sinistra accusa Salvini e la destra di aver creato una campagna di odio quando sono proprio loro invece, i vari partiti e pensatori di sinistra, che hanno fondato sull’odio e sul disprezzo per il “nemico” la loro azione politica, dal ’68 fino ad oggi. Io, che purtroppo ho una certa età, ricordo benissimo la “caccia al fascista” degli anni ’70, quando diversi giovani di destra furono addirittura assassinati; in tempi più recenti sono sotto gli occhi di tutti le campagne di fango mediatiche e giudiziarie lanciate contro Berlusconi, portato in giudizio con accuse assurde nel tentativo di eliminarlo con quel mezzo dalla scena politica perché non si era in grado di batterlo alle elezioni; ed ancora più di recente, mi piace ricordare la pletora di infamie e insulti lanciata sui social e nel dibattito politico contro Salvini, che ha la sola colpa di voler difendere i confini del suo paese e di riconoscere agli italiani i loro diritti. A questo si aggiunge la continua ricerca del “nemico” che continua ancora oggi da parte della sinistra, che risuscita di continuo il fascismo finito storicamente 75 anni fa per avere qualcuno contro cui scagliare il proprio livore. Salvini, il cosiddetto “razzismo” e il cosiddetto “fascismo” sono quello che per i cristiani osservanti è il Maligno, il Diavolo, il “Nemico” del bene per antonomasia, che con la sua presenza giustifica e autorizza i crimini che la Chiesa Cattolica ha compiuto per secoli. Quindi, nel caso della campagna di odio che si va diffondendo purtroppo nel nostro tempo, non credo che esista nessuno che possa dare lezione ai suoi avversari, e mai come oggi trova piena applicazione quel detto popolare che dice “Il bue dà del cornuto all’asino”, oppure, come diceva mia nonna, “Il mugnaio accusa gli altri di essere sporchi di farina”.

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Recensione a “Per le nostre radici” di Andrea Del Ponte


Tra i molti libri ed articoli che affrontano oggi la dibattuta questione dell'”utilità” dello studio delle lingue classiche, particolare rilievo assume un volume molto recente (pubblicato nell’agosto 2018 dall’editrice “Aracne” di Roma) che già dal titolo, “Per le nostre radici”, lascia intendere quale ne sarà l’argomento. L’Autore è un attivissimo docente genovese, il prof. Andrea Del Ponte, che io ho conosciuto tramite Facebook e con il quale ho subito familiarizzato sia per l’entità dei nostri comuni interessi sia per un’impostazione critica e ideologica che non si scosta di molto dalla mia. In questo ed in altri casi, ad onta di tutto ciò che di negativo si dice e si scrive sui nuovi mezzi di comunicazione, dobbiamo riconoscere che la tecnologia che ha creato internet ed i “social” può essere utile per fare nuove conoscenze ed istituire un proficuo confronto di opinioni.
Il libro testimonia senza dubbio il grande amore che Del Ponte nutre per le sue come per le nostre radici, ossia per le lingue classiche, ed in particolare la lingua latina cui il libro è essenzialmente dedicato; e come il sottoscritto e tanti altri studiosi, egli sente la necessità di difendere e giustificare lo studio e la conoscenza di queste nostre radici culturali, senza ovviamente escludere altre discipline ed altre conoscenze, che s’innestano nel tronco principale – quello classico – della nostra formazione di moderni uomini e donne dell’Occidente, quell’Abendland che si è fondata culturalmente per secoli sugli studi umanistici. Ma oggi più che mai la liceità degli studi classici è messa in dubbio dalla mentalità economicista e utilitaristica delle società moderne, ed ecco quindi la necessità di ribadire concetti e convinzioni che in passato nessuno avrebbe mai messo in dubbio. A tutti noi, nella nostra normale attività di docenti di Liceo, è capitato di sentirsi chiedere da futuri studenti, genitori o persone comuni: “A cosa serve il latino?” “A cosa serve il greco?”. Domande di questo genere, che non debbono essere subito liquidate come frutto di ignoranza, hanno bisogno di una risposta, se vogliamo che la tradizione umanistica continui a vivere e che il Liceo Classico, principale fucina di questi studi, non debba chiudere i battenti.
Il libro di Andrea Del Ponte si divide in tre capitoli. Il primo, “Radici storiche e attualità della Latinitas”, ricorda come la lingua latina andò affermandosi nel corso dei secoli e non perse mai la sua identità pur trasformandosi nelle varie lingue romanze, per studiare e comprendere le quali è necessario il continuo richiamo alla lingua base, mentre vani sono stati i tentativi di sostituirla con l’utopia di una lingua universale, come il famoso “esperanto” che in realtà si è rivelato un fallimento; nonostante quindi la minore conoscenza effettiva del latino che caratterizza i nostri tempi rispetto al passato, la lingua di Roma ha continuato ad affermarsi presso la Chiesa cattolica, la scuola, l’alta cultura degli organismi statali e delle Università (che spesso utilizzano motti e frasi latine) e persino nella canzone. Per quanto riguarda in particolare la scuola, il nostro Paese ha il vanto del maggior numero di corsi dove il latino è obbligatorio, più il Liceo Classico (circa il 6,7% del totale degli studenti) dove si studia anche il greco. Qualcuno vorrebbe rendere opzionali queste materie, così come accade in alcuni paesi europei, e l’Autore del libro è contrario a questa ipotesi; e qui io non concordo pienamente con lui, convinto come sono che nel nostro ordinamento, specie dopo la cosiddetta “riforma Gelmini” vi siano degli indirizzo di studio (v. il liceo linguistico) dove il latino ha uno spazio talmente limitato che sarebbe preferibile abolirlo e sostituirlo con letture di autori latini (e perché no anche greci) in traduzione. Come già altri studiosi hanno detto in passato, anch’io sono convinto che i molti insuccessi scolastici in questa materia dipendono anche dal fatto che sono in troppi a studiarla, anche studenti che per essa non hanno alcun interesse o propensione.
Il secondo capitolo del volume, per me il più significativo ed interessante, ha per titolo “Il dibattito sull’utilità del latino” ed è inizialmente una rassegna cronologica di opinioni e pensieri sull’argomento, dai tempi del conte Monaldo Leopardi (padre di Giacomo) fino alla più recente attualità. Tutte le voci testimoniate in questa rassegna ribadiscono, da vari punti di vista e con diverse motivazioni, l’utilità e la necessità degli studi classici e quindi, senza richiamarle una per una, agiscono nell’unica direzione alla quale anche noi ci conformiamo. Ma poi, nella seconda parte del capitolo, Del Ponte presenta invece le voci dei detrattori degli studi classici, che possono suddividersi – per comodità espositiva – in esterni ed interni. Per quanto riguarda i primi non c’è bisogno di fare alcun nome particolare: sono tutti coloro che si sono lasciati trascinare dal potere assoluto della tecnocrazia, del neoliberismo e del neocapitalismo, cioè da una mentalità che mira soltanto al profitto e al consumismo, un “mostro” che travolge le stesse legitime istanze nazionali con l’arma micidiale dello spread e degli interessi sul debito, riducendo tutta la realtà ai valori materiali e rendendo quindi difficile per i giovani, minacciati dallo spettro sempre più concreto della disoccupazione, intraprendere gli studi umanistici. L’aziendalismo e l’economicismo di oggi hanno mortificato tutti quei valori umani e culturali in cui per secoli si è fondata la formazione dei giovani nel nostro Paese, e tale forma mentis è purtroppo entrata anche nella scuola stessa da quando si è cominciato a concepirla come un’azienda alla pari delle altre, da quando la forma conta più della sostanza, l’immagine esterna più della valenza formativa, da quando cioè il preside si chiama “Dirigente” e gli alunni “utenti”, come i consumatori di gas o di energia elettrica. Combattere questa aridità mentale che incensa solo i valori materiali, diametralmente opposti a quelli umanistici, è molto difficile; ma per chi sostiene gli studi classici c’è da fare i conti anche con la contestazione interna, cioè quei professori, pedagogisti o intellettuali che, pur sostenendo di fondo lo studio del latino e del greco, auspicano però innovazioni anche sensibili nelle metodologie di studio e di insegnamento; c’è infatti, sotto questo punto di vista, un dibattito che dura da tempo tra gli accesi conservatori che non vogliono cambiare nulla rispetto all’esistente (compresa la traduzione dal greco e dal latino) e coloro che invece, pur salvaguardando lo studio della lingua e l’analisi diretta dei testi, intendono comunque adeguare gli studi classici agli studenti di oggi, che sono molto meno abili – per una serie di ragioni di cui spesso ho parlato in questo blog – nell’esercizio di traduzione. La contesa si è accesa soprattutto intorno alla seconda prova scritta dell’esame di Stato del Liceo Classico, che in effetti quest’anno è cambiata e non prevede più soltanto la traduzione ma una conoscenza più ampia e variegata dei testi e della storia letteraria. Sotto questo aspetto il collega Del Ponte riconosce che il grammaticismo e l’eccessivo conservatorismo metodologico possano danneggiare gli studi, ma ribadisce la centralità della traduzione e adduce tutta una serie di valide ragioni; dal canto mio però io non concordo totalmente con lui ma mi avvicino alle posizioni del prof. Bettini che da anni conduce una battaglia contro l’analisi testuale fine a se stessa. Ritengo anch’io che lo studio linguistico non vada abbandonato, ma vada affrontato in modo più agevole e avveduto, eliminando la pedanteria di coloro che insistono per mesi su regole e regoline che magari gli studenti non incontreranno mai nel percorso successivo degli studi; sono poi anche convinto che le conoscenze di tipo letterario, storico, artistico ecc. non siano da porre su di un piano inferiore rispetto a quelle linguistiche, che oltretutto con il tempo finiranno per essere dimenticate. Non tolgo nulla al valore formativo e culturale della traduzione dal greco e dal latino, ma ribadisco che non bisogna conferirle un ruolo determinante ed esclusivo nella valutazione degli studenti, che certo tra vent’anni ricorderanno meglio il pensiero di Seneca o il metodo di Tacito rispetto all’ablativo assoluto o la consecutio temporum.
Il terzo capitolo del libro di Dal Ponte presenta, in ordine alfabetico, una rassegna di istituzioni, usi e costumi o situazioni contingenti di cui i vari scrittori latini, compresi quelli medievali e moderni, si sono occupati. Ciò dimostra quanto sia errato e assurdo definire il latino come “lingua morta”, quando invece è più viva che mai e continua a vivere insieme a noi nell’arte, nella scienza, nella liturgia ecc., benché molti dei moderni non se ne accorgano neppure. Il mantenimento degli studi classici è quindi non solo legittimo, ma addirittura indispensabile per farci comprendere il mondo in cui viviamo, le cui “radici” – per rifarci al titolo – affondano profondamente nel terreno dei secoli fino ad arrivare a quella Roma che dominò il mondo non solo militarmente ma anche culturalmente. L’essenziale è che si abbandoni una volta per tutte la categoria del “servire” inteso in senso praticistico, anche perché in questa specifica accezione nessuna disciplina servirebbe veramente, perché si può vivere anche senza conoscere non solo il latino, ma la letteratura italiana, la storia, la geografia, le scienze ecc. Come dice Nuccio Ordine, un altro studioso che ho recensito in questo blog e che si è occupato estesamente del problema dell'”utilità” del sapere, sarà proprio l'”inutile” a salvare l’umanità dalla nuova barbarie che, in nome del denaro e del consumismo, cerca di estendere ovunque i suoi artigli.

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Il blog va sempre peggio

Più di un anno fa scrissi un post per festeggiare i 200.000 ingressi sul mio blog, benché neanche allora fossi del tutto contento su come questa mia iniziativa fosse stata accolta. Ora però, che ho raggiunto le 300.000 visite, c’è ben poco da festeggiare: il numero mensile di visite, quest’anno, è diminuito quasi tutti i mesi rispetto ai numeri del 2017, ed i commenti si contano sulla punta delle dita di una mano. Non solo: i commenti stessi, oltre ad essere pochissimi, provengono sempre dalle stesse persone, da quei quattro o cinque che mi seguono con più assiduità, mentre negli anni precedenti ricevevo molte più opinioni e critiche, sia positive che negative, da un numero molto maggiore di lettori interessati a ciò che scrivevo. Che cosa è successo? Proverò qui a fornire qualche spiegazione di questa lenta agonia del mio blog, della quale mi dolgo non poco perché ritenevo che un blog serio, che parlasse di problemi reali senza contenere le spiritosaggini e le vacuità della maggior parte di coloro che scrivono sul web, avrebbe dovuto avere un seguito ben maggiore. Evidentemente mi sbagliavo.
Una delle principali cause del calo d’interesse per i blog in genere è probabilmente la diffusione dei social come Facebook, Instagram ecc., per cui tante persone preferiscono scrivere lì le loro opinioni (spesso anche in forma volgare, con insulti e turpiloquio), visto che certi messaggi vengono fatti passare tranquillamente mentre viene cacciato chi usa qualche termine non “politically correct”. In un blog invece, generalmente, il titolare effettua una moderazione dei commenti ed esclude quelli offensivi o fuori argomento; è successo a volte anche a me, sebbene piuttosto di rado perché, come ho detto, di commenti ne ricevo pochissimi e sempre da parte delle stesse persone. Comprendo che i social siano più interessanti di un blog, dal momento che trattano vari argomenti più o meno banali e vi si può interagire con maggiore facilità.
Va anche detto che i blog su internet sono moltissimi, ma la maggior parte di essi si occupa di questioni piuttosto futili e superficiali: ve ne sono sulla moda e sul trucco (ovviamente amministrati da donne), sugli hobbies più diffusi, sulle vicende sentimentali di qualcuno e gli aspetti più pruriginosi delle relazioni amorose. Questi ultimi sono frequentati da una massa di “voyeurs” che hanno un interesse morboso per certi particolari che dovrebbero restare privati e non essere resi pubblici sulla rete internet. Il mio blog, a differenza di tanti altri, si occupa di cultura, sia attraverso articoli che parlano di scuola e insegnamento, sia mediante recensioni di libri classici o considerazioni sulla politica e la società del nostro tempo. Evidentemente questi argomenti “seri” interessano molto poco la massa degli internauti di internet, e di ciò non mi stupisco vista l’ignoranza e la superficialità attuali di cui tante volte, proprio su queste pagine, mi sono lamentato. Oggi l’italiano medio non ha più tempo per pensare, riflettere, osservare la realtà in modo critico; basta avere lo smartphone, divertirsi e fare le vacanze in qualche località balneare e guardare una televisione sempre più stolida e di basso livello. Non solo la cultura non si mangia, come disse qualcuno, ma è pure inutile.
Non so se ci sia qualche altro motivo per cui il mio blog è in decadenza, e le visite diminuiscono di giorno in giorno. Con l’attivazione di esso io speravo di poter instaurare un dialogo costruttivo su problemi di un certo rilievo che dovrebbero interessare chi legge ed anche, lo confesso, di poter aver contatti con persone che occupano ruoli dirigenziali per poter influire su certe scelte, come quelle sulla scuola, che vengono prese spesso in modo autoritario e impreciso, senza consultare chi conosce veramente quell’ambiente. Nulla di ciò che speravo si è verificato, e quindi sto seriamente pensando di terminare questa esperienza che dura dal 2012 e di chiudere definitivamente il blog. Mi riservo un altro po’ di tempo per decidere e poi vedrò il da farsi. Probabilmente, visto come vanno le cose, mi sposterò su Facebook, dove già mi trovo ma come ospite, senza sentirmi in casa mia, e debbo stare pure attento a ciò che dico perché mi hanno già sospeso più volte.

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Società della comunicazione o dell’incomprensione?

Ognuno sa quanto i cosiddetti “social” abbiano preso campo oggi, al punto che molte persone utilizzano praticamente soltanto questi come mezzi di comunicazione, al punto da divenirne dipendenti: i giovani soprattutto sono sensibili al fenomeno, come possiamo notare, se è vero che alcuni di loro si rinchiudono nella loro stanza e rinunciano addirittura ad uscire e a costruire amicizie reali per corrispondere solo con quelle virtuali. Ormai tutti noi, e non solo i giovani, viviamo in questa atmosfera e comunichiamo con gli altri attraverso Facebook, Twitter, Instagram e altri social di questo tipo; se poi dobbiamo scrivere a qualcuno utilizziamo l’e-mail, non ci serviamo più della carta come usava un tempo. Il telefono resta sempre di lago uso, ma più per scambiare messaggi e consultare i social che per parlare a viva voce.
Quella che viviamo oggi è dunque l’era della comunicazione, in cui esistono teoricamente molte più forme di contatto umano di quanto accadeva qualche decennio fa. Eppure, stando almeno a quella che è la mia impressione, non mi sembra che queste maggiori opportunità abbiano migliorato di molto la vita di ciascuno di noi, ed al proposito vorrei fare due osservazioni. La prima è che è molto aumentata la percentuale delle persone che vivono in solitudine, nonostante abbiano i computers, gli smartphone e quant’altro; è una solitudine in parte volontaria, nel senso che molti si isolano dalle relazioni umane rinchiudendosi in casa propria, ma in parte è anche forzata, perché è proprio nell’era delle comunicazioni e delle informazioni che tante persone non riescono a trovare vere amicizie o relazioni sentimentali. Sembra un assurdo ma è così: un tempo, quando non esistevano questi strumenti moderni, quasi tutti avevano amici da frequentare e si formavano una vita di coppia che sfociava generalmente nel matrimonio; oggi invece, quando sembrano aumentate così tanto le occasioni di conoscenza, tante persone vivono in isolamento e aumentano sempre più i cosiddetti “singles”, cioè uomini e donne che non hanno una relazione sentimentale stabile. E se questa condizione a volte è volontaria e dovuta a ragioni di lavoro o altro, molto spesso invece coloro che restano in solitudine non lo fanno per scelta, ma non riescono ad uscire dall’isolamento nonostante tutte le opportunità comunicative che il mondo attuale sembra loro offrire.
Si tratta di un fenomeno difficile a spiegarsi, ed io non sono un sociologo. Quello di cui desidero parlare riguarda invece la seconda osservazione che vorrei fare a questo riguardo. I social danno a tutti (purtroppo, aggiungo io!) la possibilità di esprimersi, di commentare qualunque notizia o avvenimento, di stabilire contatti con persone conosciute o sconosciute. Ma questi contatti portano spesso all’incomprensione, ossia a non intendere la vera sostanza di ciò che è stato scritto. Mi spiego. Se due persone parlano a voce e sono fisicamente l’una accanto all’altra, in genere riescono a cogliere lo spirito e l’intenzione con cui ogni frase è stata pronunciata; nell’esposizione orale dei concetti infatti, come ci insegna la retorica classica, non conta soltanto ciò che viene detto, ma anche “come” viene detto, cioè il tono della voce, l’espressione del volto del parlante, la gestualità. Così una frase teoricamente offensiva, come ad esempio “sei uno stupido”, potrebbe non essere intesa come tale se pronunciata in tono scherzoso, con volto disteso e con un’amichevole pacca sulle spalle, il che potrebbe far intendere a chi è così apostrofato che colui che l’ha pronunciata aveva in realtà intenzione di ammonirlo benevolmente, non di insultarlo. Se invece quella stessa frase viene scritta e letta così com’è, non può essere intesa altrimenti che come offensiva.
Ecco perché dico che la grande opportunità comunicativa che offrono i social e gli altri elementi della rete (forum, questionari, blog ecc.) è spesso ingannevole, ed è molto alta la possibilità di essere fraintesi, perché quando scriviamo un commento su Facebook, ad esempio, non sappiamo come sarà recepito da chi lo leggerà. A me personalmente è accaduto molte volte di aver espresso una mia opinione con una certa intenzione e che poi il mio pensiero sia stato inteso in modo opposto, ed è successo anche, di recente, di aver espresso considerazioni generiche, senza alludere a nessuno in particolare, ma che invece qualcuno si sia risentito come se le mie affermazioni fossero state direttamente rivolte a lui. Purtroppo la parola scritta, presa da sola senza la presenza fisica di chi l’ha espressa, presenta questo rischio. Mi si dirà che il problema c’è sempre stato, perché la corrispondenza privata e le opere scritte di pubblico dominio non sono cosa di oggi; ma il dato curioso è che proprio nella civiltà di internet e dei social esso si è ingigantito a dismisura. L’epoca della comunicazione, che avrebbe dovuto avvicinare le persone tra di loro, ha finito per allontanarle, sia in senso materiale (con l’aumento della solitudine e dell’autoesclusione dalla società) sia generalmente in senso relazionale, perché ciò che scriviamo sui social può essere stravolto fino a farlo passare come l’esatto contrario di ciò che l’autore voleva dire. Anche questo, a mio parere, è un aspetto del pensiero unico e di quel tipo di censura che esclude me da Facebook per trenta giorni solo perché ho scritto la parola “negro”. Se i signori censori avessero avuto modo di sapere lo spirito e l’intonazione con cui l’ho detta e quali erano le mie reali intenzioni, forse non avrebbero preso questo provvedimento; forse, se si sapesse qual è lo stato d’animo di chi si esprime in un certo modo, non si darebbe del “razzista” a chi fa presente i problemi che l’eccessiva presenza degli stranieri in Italia comporta. Ma io credo che a certe persone e certe ideologie faccia comodo così: meglio non impegnarsi per capire, basta interpretare come si vuole ciò che si legge e poter così comminare condanne morali e materiali a chi l’ha scritto. Si ottiene il massimo utile con il minimo sforzo.

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Censura!!!

Ci siamo, è successo nuovamente: sono stato sospeso da Facebook per trenta giorni solo per aver espresso una mia opinione, che evidentemente non collimava con il pensiero unico impostoci dalla Rete e dagli altri mezzi di informazione. In un mio commento sul problema dell’immigrazione ho usato la parola “negro”, un termine normale per indicare le persone di colore che è normalmente compreso nella lingua italiana. Dice il vocabolario Zingarelli (anno 2009) alla voce “negro”: “persona che appartiene al gruppo etnico di pelle nera o scura”, aggiungendo però subito dopo che il termine può essere inteso come spregiativo e quindi spesso sostituito con “nero”; ma si tratta di un’assurda sottigliezza, perché entrambi i termini derivano dal latino nigrum, accusativo dell’aggettivo niger. Non si vede dunque dove sta l’intento offensivo di chi lo scrive, specie se – come nel mio caso – non c’era alcuna volontà denigratoria, ma la parola compariva in un commento scritto a proposito del problema dell’immigrazione che fa tanto oggi discutere nel nostro Paese.
La cosa veramente grottesca è che su Facebook continuano ad essere presenti termini offensivi molto pesanti, parolacce di ogni tipo, che gruppi eversivi e in odore di mafia e di malavita continuano tranquillamente a prosperare e poi si esclude per un mese una persona solo per aver usato una parola sgradita. La contraddizione è evidente, e probabilmente chi provvede a questo tipo di censura non sono persone in carne ed ossa, ma un algoritmo o qualche software automatico che, appena si imbatte in un termine “politically incorrect” lo segnala e da lì parte l’emarginazione di chi l’ha usato. Bisogna per forza pensare questo, perché altrimenti, se ci fossero veramente persone reali a fare i censori, vorrebbe dire che sono degli idioti oppure, cosa più probabile, che sono manovrati dall’alto, da parte di un potere occulto che impone a tutti il pensiero unico di oggi, quello che protegge e considera sacre e intoccabili certe categorie di persone (immigrati, gay ecc.) e castiga persino penalmente chi osa non essere d’accordo con tale impostazione ideologica. C’è da chiedersi allora dove va a finire l’art. 21 della nostra tanto osannata Costituzione, che garantisce la libertà di parola e di opinione. Dico questo perché non credo che i social della Rete (primo tra tutti Facebook) siano liberi e indipendenti: in realtà dipendono da certi poteri e ne fanno gli interessi, sono collegati in ogni Paese a determinati indirizzi ideologici.
Pier Paolo Pasolini, nei primi anni ’70 dello scorso secolo, diceva che il potere della televisione sull’anima umana era molto più forte di quello delle classiche dittature del ‘900: il fascismo, secondo lui, aveva raccolto nel popolo italiano solo un’adesione esteriore, ma non ne aveva cambiato la vita, la mentalità, il modo di essere; la televisione invece, condizionando quotidianamente ciascuno di noi e piegandolo alle esigenze del mercato e del consumismo, costituiva una dittatura ben più efficace e coercitiva di quella di Mussolini o di Stalin. Ed in effetti, se un regime come quello fascista dovesse rinascere oggi e non nel 1922, non credo che utilizzerebbe il manganello e l’olio di ricino, ma gli sarebbe sufficiente un’accurata propaganda televisiva e mediatica. Pasolini non parlava della Rete perché allora non esisteva, altrimenti avrebbe sicuramente stigmatizzato l’uso dei social più di quanto non abbia fatto con la televisione.
Ma per lungo tempo la propaganda televisiva e mediatica si è limitata a influenzare psicologicamente i cittadini, proponendo modelli di vita che hanno profondamente cambiato le abitudini degli italiani (i consumi sfrenati,la cura dell’estetica, le vacanze al mare o all’estero viste come un’assoluta necessità ecc.) e promulgando una finta tolleranza ed un finto pluralismo che davano comunque l’impressione a tutti di essere liberi e di poter esprimere altrettanto liberamente le proprie opinioni; adesso invece, da qualche anno a questa parte, il pensiero unico deve sentirsi minacciato in qualche maniera, perché è passato dalla proposta alla coercizione, dalla finta tolleranza all’imposizione violenta del pensiero unico dominante. Un esempio sono le proposte di legge di Scalfarotto (PD) e di Fiano (sempre del PD), le quali auspicano addirittura di punire penalmente, anche con il carcere, chi esprime idee non allineate alle loro per quanto riguarda gli omosessuali e la cosiddetta “propaganda fascista”, forse perché hanno paura che risorga un regime che è finito più di 70 anni fa. Non sarà più possibile a nessuno dire che i gay non gli piacciono o che le coppie di quel tipo non seguono le leggi di natura, né cercare di studiare e di comprendere ciò che il fascismo fu in realtà senza lasciarsi condizionare dai libri di storia e dalle altre fonti di informazione orientate a sinistra e quindi insincere e faziose. La libertà di opinione sancita dall’art. 21 della Costituzione è oggi fortemente minacciata dal pensiero unico, che ci viene imposto da tutte le fonti di informazione, nonostante che da qualche mese si sia insediato un governo che pare orientato diversamente. E questa ideologia onnipresente e oppressiva, che non ammette contraddittorio, ci arriva addosso anche attraverso i social della Rete, che sono certamente manovrati dall’alto: non si spiegherebbe in altro modo, infatti, il motivo per cui basta che si usi la parola “negro” e si viene cacciati dalla comunità ed esclusi dal dialogo con tutti, anche con coloro che abbiamo accettato nella nostra amicizia. Io mi auguro che sempre più persone si accorgano che quello che stiamo vivendo in Italia è un regime ipocrita e peggiore di ogni altro perché, per tornare a Pasolini, il fascismo almeno era una dittatura dichiarata e conclamata, mentre quella di oggi si traveste da democrazia e finge di concedere libertà che invece non ci sono affatto. Chi non si allinea alle idee dominanti alla Saviano o alla Boldrini è automaticamente emarginato, escluso, disprezzato e bollato con termini infamanti come “razzista”, “fascista” ecc. anche quando dice cose giuste ed evidenti a tutti, come ad esempio disapprovare la grottesca politica per la quale i cittadini italiani spendano 5 miliardi di euro all’anno per mantenere negli alberghi immigrati nullafacenti e quasi sempre clandestini, che non fuggono da nessuna guerra ma vogliono solo fare la bella vita a spese nostre. Se questa è democrazia!!!!

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Il dilagare della violenza

Viviamo un periodo piuttosto preoccupante, a quanto sentiamo dalle cronache, un periodo in cui la violenza – materiale e verbale – ha raggiunto livelli intollerabili per una nazione civile. La simpatica vignetta qui apposta si riferisce al mondo della scuola, dove sono di recente aumentati di molto gli episodi di violenza nei confronti dei docenti: un alunno ha sfregiato il volto di una professoressa con una coltellata, un altro ha colpito con un pugno un’altra insegnante, un altro ancora ha riempito di insulti e bestemmie il suo professore perché gli aveva fatto cadere a terra il cellulare, senza poi contare le violenze dei genitori che hanno colpito sia docenti che dirigenti e vicari. Ma perché siamo arrivati a questo punto? Le ragioni principali di questa barbarie emergente le ho enunciate nei post che precedono questo, e sono quelle in cui ho sempre creduto: perdita di autorevolezza della classe docente dovuta alle farneticazioni del “mitico” ’68 ed alle leggi che ne sono derivate, dal 1977 al 2000 con il famigerato “Statuto delle studentesse e degli studenti” di Berlinguer, perdita dei valori fondamentali della nostra società come quello della famiglia, profondamente mutata negli ultimi decenni e gravata da un disarmante buonismo che fa sì che i figli abbiano sempre ragione nei confronti dei loro insegnanti. Ma non è tutto: la civiltà di internet e dei social, che ha dato strada a tutti i peggiori istinti delle persone, ha fatto in modo che l’insulto, la violenza verbale, l’odio apertamente espresso siano diventati normali e consueti nella nostra vita di tutti i giorni, mentre la cortesia ed il rispetto sembrano diventate categorie vecchie e superate, retaggio di una civiltà al tramonto. Così la rozzezza, l’incultura, la volgarità sono entrate a pieno titolo nella nostra vita, tramite anche il bell’esempio che dà la TV dove litigi, insulti e parolacce sono all’ordine del giorno. Dalla violenza verbale poi, una volta perduti i freni della ragione e della civiltà, si passa facilmente a quella fisica, ed ecco quindi spiegati gli inaccettabili fenomeni criminali che sono avvenuti nelle scuole. E siccome siamo in una società buonista, una società che non vuol sentir parlare di provvedimenti e punizioni, la situazione è destinata a peggiorare; così tra breve, accettando il suggerimento del buon presidente americano Trump, dovremo andare a scuola armati per contrastare questi fenomeni. Ovviamente questa è una battuta, perché soltanto un idiota poteva avanzare quella proposta, e per me il soggetto è tale anche se è l’uomo più potente del mondo; però una soluzione va trovata, perché non si possono tollerare episodi simili. La mia proposta sarebbe semplice: bocciatura in tronco ed espulsione da tutte le scuole d’Italia, senza possibilità di appelli o ricorsi, per gli studenti che si rendono responsabili di tali comportamenti; denuncia penale obbligatoria per i genitori e condanna a tre-quattro anni di carcere senza condizionale né sconti di pena. Credo che agendo così il fenomeno finirebbe subito, perché contro chi usa la violenza come mezzo di interazione con altre persone porgere l’altra guancia non è certo un rimedio appropriato. E’ sconsolante dirlo, ma credo che soltanto le soluzioni di forza possano avere una qualche efficacia verso individui simili. Purtroppo, quando si sa per certo che si resterà impuniti, non si avrà alcun inmpulso o interesse ad astenersi dal fare il male.
Lo stesso ragionamento vale per la violenza politica, riesplosa pesantemente durante questa campagna elettorale. Lasciando stare le infamie e gli insulti scritti sui social e pronunciati da certi politici (ed in ciò i 5 stelle sono maestri!), voglio qui riferirmi alla violenza fisica, quella che si è manifestata durante gli ultimi cortei cosiddetti “antifascisti”. Il fatto curioso di questi eventi è che i suddetti cortei volevano protestare contro presunti rigurgiti di “fascismo”, mentre chi ha ferito gli agenti di polizia e devastato le città sono stati proprio gli antifascisti, i cosiddetti “antagonisti” (ma antagonisti di chi?), i giovani di estrema sinistra dei centri sociali. Del comportamento criminale di queste persone non mi stupisco, perché è dagli anni ’70, da quando frequentavo l’università, che sono abituato ad assistere alla violenza della sinistra extraparlamentare ed al terrorismo che è venuto da quella parte politica; ma adesso è imbarazzante, per gente come la Boldrini, Grasso, D’Alema e compagnia bella, parlare di “fascismo” (che non esiste più) e dover ammettere, perché non possono fare diversamente, che la violenza cieca e vigliacca che picchia i carabinieri a terra viene proprio dai figli di papà dei centri sociali e dalla loro parte politica, cioè la sinistra.
Da quanto di recente avvenuto mi pare evidente che il voler risuscitare ad ogni costo il fascismo, un movimento politico che appartiene ormai alla storia e che si è concluso nel 1945, sia un misero tentativo di allontanare l’opinione pubblica dai veri problemi del Paese che la sinistra non è riuscita né riuscirà mai a risolvere, oltre che la volontà di avere un “nemico” contro cui scagliarsi per poter nascondere le proprie contraddizioni. Se qualcuno fa violenza, sia di destra o di sinistra o di chicchessia, va punito pesantemente e basta, senza fare sconti a nessuno; ma fondare il dibattito politico, oggi nel 2018, sulla contrapposizione fascismo-antifascismo, è patetico e anacronistico. La storia non torna indietro, e negli ultimi 70 anni le società occidentali e le relazioni internazionali sono talmente cambiate da avere ben poco in comune con eventi e situazioni ormai vecchie quasi di un secolo. Gli altri paesi europei (Francia, Inghilterra, Germania) hanno ormai fatto i conti con il loro passato, il dibattito politico si fonda sul presente e sul futuro; ma da noi, purtroppo, i fantasmi del passato non vengono mandati in pensione perché fanno comodo ancora oggi a chi non ha altri argomenti se non tirare fuori il solito vecchio ritornello del “fascismo”. La violenza va combattuta ed eliminata da qualunque parte provenga: a questo pensino i signori politici, e ad affrontare i veri problemi del presente, senza attribuire ad altri etichette e marchi infamanti che appartengono ad un passato remoto e non hanno più alcuna ragione di esistere.

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I disastri del buonismo, ovvero il mondo alla rovescia

Il nostro Paese, ormai da quasi mezzo secolo, cioè dal “mitico” ’68 in poi, è profondamente malato di una malattia che ha prodotto danni incalcolabili ma della cui pericolosità ben pochi si sono accorti e che quindi ancor oggi continua a prosperare: il buonismo, la tendenza a trattare in guanti gialli i delinquenti ed in genere tutti coloro che infrangono la legge in qualsiasi modo, tanto da dare l’impressione che le leggi esistano solo per castigare i cittadini onesti, talvolta penalizzati e trattati peggio dei criminali. Gli esempi di questa deleteria mentalità sono svariatissimi e si manifestano in tutti i campi della vita sociale, da quello che mi riguarda più da vicino, cioè la scuola, dove ormai vengono promossi quasi tutti e dove vengono tollerati comportamenti offensivi e persino delittuosi di studenti e genitori, fino a quello più ampio della giustizia, che spesso condanna gli innocenti e premia i criminali. In base alla prassi giudiziaria attuale infatti, per fare un solo esempio, se un ladro entra in una casa privata per rubare e poi, di fronte alla reazione del proprietario o anche senza questa, lo uccide, si prende al massimo sei anni di reclusione che poi, tra indulti, amnistie e buona condotta si riducono a tre o quattro al massimo; così potrà tornare immediatamente a delinquere, sapendo che resterà comunque impunito, o quasi. Se invece il cittadino onesto che viene derubato, rapinato o anche picchiato selvaggiamente, reagisce uccidendo il criminale, ha una serie di denunce, condanne e fastidi che si protraggono per anni, ed è perfino costretto a risarcire economicamente la famiglia del delinquente. Ecco un esempio di giustizia che funziona alla rovescia: la legittima difesa deve essere sempre lecita e mai punita, quando si dimostra che un delinquente è entrato in casa nostra per rubare o assalirci, qualunque ne siano le conseguenze. Se il ladro muore, peggio per lui, se l’è cercata. Nessuna pietà deve esistere per i criminali.
A proposito di criminalità c’è un altro fatto che ha per me dell’incredibile e che giudico grottesco e inaccettabile. I terroristi degli anni ’70, che portavano l’attacco “al cuore dello Stato” come dicevano loro, e che hanno sulla coscienza decine di omicidi, non solo sono stati trattati con riguardo e non hanno mai ricevuto il trattamento che meritavano, ma adesso sono addirittura liberi, tanto da poter tenere conferenze all’università, avere un profilo Facebook e rientrare nella società civile come se nulla avessero fatto. La terrorista delle Brigate Rosse Barbara Balzerani, implicata nel rapimento Moro e colpevole di diversi omicidi, mai pentita degli orrendi crimini che ha commesso, né dissociata, si permette di mandare su Facebook messaggi sovversivi ancora oggi e nessuno interviene per cacciarla o sospenderla da quel network, dal quale sono invece stato sospeso io per trenta giorni solo per aver espresso idee contrarie al “politically correct” che va di moda oggi e di cui parlo in altri post. A me una circostanza del genere sembra propria di un mondo che funziona alla rovescia e che agisce in modo assolutamente contrario ad ogni logica ed ogni giustizia. A mio parere quei terroristi assassini non sarebbero mai, e dico mai, dovuti uscire dal carcere; anzi, avrebbero dovuto ricevere un trattamento consono alle loro azioni, una vita tale da far loro maledire il giorno in cui erano nati, perché chi uccide in nome di una ideologia perversa e si dichiara nemico dello Stato non ha diritto di ricevere alcun trattamento umano né alcuna pietà. Nel mondo antico, in Grecia e a Roma, chi attentava ai poteri dello Stato veniva immediatamente messo a morte, perché distruggere la legalità e le istituzioni dello Stato è molto più grave che compiere atti di criminalità comune. Quanto rimpiango la saggezza degli antichi, in questo ed in tante altre circostanze!
Venendo ora a fatti meno eclatanti ma comunque gravi, vorrei dire due parole sulle cosiddette “baby gang”, gruppi di ragazzini che compiono violenze di ogni genere, a Napoli ma anche in altre città. Qual è l’atteggiamento dei politici, dei sociologi, dei religiosi di fronte a questo fenomeno? Un altro caso di incomprensibile buonismo, una visione distorta che finisce per colpevolizzare gli adulti, i genitori, la scuola, la società in genere che avrebbe “abbandonato” questi ragazzi a se stessi consentendo loro di diventare delinquenti; quindi la colpa di queste azioni viene riversata su tutti meno che sui veri responsabili, che sono invece proprio questi piccoli criminali. Essi agiscono in tal modo proprio perché sanno che in Italia si rimane comunque impuniti, o quasi; e del resto non mi si venga a dire che sono inconsapevoli, perché non ci credo affatto. Conoscono benissimo la gravità di quel che fanno, e la responsabilità penale delle azioni di ciascuno è individuale; perciò non ha senso accusare chi non c’entra nulla per giustificare azioni che sono criminali, punto e basta, come ho visto fare in una trasmissione televisiva domenica scorsa, che si poneva per slogan questa bella frase: “Non esistono ragazzi cattivi”. Non esistono? E allora quelli che rubano, violentano, accoltellano compagni e persone innocenti cosa sono, angeli della bontà? Purtroppo da noi il buonismo arriva a distorcere completamente la realtà, diffondendo un messaggio fazioso che finisce per incentivare e incrementare la criminalità. Nessuno dei partecipanti a quella trasmissione ha mai parlato di sanzioni o di punizioni per questi piccoli criminali, che invece sarebbero l’unico modo per limitare e arginare il fenomeno. Se quelli che vengono sorpresi fossero rinchiusi in appositi luoghi di pena (ad esempio i riformatori, che andrebbero ripristinati) e passassero due o tre anni non a fare villeggiatura ma ad espiare veramente i loro delitti, forse al momento di uscire deciderebbero di mettersi su un’altra strada, per non trovarsi di nuovo a subire il trattamento che meritano. Chi usa la violenza e comprende solo la legge del coltello non può essere portato alla ragione con le preghiere o le omelie, tranne qualche caso isolato; occorre perciò che lo Stato sia forte e sia veramente inflessibile con i criminali, senza mostrare un’indulgenza che costoro non meritano. Il buonismo porta soltanto a peggiorare la situazione, perché chi sa che la farà franca e se la caverà con poco continua a delinquere, perché per certe persone è sempre meglio affrontare un piccolo rischio piuttosto che dover lavorare e vivere onestamente. Ma da noi, purtroppo, due ideologie apparentemente diverse ma convergenti in tanti aspetti si sono unite nel nome del buonismo, e da questo accoppiamento perverso è uscita fuori la situazione che viviamo: l’ideologia sessantottina, che ancor oggi a distanza di mezzo secolo continua a fare danni, e quella cattolica, che da noi è più forte che in qualsiasi altra parte del mondo, tanto da insinuarsi nei meandri delle istituzioni statali, dell’informazione, della televisione ecc. E così sono i cittadini onesti a rischiare i rigori della legge, mentre i criminali sguazzano in questo marasma sociale che garantisce loro la quasi totale impunità, ed è per questo che tanti stranieri vengono in Italia a delinquere, perché nei loro paesi di origine farebbero certamente una brutta fine. Finché ci saranno politici, sociologi e preti che daranno la colpa alla società ed alla scuola e giustificheranno i delinquenti credo che ben poco potrà cambiare. Quindi, se ci entra un rapinatore in casa, sarà meglio che gli diciamo “Prego, si accomodi, vuole un caffè?” per evitare non solo la violenza sua, ma anche quella della legge e dei suoi “tutori”.

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Strane “amicizie” tra docenti e studenti

Già più volte su questo blog ho avuto occasione di parlare dei rapporti tra docenti e studenti, esponendo un punto di vista che ai più sarà certamente sembrato antiquato e tipico di un modello di scuola che non esiste più: che cioè il rispetto dei ruoli deve essere sempre mantenuto, e che perciò il professore debba sempre tenere una certa distanza dai suoi allievi. Ciò non significa essere arcigno o eccessivamente severo, ché non gioverebbe a nulla; significa invece essere cordiale e affabile con gli studenti ma non dare mai loro troppa confidenza, perché da un atteggiamento troppo amichevole potrebbero derivare conseguenze funeste, come la mancanza di rispetto che prima o poi si verificherebbe da parte di alcuni studenti, oppure, peggio ancora, il sorgere di voci poco edificanti nei confronti del docente. E’ accaduto purtroppo che queste dicerie, più o meno fondate, siano sorte spesso, specie quando qualche professore ha incontrato i suoi alunni fuori di scuola, magari per andare in pizzeria insieme o per altro simile motivo. Per evitare tutto ciò io non ho mai concesso alcuna confidenza ed ho sempre avuto con i miei studenti un rapporto cordiale ma piuttosto distaccato e comunque limitato ad argomenti scolastici, senza indagare sulla loro vita privata e senza partecipare a cene o altre occasioni di incontro fuori dell’ambiente scolastico. Forse ho esagerato con questa rigida distinzione di ruoli, ma alcune notizie sentite in questi ultimi tempi sembrano invece confermare l’oculatezza delle scelte da me effettuate a questo riguardo.
Ho letto qualche giorno fa che, in sede di trattative sulla parte normativa del contratto di lavoro dei docenti che aspetta da tanto tempo di essere promulgato, è stato proposto il ricorso a sanzioni disciplinari per quei docenti che intrattengono con i loro studenti relazioni di amicizia su Facebook, che chattano con loro servendosi di Whatsapp o che comunque comunicano con loro mediante i social. Se la notizia è fondata, allora significa che a livello governativo ci si sta accorgendo che l’eccessiva familiarità tra professori e alunni è inopportuna e dannosa per la didattica e l’apprendimento, in quanto in tal modo il docente abbandona il suo ruolo di educatore e si abbassa a livello di “amico”, ricopre cioè un ruolo diverso da quello che dovrebbe avere ed al quale per legge è preposto. Ciò incide negativamente sul processo apprenditivo, perché lo studente concepirà come paritario e non gerarchico il suo rapporto con il professore, il quale perderà quell’autorevolezza che è necessaria affinché si formi nel giovane il senso del dovere e quindi dell’applicazione allo studio. Io personalmente sono da sempre stato convinto di ciò e per questo, pur essendo da tempo su Facebook, non mi sono mai sognato di proporre o accettare l’amicizia con qualcuno dei miei studenti; l’ho fatto, semmai, con gli ex studenti, quelli che da almeno tre anni hanno terminato gli studi liceali. Inoltre non uso whatsapp, né alcun programma di chat e non ritengo giusto neanche comunicare agli studenti il proprio numero di cellulare. Però anche qui non bisogna generalizzare, perché esistono anche eccezioni alla regola suesposta: ci sono professori, infatti, che in buona fede usano Facebook o altri social con gli studenti per motivi didattici, magari per inviare documenti, assegnare esercizi ecc. Perciò è difficile parlare di sanzioni per una pratica che è divenuta ormai così diffusa da non poter essere interpretata sempre in un unico senso, ed inoltre mi pare difficile anche sul piano legale prendere provvedimenti di questo tipo: se infatti l’uso dei social avviene fuori dell’orario scolastico, non so se un Dirigente o altra autorità abbia il potere di sanzionare dei liberi cittadini che compiono atti non vietati da nessuna legge. A mio parere anche qui, come in ogni circostanza, è il buon senso che dovrebbe prevalere: ogni docente, in altri termini, dovrebbe comprendere che non è opportuno dare troppa confidenza ai propri alunni, perché rischia di perdere la propria autorevolezza ed il rispetto altrui, e quindi di essere diseducativo. Se qualcuno non lo capisce e continua a fare l'”amicone” rischiando di rendersi ridicolo, peggio per lui: sarà l’esperienza a fargli capire il suo errore, molto più di sanzioni e punizioni che hanno poco senso.
Un’altra notizia ha scosso in questi giorni l’opinione pubblica, quella di due docenti uomini accusati di molestie sessuali nei confronti di alcune loro alunne. Si tratta di un fatto gravissimo, che distrugge per intero la reputazione del professore e della scuola in cui presta servizio. Nei casi ricordati la notizia era purtroppo vera, come gli stessi interessati hanno ammesso, e quindi saranno loro a subire le conseguenze delle loro azioni. In altri casi, però, l’accusa di molestie si è rivelata completamente infondata, ma la sola esistenza di dicerie al riguardo ha potuto danneggiare gravemente la buona fama di alcuni docenti, a volte persino puniti per accuse del tutto false e ridicole. Qualche anno fa ho saputo di un professore sospeso da un dirigente perché alcune ragazze lo avevano accusato di guardare loro il seno durante le interrogazioni. Ora io mi chiedo, intanto, se quelle ragazze si fossero vestite in modo conveniente o meno e poi, in secondo luogo, dove avrebbe dovuto volgere lo sguardo quel poveretto mentre le interrogava. Avrebbe forse dovuto mettersi una mano davanti agli occhi in modo da vedere solo il viso delle alunne senza che lo sguardo scendesse più in basso? Oppure avrebbe dovuto interrogarle guardando il muro o fuori della finestra? L’accusa, in quel caso, era grottesca e ridicola, eppure portò a una sanzione. Ma anche senza arrivare a tanto, ho spesso constatato che diversi docenti uomini si sono portati dietro dicerie e voci su un loro eventuale “interesse”, diciamo così, per delle studentesse, voci che si sono rivelate totalmente infondate ma che hanno comunque danneggiato l’immagine di una persona innocente ed in buona fede. E’ questa una situazione a cui noi insegnanti di sesso maschile dobbiamo stare molto attenti, per non dar adito a chiacchiere e maldicenze che prendono campo subito e si ingigantiscono in brevissimo tempo. Anche questa è stata una ragione per la quale, nella mia lunga carriera, ho sempre tenuto a debita distanza gli studenti e soprattutto le studentesse, perché io alla mia reputazione ci tengo quasi quanto ci tenevano gli eroi omerici, che preferivano perdere la vita anziché la loro buona fama. Le notizie di cronaca recente mi hanno dato ragione e confermano che la mia scelta è stata opportuna, perché il buon nome di una persona assomiglia a un edificio di grandi dimensioni: per costruirlo ci vogliono anni, per distruggerlo basta una scossa di terremoto di pochi secondi.

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La caccia agli stregoni

Ho detto altre volte in questo blog che non amo la nostra televisione ed in generale i nostri organi di informazione, perché il loro modo di esprimersi, che entra nelle case di tutti o quasi gli italiani, produce forti condizionamenti nell’opinione pubblica e di conseguenza nel pensiero e nell’azione delle persone comuni. In questo periodo il disgusto che provo nei confronti delle fonti di informazione si è accentuato, perché è in atto una campagna mediatica martellante per gettare quanto più discredito possibile sul sesso maschile: non si parla d’altro che di violenza contro le donne, molestie sessuali sempre contro le donne, reati oltremodo vergognosi come la pedofilia di cui sono sempre e comunque accusati gli uomini, ed altro ancora. Si sbatte sempre il mostro in prima pagina senza neanche dargli la possibilità di difendersi, perché se ci si trova a dover giudicare da che parte sta la verità l’opinione che vince e che viene diffusa è che la ragione stia sempre dalla parte delle donne, anche se la situazione è quella della parola dell’uno contro quella dell’altra. Alla base di tutto ciò vi è senza dubbio un ritorno prepotente del femminismo tipo anni ’70, che avanza come un bulldozer e travolge tutto ciò che incontra, riproponendo le solite lamentele sulle presunte discriminazioni di cui le donne sarebbero vittime, senza tener conto che da allora ad oggi tante cose sono cambiate e che nella società attuale molte di queste disparità sono state eliminate; anzi, in qualche caso la situazione si è proprio rovesciata e sono gli uomini a trovarsi svantaggiati e a subire ingiustizie. Se qualcuno non crede a ciò, basta che osservi la situazione di molti mariti e padri separati costretti a dormire in macchina e privati di tutto dalle mogli cui il giudice, in modo pregiudizievole quanto meno, ha dato ragione togliendo la casa al marito e obbligandolo a pagare alla ex consorte cifre spropositate. Ciò nonostante dobbiamo subirci in televisione individui come la presidente della camera dei deputati, la signora Boldrini, che nel 2017 fa la patetica femminista come fossimo ancora nel ’68 e continua a urlare contro le presunte discriminazioni di cui le donne sarebbero vittime. Dai suoi atteggiamenti si comprende il motivo per cui è la personalità politica più insultata sui social come facebook; e se pure io non mi sono mai permesso di fare una cosa simile, dico però che comprendo chi l’ha fatto, perché provo per quella persona un’antipatia e un senso di ribrezzo che poche volte ho avuto per altri nella mia vita.
Purtroppo quel che dice la televisione, sia che intervengano politici come la Boldrini o che parlino semplici giornalisti, entra nella mente di tutti e ne condiziona i comportamenti quotidiani. Perciò questa pervicace campagna mediatica attuale, questa caccia agli stregoni che ogni giorno vediamo in tv e che non parla d’altro che di violenza e di molestie sessuali a carico delle donne finisce per assumere un carattere di generalità e diventa un pesante atto d’accusa contro tutto il genere maschile. Che vi siano questi episodi è senz’altro vero, ma riguardano una piccolissima percentuale di persone malvage o mentalmente disturbate, non si può parlare come spesso fanno di “violenza maschile” come se tutti gli uomini maltrattasero o uccidessero le loro compagne. Il vittimismo che ne risulta fa sì che una persona, per il solo fatto di essere maschio, è additato al pubblico disprezzo e visto come potenzialmente violento o criminale, e questa generalizzazione colpisce tutti nell’immaginario comune. In base a questo pregiudizio si arriva a criminalizzare l’uomo anche quando magari si rivolge ad una collega facendole un semplice complimento, un atto cioè di gentilezza che però, sulla base di questo assurdo clima di ostilità, viene scambiato per molestia. Lo stesso colpevole fraintendimento avviene quando un uomo guarda con dolcezza un bambino o una bambina e magari fa loro una carezza. Se questo gesto lo fa una donna, non accade nulla di particolare; se lo fa un uomo, molto spesso si scopre circondato da sguardi ostili e vede gravare su di sé l’orribile sospetto di pedofilia, quando magari è semplicemente un padre che vede in quel bambino un’immagine di suo figlio e ne prova la stessa tenerezza che può provare una donna. Ma l’opinione pubblica è ormai indirizzata in questo senso da un’informazione distorta e faziosa, che determina nella società l’insorgere di idee preconcette: così per i giudici il contenzioso tra marito e moglie si risolve quasi sempre in favore di quest’ultima, alla quale vengono assegnati i figli e la casa di proprietà del marito, magari per andarci a convivere con il nuovo “compagno”. Se questa è giustizia…
Per restare agli argomenti trattati in televisione in questo periodo, il tema centrale e ripetuto fino alla noia con intere trasmissioni ad esso dedicate è quello delle molestie sessuali che certi produttori cinematografici, politici o datori di lavoro in genere avrebbero inflitto alle povere ragazze innocenti che si sono trovate sotto i loro artigli. Al proposito c’è da chiedersi perché queste “vittime” hanno deciso soltanto ora a denunciare il loro “orco” (questa è la parola spesso usata in tv senza che se ne conosca neanche il significato) e non l’abbiano fatto al momento della presunta violenza subita. Inoltre eventi del genere, così privati, di solito non hanno testimoni, e non si vede quindi come si possa accusare delle persone senza poter portare prove concrete. Se l’accusato, in base a ciò, nega i fatti e l’accusatrice non ha alcuna prova concreta, per quale ragione io dovrei pregiudizialmente credere a lei e non a lui? La violenza o la molestia potrebbero esserci state veramente, ma potrebbe anche darsi che l’accusatrice metta in atto una vendetta privata e cerchi, magari perché esclusa da un certo incarico per incapacità, di gettare fango su chi non l’ha assunta inventando contro di lui accuse infamanti. Fatti del genere sono accaduti, di donne cioè che hanno accusato di violenza carnale uomini totalmente innocenti solo per rivalsa personale, e questi uomini hanno perduto la loro reputazione e si sono visti rovinare la vita da queste accuse assurde e criminali. Qualche anno fa un padre di due ragazze scontò più di un anno di carcere perché le figlie lo avevano accusato di averle stuprate; poi si scoprì che le accuse erano false e dovute ad una vendetta messa in atto dalle due contro il padre perché aveva rifiutato loro una somma di denaro. E adesso chi restituisce a quel povero diavolo un anno di vita passato dietro le sbarre? Chissà cosa penserebbe la signora Boldrini di eventi come questi? Probabilmente nemmeno ne è al corrente, perché a lei interessa solo difendere le donne maltrattate; non l’ho mai sentita parlare dei casi in cui sono state le mogli ad uccidere o far uccidere i mariti, casi rari ma che pure sono accaduti più di una volta.
Sarebbe necessario che chi fa televisione si rendesse conto delle conseguenze del proprio mestiere sull’opinione pubblica e sulla mentalità generale che si va formando in seguito a quello che viene trasmesso. Questa caccia alle streghe (anzi agli stregoni) attualmente in atto, che generalizzando in modo indiscriminato getta fango su tutto il sesso maschile, è molto pericolosa, perché aumenta il senso di insicurezza e introduce antipatie e sospetti su persone innocenti che può creare un allarme sociale incontrollabile. Un evidente effetto di ciò è il prepotente ritorno del femminismo sui social come facebook, dove viene disprezzato e insultato chiunque cerca di portare avanti anche le ragioni della logica e del buon senso. Un esempio. Quando si parla di violenza carnale ai danni delle donne la condanna è unanime da parte di tutti, e anch’io non ho difficoltà a dire che si tratta di un crimine odioso da punire con la massima severità. Se però qualcuno, saggiamente, si azzarda a dire che le ragazze non dovrebbero ubriacarsi, vestirsi in modo provocante e recarsi in luoghi conosciuti come insicuri, le solite femministe dalle idee vecchie come il cucco gli lanciano una pioggia di insulti affermando che una donna è libera di vestirsi come vuole e andare dove vuole, e che chi sostiene il contrario giustifica gli stupratori. Ora io dico: come si fa ad essere così faziose da non riconoscere la saggezza di chi vuol mettere in guardia da quei potenziali pericoli? Chi dice che certe ragazze (non tutte ovviamente) dovrebbero comportarsi in modo diverso non lo fa per colpevolizzarle ma per metterle di fronte alla realtà. Se vai in un luogo che sai essere pieno di zanzare e poi te ne torni con molte punture non puoi lamentarti; il buon senso così consiglierebbe, ma purtroppo questa qualità non è tra quelle più diffuse ai nostri tempi.

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Dovremo chiudere il Liceo Classico?

Com’è noto il Liceo Classico, una volta fiore all’occhiello del sistema scolastico italiano e invidiato da tanti paesi esteri, è da alcuni anni in sofferenza a causa di un forte calo di iscritti che ha interessato sia le grandi città che i centri di provincia: nella mia regione, la Toscana, tanto per fare un esempio, abbiamo assistito in una provincia come Grosseto alla chiusura di due Classici su tre per mancanza di iscritti, e non molto meglio è andata nelle altre province. Il fenomeno, come tutti quelli analoghi, ha dato luogo ad una lunga serie di dibattiti volti a identificarne le cause ed anche, come succede, ad una caccia alle streghe: si sono accusati, per lo più, i professori delle materie umanistiche (soprattutto quelli di latino e greco) di utilizzare metodi antiquati, di costringere gli studenti a turni massacranti di studio per apprendere contenuti che per molte persone sono di dubbia utilità. Proprio oggi su Facebook, nel gruppo intitolato “Non chiudete il Liceo Classico!” è apparso un post scritto da una docente di latino e greco con molti anni di esperienza, la quale torna ad accusare “certi insegnanti” perché insistono troppo sulla grammatica, fanno tradurre ancora dall’italiano al latino, si fermano a lungo sulle leggi degli accenti in greco ed anche perché, come dice lei, obbligano gli studenti ad imparare lunghe liste di vocaboli a memoria. Metodi antiquati a suo giudizio, responsabili dell’avversione che i giovani manifestano nei confronti del Classico e che spiegherebbe il forte calo di iscritti. Anzi, c’è di peggio: l’autrice del post sostiene che a breve il Liceo Classico chiuderà i battenti del tutto, addirittura!
Sull’argomento mi corre l’obbligo, come diretto interessato in quanto docente di latino e greco da quasi quarant’anni, di fare qualche osservazione. A parere mio la collega autrice del post ha un po’ esagerato, ma nella sostanza ha ragione, nel senso che metodi d’insegnamento in voga quaranta o cinquant’anni fa non possono essere adatti ai giovani di oggi, che vivono in modo del tutto diverso dai loro genitori o nonni ed hanno una mentalità ed una formazione culturale molto diversa; ma non credo che la crisi del Liceo Classico dipenda soltanto dai metodi applicati da “certi docenti” arretrati e conservatori. Credo invece che la causa maggiore dell’abbandono sia la superficialità dei tempi moderni e lo scarso interesse per la cultura evidente a tutti i livelli, dai mass-media ai politici che dicono che “con la cultura non si mangia” fino ai semplici cittadini, la cui mentalità è fortemente condizionata dalle leggi economiche e di mercato. Secondo tale concezione della vita ciò che conta è solo il profitto e l’innovazione tecnologica, che rende possibile il benessere in cui viviamo e che non può più comprendere tra i suoi valori quelli che vigevano alcuni decenni fa; da ciò è derivata una abnorme valorizzazione di quel genere di cultura di cui si crede di vedere l’immediata utilità, vale a dire quella tecnica e scientifica, che molti continuano a considerare antitetica a quella umanistica. In questo clima economicistico e tecnocratico che ha ormai contaminato totalmente le società moderne non c’è più spazio per gli studi letterari ed umanistici in genere, considerati “chiacchiere” senza costrutto, roba da perdigiorno o da topi di biblioteca che non hanno nulla di meglio da fare; e le lingue classiche, a maggior ragione, vengono ritenute “inutili” e quindi da abbandonare totalmente. A questo si deve aggiungere anche la precisa volontà di certe persone, purtroppo spesso collocate nei posti di comando, di affossare gli studi umanistici proprio perché chi con questi si è formato è anche in grado di ragionare con la propria testa, di rendersi conto delle condizioni in cui vive e dell’intento buono o cattivo dell’agire altrui. In altre parole, la cultura è scomoda per chi sta al potere, molto più a suo agio in presenza di un popolo ignorante, dedito solo allo smartphone e alle scarpe all’ultima moda, un popolo di automi, di “yes-men” come si dice oggi, incapaci di reagire e proni di fronte alle contraddizioni ed alle ingiustizie. Questa, a mio giudizio, è la causa maggiore del declino del Liceo Classico, una scuola che apre la mente ed è perciò scomoda, da mortificare quanto più possibile.
Pur tuttavia le accuse contro “certi insegnanti” di latino e greco, troppo pedanti e ancorati a vecchi metodi di insegnamento, hanno un indubbio fondamento, perché è del tutto ovvio, a mio parere, che noi che viviamo in questa scuola e amiamo le discipline classiche non possiamo illuderci di poterle insegnare come 50 anni fa, visto che gli alunni attuali sono nativi digitali ed hanno avuto nella scuola primaria una formazione ben diversa da quella che hanno ricevuto quelli della mia generazione. Io sono convinto – e l’ho scritto molte volte in questo blog – che se vogliamo salvare il Liceo Classico dobbiamo essere disposti ad innovarci, a cambiare qualcosa di sostanziale, a rendere insomma questa scuola al passo con i tempi ed in sintonia con le capacità apprenditive dei ragazzi del 2017, non di quelli del 1967. Cosa intendo dire? Una volta premesso che nessuno di noi (e tanto meno io!) ha la bacchetta magica, e che è più facile criticare che costruire, posso però tentare di fare una proposta, che ho già avanzato in quel gruppo di Facebook e per la quale ho già ricevuto una bella dose di insulti dai colleghi ultraconservatori che nel nostro ambito culturale sono forse la maggioranza. Partendo da un dato di fatto, cioè che i ragazzi di oggi non hanno più (tranne poche eccezioni) la disposizione mentale e le conoscenze di base per poter tradurre brani anche semplici scritti nelle lingue classiche, e considerato anche che di fatto non traducono più, specie al triennio liceale, perché scaricano le versioni già tradotte da internet e nei compiti cercano di copiare con il cellulare (e spesso ci riescono), tenuto conto di tutto ciò io ritengo che sarebbe preferibile fondare l’insegnamento più sugli aspetti letterari, storici e antropologici del mondo classico che sulle abilità linguistiche, che di fatto ben pochi studenti oggi possiedono. Con ciò non intendo affatto sostenere l’abolizione dello studio delle due lingue antiche, che resta comunque indispensabile per la comprensione delle dinamiche formali durante la lettura dei testi originali in lingua sotto la guida del docente; ma trovo assurdo e controproducente costringere i ragazzi a faticare ore sul vocabolario per tirar fuori poi quasi sempre (se non copiano) traduzioni penose che infondono anche nel docente, e non solo negli studenti, un senso di frustrazione e di profondo disagio. La valutazione dovrebbe dipendere in gran parte dalle conoscenze storico-letterarie e dalle letture degli autori in lingua o in italiano, riservando al lavoro di traduzione autonoma uno spazio minore di quello che ricopre adesso, quando il 50 per cento circa del voto conclusivo dell’anno scolastico dipende dall’esito delle prove scritte, cioè dalle traduzioni. Lo studio linguistico quindi, collocato nei primi due anni con completamento nel terzo, dovrebbe essere più snello e meno pesante di quel che è adesso, con l’abolizione degli inutili grammaticismi e degli esercizi mnemonici sulle cosiddette “regole” che servono a ben poco, dato che gli studenti, quando arrivano al triennio liceale, conoscono a menadito queste “regole” ma non sanno ugualmente tradurre alcun testo. Certo, per realizzare questo obiettivo, che certamente renderebbe il Liceo Classico una scuola più competitiva ed attraente perché al passo coi tempi attuali, ci sarebbe bisogno di un immediato provvedimento da parte del Ministero: la modifica della seconda prova scritta d’esame, ancor oggi consistente in una pura e semplice traduzione, antiquata perché rimasta nella sostanza uguale a se stessa dal 1923 (dalla riforma Gentile del governo Mussolini!) e non più alla portata degli studenti attuali. Da lungo tempo io sostengo questa posizione, che condivido con illustri studiosi come il prof. Maurizio Bettini dell’Università di Siena e che mi pare l’unica soluzione per uscire da questo limbo che non soddisfa nessuno, benché i colleghi conservatori difendano ancora la traduzione come tanti paladini medievali chiusi nel loro fortino. Se il Ministero si renderà finalmente conto di come stanno in realtà le cose e rinuncerà a fondare la valutazione dei maturandi su una competenza che ormai pochissimi hanno, allora forse potremo inaugurare una nuova stagione per gli studi umanistici, il cui compito è quello di formare persone culturalmente avanzate e dotate di spitito critico, non certo quello di creare esperti traduttori dal greco e dal latino. Chi vorrà diventarlo e specializzarsi nello studio linguistico, potrà farlo in seguito durante gli studi universitari. Nessuno potrà né vorrà impedirglielo.

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I “social” veicolo di inciviltà

Nel post precedente ho parlato della maleducazione così diffusa oggi in ogni ambito della vita sociale. Adesso invece vorrei soffermarmi su un’abitudine che si è diffusa rapidamente con l’affermarsi dei “social network” come Facebook, e che è qualcosa di più della cafoneria e della maleducazione: è vera e propria inciviltà, diretta manifestazione di quella violenza che ciascuno di noi porta dentro di sé e che scatena senza freno allorché crede, stando dietro a una tastiera, di essere protetto dall’anonimato. Per rendersene conto basta essere iscritti a Facebook e osservare (anche senza parteciparvi direttamente) una discussione su qualunque argomento: qui il dissenso e la diversità di opinione non si esprimono, se non raramente, in modo pacato e tollerante, ma con rabbia, violenza, insulti gratuiti della peggiore specie, espressi fra l’altro senza conoscere affatto l’interlocutore ma giudicandolo sommariamente dalle poche parole scritte sul social, talvolta anche male interpretate. Basta esprimere una qualunque opinione per essere sommersi da insulti, volgarità, minacce e quant’altro, il che indica certamente che l’intolleranza, la violenza e l’inciviltà dei nostri connazionali è molto maggiore di quanto si potrebbe credere. E’ una situazione disgustosa, che provoca molta tristezza e fa venire voglia di togliere la propria iscrizione ai social, visto che ormai sono diventati un’arena da gladiatori senza esclusione di colpi e senza alcun controllo da parte delle Autorità. Questi vigliacchi che insultano gratuitamente gli altri sui social commettono veri e propri reati, quelli di ingiurie e di diffamazione, aggravate dall’uso del mezzo stampa (perché tale è appunto la rete internet). Molti di loro non si rendono nemmeno conto della gravità del loro comportamento; altri invece, pur sapendolo, continuano indisturbati perché credono di non poter essere scoperti. In realtà non è così, la Polizia Postale può benissimo identificare il computer o altro strumento elettronico da cui le frasi incriminate sono partire, ma in pratica non lo fa, sia perché di indagini di questo tipo dovrebbe svolgerne a migliaia, sia perché per perseguire questi reati occorre una denuncia della parte lesa, e quasi nessuno si prende la briga di mettersi nelle pastoie giudiziarie solo per rivalersi su qualche idiota che si diverte ad insultare gratuitamente gli altri.
Purtroppo questa è la situazione, la violenza verbale dei “leoni da tastiera” prosegue indisturbata e neanche i moderatori dei vari social fanno nulla per eliminarla. Ne restano colpiti anche personaggi politici di primo piano: di recente la presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, ha annunciato di voler denunciare chi la insulta sui social, e a mio giudizio ha tutto il diritto di farlo, perché il dissenso che questa persona ha provocato con le sue esternazioni, pur essendo legittimo, si deve esprimere civilmente e non con insulti volgari e irripetibili che solo degli stupidi vigliacchi possono concepire. Lo dico con piena convinzione perché, pur essendo fermamente contrario alle posizioni assunte dalla Boldrini sulle donne, sugli immigrati ecc., non mi permetterei mai d’insultarla; e non solo perché è la terza carica dello Stato, ma anche perché è una persona e una donna, e come tale va rispettata come chiunque altro. L’insulto, la volgarità, la diffamazione dell’avversario dimostrano soltanto l’inciviltà e la stupidità di chi li usa, ricadono addosso a loro come un boomerang.
Quel che dispiace più di tutto è il dover constatare che nel nostro Paese vi è un gran numero di trogloditi e di incivili che, nella loro ignoranza, non sanno argomentare nulla e ricorrono all’insulto perché non hanno null’altro da dire per controbattere il pensiero altrui. E’ successo anche a me di essere insultato su Facebook per certe mie posizioni espresse in modo deciso ma pacato, senza offendere nessuno. Poiché mi sono azzardato a dire che questa invasione di immigrati deve essere arginata perché l’Italia ha già molti problemi e non può accollarsi il mantenimento di centinaia di migliaia di stranieri, sono stato attaccato in modo meschino e volgare da certi “buonisti” che, evidentemente, sono così generosi verso gli immigrati quanto egoisti e intolleranti verso i propri connazionali che non la pensano come loro. Tra gli insulti che mi sono stati rivolti ne spiccano in particolare due: “razzista” e “fascista”. Al proposito vorrei dimostrare come l’ignoranza e la pochezza mentale di queste persone le induce ad usare questi termini senza neanche conoscere il loro vero significato. La parola “razzista” designa propriamente colui che, pregiudizialmente, ritiene che la propria razza o ceppo etnico sia superiore alle altre, come avveniva, ad esempio, nella Germania di Hitler; ma chi si oppone a questa incontrollata invasione di immigrati non lo fa per questo motivo, cioè perché pensa che la propria razza sia superiore a quella degli africani o dei siriani che arrivano sui barconi, ma perché sa che il nostro Paese ha già molti problemi economici, che tanti italiani vivono sotto la soglia di povertà o con pensioni da fame, e pensa che sia giusto provvedere prima a loro che agli stranieri, come fanno tutti gli altri paesi civili; altrimenti dovremmo pensare che la Svizzera, l’Austria, la Francia ecc. siano in toto nazioni razziste, il che francamente non mi sembra sostenibile. Anche il secondo aggettivo, quello di “fascista”, gettato come un marchio infamante contro chi si oppone al pensiero comune, è impiegato in modo del tutto improprio. Se infatti con questo termine si vuole indicare un sostenitore del regime fondato da Benito Mussolini al potere in Italia dal 1922 al 1943, si commette una vera e propria idiozia, perché quel regime è finito più di 70 anni fa e appartiene ormai alla storia passata: quindi dare del “fascista” a qualcuno è assurdo, come sarebbe assurdo dire a qualcuno che è carbonaro, giacobino o lanzichenecco. Se invece si usa la parola “fascista” in senso lato, come sinonimo di “intollerante, violento, prevaricatore”, allora i veri fascisti sono proprio loro, quelli che insultano gli altri perché non condividono le loro idee. Non c’è nulla di più fascista dell’atteggiamento di colui che, sotto la maschera del buonista, dell’accogliente, dell’altruista, infama gli altri e vuol impedire loro di esprimere le proprie idee. Purtroppo questo atteggiamento prevaricatore non è diffuso solo nei social, dove ogni ignorante e troglodita qualsiasi può scrivere, ma ha esempi anche dall’alto, da quella politica che sostiene provvedimenti volti a conculcare la libertà di opinione. Se l’esempio è questo, non possiamo condannare più di tanto i “leoni da tastiera”, ma solo compatirli per la loro imbecillità.

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La democrazia di Facebook

Come moltissime altre persone, anch’io circa un anno fa mi sono iscritto a Facebook, il più popolare e diffuso dei social network tanto di moda ai nostri tempi. Non l’ho fatto per particolari motivi, ma solo per corrispondere con alcune persone o gruppi che avessero interessi simili ai miei: la cultura classica, ad esempio, o la letteratura italiana e straniera. Mi sono anche iscritto alle pagine facebook di alcuni enti culturali o quotidiani come “Repubblica”, allo scopo di partecipare alle discussioni su determinati eventi o notizie del momento. In questo non trovo nulla di male, se non il fatto che il sottoscritto, essendo di carattere un po’ suscettibile o, come si dice in Toscana, “fumino”, rischiava e rischia di sollevare polemiche o di avere con qualcuno scambi di battute e commenti non proprio ispirati al massimo della cortesia. Il rischio di scontri verbali con altre persone (ad esempio i sostenitori del cosiddetto “Movimento cinque stelle”) c’era sicuramente; ma non mi aspettavo che vi fosse anche uno stretto controllo sulle opinioni altrui da parte dei supervisori del network stesso.
E invece mi è successo di essere sospeso per tre volte dal poter inviare commenti o contenuti di qualsiasi tipo sulla mia pagina perché, secondo i misteriosi censori di Facebook, avrei violato gli “standard della comunità”, che sono quelli da loro stabiliti e che non ammettono deroghe; in base a questo principio, piuttosto generico in verità, i moderatori possono sospendere o anche cacciare per sempre chi vogliono senza neanche dargli una spiegazione. In effetti è vero che ho espresso opinioni in contrasto con il “pensiero unico” o il “politically correct” come lo vogliamo chiamare; ma io pensavo, come ho sempre pensato, che nel nostro Paese ci fosse ancora la libertà di opinione (articolo 21 della Costituzione) e che tutte le opinioni siano esprimibili in democrazia, purché in base ad esse non si commettano reati. Questo è ciò che è successo: ho criticato in un commento la politica italiana dell’accoglienza indiscriminata dei migranti, che un paese gravato da debiti e in difficoltà per dare lavoro ai suoi cittadini non può permettersi; un’altra volta ho criticato le buffonesche esternazioni dei cosiddetti “gay pride”, dove gli omosessuali si agghindano come pagliacci e in questo modo ridicolo e volgare cercano di attirare l’attenzione sui loro diritti, che a mio parere hanno già ottenuto in abbondanza. Per questi commenti ed altri simili, che riflettono la mia mentalità ed il mio modo di pensare, sono stato sospeso da Facebook, prima per tre e poi per sette giorni, senza ulteriori spiegazioni; in pratica sono stato accusato di razzismo e di omofobia, cosa che avviene a tutti coloro che non sono pedestremente allineati col pensiero comune oggi dominante.
La cosa in sé non ha una grande importanza, intendiamoci bene: se per sette giorni non posso inviare commenti a Facebook, pazienza, sopravviverò; del resto sono vissuto 60 anni e più senza essere iscritto a quel network; ma ciò che mi rende furioso e mi preoccupa veramente è constatare come la libertà e la democrazia nel nostro Paese siano oggi in grave pericolo, allorché il pensiero unico alla Boldrini – la “presidenta” della Camera che preferisce gli immigrati agli italiani – si serve di strumenti coercitivi per chiudere la bocca ai dissidenti. Questo è grave, gravissimo, è un metodo che ben si adatterebbe all’Unione Sovietica di Stalin, non ad un paese libero e democratico. Già su questo blog ho messo in guardia più volte sui pericoli del “pensiero unico” citando alcuni disegni di legge (ad esempio quello del deputato Scalfarotto contro l'”omofobia”) che limitano la libertà di opinione e pretendono di chiudere la bocca con la forza a chi si oppone alla loro mentalità. Anche la censura di facebook è un esempio di questo metodo sovietico, perché chi “sgarra” o non si allinea alle idee dominanti viene bannato, senza spiegazioni e senza dare al “reo” la possibilità di difendersi. E’ vero, come dice qualcuno, che Facebook non è una piazza pubblica ma un network privato, e come tale ha delle regole. Benissimo, ma queste regole sono di parte e non rispondono ad alcun criterio di libertà e di pluralismo; e questo è fortemente pericoloso, perché mettere a tacere con la forza gli avversari è un sistema in uso durante i regimi dittatoriali del XX secolo, come quello staliniano tanto caro alla signora Boldrini o quello fascista, tanto per usare questa parola che tanto volentieri i signori della sinistra e i “politically correct” lanciano come un fulmine contro gli avversari. Viene quindi spontaneo sospettare che anche Facebook, come tante altre fonti di informazione (tv, quotidiani, siti web ecc.), sia in realtà manovrato da poteri occulti che mirano a livellare i cervelli delle persone togliendo loro tutto ciò che fa scomodo al potere del “pensiero unico” e impedendo loro di ragionare in modo autonomo e critico. Ed io, da questo piccolo blog che poche persone leggono (specie adesso d’estate) lancio un grido di allarme perché nel nostro Paese ci sia veramente la libertà di opinione, secondo quanto stabilisce la nostra Costituzione, e che ciascuno possa aderire a qualsiasi pensiero o ideologia in contrasto con la mentalità dominante senza sentirsi bollare con appellativi come omofobo, razzista, fascista o peggio ancora. I veri fascisti sono loro, quelli cioè che utilizzano i più svariati metodi, dalle leggi coercitive al bando su Facebook, per tappare la bocca ai dissidenti ed a tutte le persone che, invece di bersi passivamente ciò che dice la tv, intendono continuare a ragionare con la propria testa.

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Il referendum: era proprio necessario?

In questo periodo non si fa che parlare (in tv, sui giornali, nelle sale professori delle scuole) del famoso referendum istituzionale del prossimo 4 dicembre, e già si è acceso un vivace dibattito tra i sostenitori della riforma renziana ed i suoi implacabili oppositori. Al di là tuttavia di quello che potrà essere l’esito della consultazione e le conseguenze che ne deriveranno, a me viene fatto di chiedermi se questo referendum è veramente necessario e indispensabile, se cioè si debba obbligatoriamente consultare l’intero corpo elettorale o se invece non sarebbe bastata l’approvazione parlamentare della legge. Certo, un simile dubbio offre il fianco a critiche e accuse di lesa maestà, perché sembra che chi lo esprime sia contrario alla democrazia: che cosa c’è infatti di più democratico che affidare una questione così importante al popolo sovrano?
Eppure il dubbio a me rimane, e per una ragione che trovo valida in questa ed in tutte le altre consultazioni elettorali. Il corpo dei votanti è formato da circa 40 milioni di persone, anche se quelle che andranno effettivamente a votare saranno circa 25 milioni, o forse meno; e del resto in questo referendum non c’è il quorum, quindi anche se i votanti fossero meno della metà degli aventi diritto la consultazione sarebbe ugualmente valida. Ma il problema è un altro. Con che spirito voteranno gli italiani? Seguendo i vari dibattiti in televisione, ma soprattutto leggendo quello che la gente scrive sui social network (primo tra tutti facebook) ho avuto la netta impressione che un’altissima percentuale degli scriventi, certo più della metà del totale, non sa neanche per cosa si deve votare ed è del tutto all’oscuro di cosa sia il diritto costituzionale e del contenuto della Costituzione stessa. Quindi, se non conosce la Costituzione, questo gran numero non può neanche valutare le modifiche che ad essa vengono apportate con la riforma. In pratica, l’ignoranza la fa da padrona, come in molte altre questioni.
In queste condizioni, che valore può avere un referendum dove la maggior parte dei votanti non conosce o conosce pochissimo i contenuti della riforma? Quello che si verificherà sarà invece un’altra cosa: che la stragrande maggioranza dei votanti (e qui vanno incluse anche molte persone che non sono propriamente ignoranti) si esprimerà non nel merito dei mutamenti apportati alla Costituzione, ma obbedendo pedissequamente ai dettami del proprio partito di appartenenza. Questo tipo di aberrazione elettorale è sempre stato presente nei referendum: io stesso, nel lontano 1974 quando si votò nella prima consultazione referendaria sul divorzio, sentii alcuni aderenti al PCI del mio paese dire “Io voto no perché l’ha detto il Partito”, e così fecero senza rendersi conto di ciò che avevano votato. Oggi questo atteggiamento sbagliato è ancor più cresciuto, perché questo referendum, nell’immaginario di moltissime persone (soprattutto quelle orientate a votare NO) si è trasformato in un giudizio apodittico su Renzi ed il suo governo. Chi voterà NO, in altri termini, non lo farà perché è oggettivamente contrario alla riforma, che magari non ha neanche letto, ma solo per opporsi a Renzi e provocare la sua caduta da capo del governo. Ovviamente questa mentalità potrà sussistere anche in chi voterà SI’, nel senso che chi agirà in tal modo vorrà sostenere il governo, più che la riforma in se stessa. E su questa base io penso che sarà più probabile la vittoria del NO in quanto, come ho detto in un post di circa un mese fa (“Gli italiani e il potere”) i nostri connazionali sono per natura e per convinzione sempre contrari a chi governa, da qualunque parte provenga: contro Berlusconi si è arrivati persino alla persecuzione giudiziaria, e nei confronti di Renzi gli insulti e le critiche non si contano ormai più.
Per questo dico che le consultazioni popolari non dovrebbero avvenire, soprattutto quando si sa in anticipo che l’uomo della strada, come si suol chiamare il cittadino comune, non conosce le leggi e spesso non sa neanche per cosa vota; quindi, in moltissimi casi, si affida all’emotività del momento o ai diktat dei demagoghi, la cui mansione principale, così come si verifica dai tempi di Alcibiade nel V° secolo avanti Cristo, è quella di indurre il popolo a prendere decisioni sbagliate. A mio parere dovrebbero votare soltanto le persone fornite di una sufficiente cultura politica, che esaminino le questioni con cognizione di causa e non per sentito dire. So bene che dire ciò significa tirarsi addosso l’accusa di essere antidemocratici o reazionari, ma va anche detto che forme di governo perfette non esistono, come già videro sapienti antichi come Platone e Cicerone. Dunque neanche la democrazia può essere considerata un sistema politico ideale, ed i referendum come quello che avrà luogo tra un mese ne sono una delle più chiare dimostrazioni.

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La difesa del Liceo Classico

In questi ultimi tempi si è riaccesa, sui giornali e sul web, una polemica che sembrava assopita, quella sull’opportunità di rilanciare il Liceo Classico e di mantenerne la struttura originaria. Il punto centrale della questione sono le intoccabili traduzioni dal greco e dal latino, sulla cui centralità si è appuntata la maggior parte dei contributi. In particolare il dibattito è attivo sul web, sia in alcuni siti come “Le parole e le cose” (v. il link nella colonna qui a destra) sia sui cosiddetti “social” come Facebook, dove esistono gruppi appositamente creati quali “Salviamo il Liceo Classico”, “Non chiudete il Liceo Classico”, “Il greco antico” e simili.
Leggendo qua e là ciò che viene scritto sull’argomento mi sono accorto che la maggior parte dei colleghi docenti di materie classiche (il latino ed il greco soprattutto) si rivelano di idee molto conservatrici, nel senso che vanno proclamando l’assoluta necessità di mantenere il nostro liceo come è sempre stato, senza modificare nulla, e sostengono a spada tratta le traduzioni dalle lingue classiche come strumento (quasi) unico della formazione del pensiero critico. Sembra quasi, nella loro visione del problema, che il Liceo Classico sia una sorta di castello di carte che non si può toccare per timore che cada miseramente nella sua interezza, oppure una torre d’avorio dove nessuno può permettersi di entrare se non i soli “addetti ai lavori”, i quali, se accettassero qualche sia pur lieve modifica, si sentirebbero privati della loro cultura, o meglio della loro “unicità”, la particolare forma mentis del classicista che nessuno deve permettersi di toccare.
A me questa mentalità piuttosto chiusa e refrattaria a tutto ciò che esiste all’esterno della torre d’avorio sembra il modo migliore per rendere ancor meno appetibili gli studi umanistici, e per vedere diminuire ulteriormente i già pochi studenti che si iscrivono a questa scuola. Se partiamo dall’idea che noi del Classico siamo “speciali” e “intoccabili”, ciò non farà altro che aumentare le polemiche e le critiche già esistenti contro di noi e contro lo studio delle discipline umanistiche, che già molti definiscono inutili oppure, nel migliore dei casi, meno utili di altre (vedi l’inglese, l’informatica, le scienze) e comunque non più formative di altre. Se gli studiosi del mondo classico si chiudono nel loro particolarismo, cullando il loro giocattolino e rifiutando sdegnosamente di cambiarne anche un solo bottone, per loro si profila un isolamento sociale che si traduce in una sempre minor considerazione della formazione umanistica, alla quale resteranno fedeli soltanto i docenti invasati dal sacro furore della classicità e quei pochissimi studenti che si voteranno a questo tipo di sacerdozio.
Io credo di avere in merito un’esperienza non da poco, perché insegno latino e greco nel Liceo Classico da trentasei anni, ed ho al mio attivo molte pubblicazioni scientifiche, divulgative e scolastiche incentrate proprio sulle letterature antiche. Ma proprio per questa lunga esperienza non posso non accorgermi che i tempi oggi sono cambiati, gli studenti e la scuola stessa non sono più quelli di cinquanta o quaranta anni fa, quando quelli della mia generazione frequentavano il liceo. Oggi i giovani non ricevono più una rigorosa preparazione sulla lingua italiana (analisi logica, del periodo ecc.) come c’era ai nostri tempi, non studiano più alle medie il latino ma neanche la storia antica, la scuola primaria che frequentano è infarcita di progetti, lezioni alternative ecc. che non garantiscono più la continuità dell’apprendimento; a ciò si aggiunga il fatto che la promozione alla scuola primaria è praticamente scontata (ai miei tempi non lo era, si bocciava anche alle elementari!), ed ancora va tenuto conto della presenza di nuovi strumenti di comunicazione come la rete ed i social network, che hanno cambiato profondamente la mentalità giovanile ed hanno inciso pesantemente anche sulle qualità personali come la memoria, l’organizzazione logica del periodo, le capacità intuitive e deduttive. Il risultato di tutto ciò è che la traduzione dalle lingue classiche, tanto osannata e venerata dai colleghi conservatori del gruppo “Non chiudete il Liceo Classico” e di altri, è diventata ormai un lavoro da esperti filologi, non da studenti di liceo. Durante l’anno scolastico, nella maggior parte dei casi, gli alunni non fanno le traduzioni loro assegnate per casa perché dicono di avere molte altre materie da studiare, e finiscono quindi per scaricarle da certi siti internet che mettono a disposizione interi libri di versioni tradotte; e quando arrivano all’esame si fondano sul detto “Qualche santo ci aiuterà”, il che significa che riescono comunque a copiare con il cellulare (magari durante le uscite per andare in bagno) oppure ci sono professori compiacenti che – venendo meno ad ogni forma di dignità e di serietà professionale – traducono la versione e poi la passano ai ragazzi. So di fare un’affermazione grave, ma è la verità, ed in altri post ne ho spiegati i motivi.
E allora che fare? Che senso ha sostenere ancora la traduzione come il bene assoluto, come l’unica attività formativa per gli alunni, quando in pratica gli alunni stessi non traducono più? Non è meglio cercare di cambiare qualcosa ed impostare lo studio del latino e del greco anche su altre conoscenze, non solo linguistiche ma letterarie, artistiche, antropologiche ecc.? Io sono convinto che sia questa la strada per rilanciare e ammodernare veramente il Liceo Classico ed attirarvi un maggior numero di studenti: non si tratta di facilitare e banalizzare gli studi, come dicono gli austeri conservatori, ma di renderli più consoni alle caratteristiche apprenditive dei giovani di oggi. Per questo io sostengo da sempre la proposta del prof. Bettini di cambiare la seconda prova scritta del Classico, non abolendo del tutto la traduzione ma affiancandovi anzitutto una contestualizzazione del brano proposto, e poi alcune domande di tipo linguistico e retorico, ma anche storico e letterario. E va detto che quest’ultimo tipo di quesiti, oltre ad essere più difficilmente copiabile, è anche più utile per comprendere la personalità ed il grado di maturità dell’alunno stesso, che non si può valutare bene con l’unico metro delle competenze linguistiche.
La storia della letteratura e delle civiltà greca e latina non ha certamente meno importanza delle conoscenze linguistiche nella formazione degli studenti, ed è palese che essi ricorderanno negli anni futuri più il pensiero di Tucidide o di Seneca che non il genitivo assoluto o la consecutio temporum. Io stesso da molti anni attribuisco in sede di scrutinio finale più rilievo valutativo alle prove orali che a quelle scritte, fondate sulla traduzione, perché se mi basassi di preferenza su queste ultime dovrei bocciare o assegnare il debito formativo almeno a due terzi degli studenti di ogni classe, visto che nelle traduzioni sono pochi quelli che raggiungono la sufficienza. Il voler a tutti i costi mantenere il Liceo Classico così com’è, senza cambiare nulla e senza tener conto del mutare dei tempi, significa avere il prosciutto davanti agli occhi, come si dice, e vivere nell’illusione che tutto vada bene quando invece quasi tutto va male, da questo punto di vista.
In conclusione ribadisco quella che è la mia opinione in proposito. L’esercizio di traduzione dalle lingue classiche, che mantiene certamente una sua validità formativa, non va affatto abolito, altrimenti si toglierebbe agli studi classici la linfa vitale che per millenni li ha sostenuti; ma non si può considerare questo esercizio talmente centrale da svalutare ogni altro approccio al mondo antico (letterario, storico, artistico, antropologico ecc.), soprattutto in un periodo storico dove altri sono gli strumenti formativi che i ragazzi trovano sulla loro strada prima di iscriversi al liceo. Se prevarrà la tesi immobilista dei conservatori che, nell’idolatria del passato, non vogliono cambiare nulla, il Liceo Classico resterà una cattedrale nel deserto dove entreranno sempre meno persone e dove l’esimio professore continuerà a discettare sulle regoline di grammatica parlando praticamente a se stesso, nel silenzio generale e nel dileggio di tutte le altre componenti della società.

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A chi interessa la serietà degli studi?

Si è concluso da pochi giorni il periodo dedicato alle iscrizioni scolastiche per il prossimo anno 2016/17, ed è tempo di fare un primo bilancio della situazione, anche se qualche lieve cambiamento potrà avvenire di qui a luglio. Per quanto riguarda la mia scuola, che comprende vari corsi liceali, continua purtroppo il trend negativo già evidenziatosi negli anni passati: continua il calo del liceo classico, che ormai viene scelto solo da pochissimi eroi votati a questo tipo di sacrificio, ma anche il nostro liceo scientifico ha subito una durissima battuta d’arresto, con un calo di oltre il 40 per cento rispetto agli iscritti dello scorso anno. Non ho ancora i dati degli altri corsi del nostro istituto (linguistico e delle scienze umane), per cui mi limiterò a riferirmi ai primi due indirizzi sopra menzionati.
C’è da dire anzitutto che nel nostro bacino d’utenza si è verificato, proprio negli anni 2002 e seguenti, un certo calo delle nascite, ed è certamente questo uno dei motivi della nostra débacle. Facendo però una ricerca presso le scuole medie del territorio ci siamo resi conto che questa marcata flessione non si spiega soltanto con ragioni demografiche; è invece risultato chiaro che molti alunni che quest’anno si iscrivevano alla scuola superiore, specie quelle dei Comuni confinanti con altre province o altri distretti scolastici, hanno preferito istituti diversi dal nostro, magari anche molto più distanti e che non offrivano certo di più dal punto di vista didattico, logistico o tecnologico.
E’ quindi lecito chiedersi il perché di queste scelte, che ci penalizzano come scuola e ci addolorano individualmente per l’impegno che ciascuno di noi dedica al proprio lavoro. In tempi di vacche magre, purtroppo, c’è il rischio che cominci una guerra di tutti contro tutti, nella quale ciascuno accusa la propria scuola, i colleghi, il dirigente o altro che sia di essere responsabile del fallimento; si arriva cioè, quasi sempre, ad un rimpallo di responsabilità e ad una serie di proposte spesso inattuabili ed assurde che si sentono in sala insegnanti e nelle riunioni collegiali. C’è chi dice che bisogna fare tutto con il computer e i tablet, come se questi aggeggi fossero una manna del cielo e potessero sostituirsi alle capacità ed all’impegno degli studenti; chi sostiene di inserire nuovi corsi di studio o materie nuove come specchietto per le allodole; chi addirittura, in modo ancor più banale e semplicistico, propone di alzare i voti a tutti e non bocciare più nessuno, e altre perle di questo tipo.
Riflettendo sui nostri magri risultati in fatto di iscrizioni, io non ho potuto fare a meno di collegare il fenomeno della migrazione di studenti del nostro territorio verso altri lidi ad un evento accaduto qualche mese fa. Il centro di studi chiamato “Eduscopio”, che fa capo alla fondazione Agnelli di Torino (sito web: http://www.eduscopio.it) si è assunto il compito di monitorare, in tutta Italia, il livello qualitativo di ogni istituto di istruzione superiore facendo riferimento ai risultati ottenuti dagli studenti nei primi due anni di studi universitari. Ebbene, dall’indagine effettuata in questo stesso anno scolastico, risulta che i Licei della nostra città sono i primi per qualità dell’insegnamento e per livello di preparazione degli studenti non solo nel distretto di appartenenza, ma anche nella nostra provincia ed in quelle limitrofe. La notizia, quando è stata resa nota, ci ha gratificati e resi orgogliosi del nostro lavoro, che a quanto pare dà risultati brillanti e ci qualifica come scuola di eccellenza. Il dato di Eduscopio è stato pubblicizzato anche sui giornali locali come un vanto della nostra istituzione scolastica.
In realtà però, proprio nell’anno in cui ci è stato dato questo importante riconoscimento, abbiamo avuto il più marcato calo di iscrizioni. Da questo dato quindi, senza bisogno di ricorrere a sofismi e sillogismi, si può trarre la seguente conclusione: che la qualità degli studi non interessa più quasi a nessuno, anzi è un deterrente per chi deve iscriversi ad una scuola, per gli studenti ed i loro genitori. Certamente una scuola di eccellenza è una scuola che pretende impegno e serietà dagli alunni, come in effetti accade nei nostri licei; non c’è quindi da stupirsi se in una società dove predomina l’ignoranza e la superficialità, dove i giovani sono sempre più svogliati e imbambolati da Facebook e da Whatsapp, dove i genitori non si preoccupano più della preparazione dei loro figli ma mirano soltanto al voto e al “pezzo di carta”, siano ben pochi coloro che accettano di fare dei sacrifici per la cultura, la quale, com’è noto, “non si mangia” (come un raffinato politico ebbe a dire) ed è ritenuta inutile per aver successo in società e per fare quattrini in abbondanza. Oggi la serietà degli studi non è più un elemento positivo gradito a studenti e famiglie, ma un incomodo fastidio che costringe magari a rinunciare a qualche vacanza o qualche uscita con gli amici; i genitori, poi, non vogliono certamente che i loro figli stiano troppo tempo sui libri, ché si rovinano la salute. E per cosa poi? Per studiare latino, greco, matematica o scienze? E a che servono questi inutili residuati di un vecchio mondo? Tanto c’è Wikipedia, nel caso in cui a qualcuno, una volta nella vita, venisse qualche dubbio. Oggi per far soldi e successo ci vuole ben altro, e di questo ci accorgiamo ogni volta che accendiamo la televisione e osserviamo la la società intorno a noi; quindi la scuola deve essere leggera, facile, con voti alti distribuiti a pioggia senza che ad essi corrisponda nessuna reale preparazione. Così gli studenti, atterriti dalla prospettiva di dover aprire un libro, migrano verso scuole dalla fama più attraente della nostra, scuole dove si studia poco e si hanno grandi risultati in termini di valutazioni, e dove i docenti sono tutti amiconi dei ragazzi e passano come loro il tempo su facebook e su whatsapp. E poi ci meravigliamo dell’analfabetismo di ritorno e della barbarie in cui siamo caduti? Se Attila e Odoacre tornassero oggi in vita, sarebbero certamente dei raffinati intellettuali.

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Chi è il docente meritevole?

Dato che da tanto tempo, ma specialmente in questi ultimi mesi in seguito al progetto “La buona scuola” del Governo Renzi, si parla di premiare il merito nella scuola e individuare così i docenti più bravi e preparati, vorrei provare a definire le caratteristiche che un professore dovrebbe avere nella scuola di oggi, con gli studenti “nativi digitali” che ci troviamo dinanzi tutti i giorni. Mi proverò a fare questa analisi, che certamente molti non condivideranno, anche perché ho constatato che le visite al mio blog, purtroppo diminuite negli ultimi tempi, si concentrano molto sui post che riguardano la figura del docente, tipo il famoso “decalogo” di comportamento che qualche mese fa tentai di tratteggiare. Ovviamente le opinioni che esprimo sono strettamente personali, quindi criticabili e confutabili sotto ogni aspetto; ed essendo io un docente con 34 anni effettivi di insegnamento e prossimo (ahimé) alla pensione, presumo che certe mie convinzioni appaiano superate, non condivise certamente dai nipotini del ’68 di cui parlo nel post precedente a questo.
Il primo e fondamentale requisito di ogni docente deve essere, a mio giudizio, la conoscenza approfondita e quanto più possibile completa delle proprie discipline. Ciò comporta, ovviamente, anche la necessità di aggiornamento, perché i contenuti culturali variano nel tempo e vi sono sempre nuove acquisizioni e nuove scoperte. Non mi si dica, a tal riguardo, che le letterature classiche sono fisse e immutabili: non è vero affatto, perché su di esse vengono pubblicati continuamente nuovi saggi e studi, che il docente ha il dovere di procurarsi, leggere e farne uso durante le sue lezioni. Non trovo assolutamente condivisibile l’atteggiamento di coloro (e sono molti, purtroppo!) che magari si aggiornano e studiano finché sono precari; poi, una volta entrati nei ruoli, tirano i remi in barca e continuano per 30-35 anni a fare le stesse lezioni trite e ritrite e a ridire continuamente le stesse cose.
Il secondo requisito, altrettanto importante, è saper comunicare le proprie conoscenze agli alunni, cercando di rendere la lezione chiara, comprensibile e possibilmente attraente. E’ questo un compito molto difficile per ogni docente, perché interessare certi alunni alle problematiche letterarie, filosofiche o scientifiche, oggi, è un’impresa spesso disperata: basti pensare che i ragazzi vivono la maggior parte del loro tempo fuori della scuola, dove sono bombardati da messaggi televisivi e informatici che vanno in direzione opposta a quanto apprendono a scuola, messaggi che esaltano il denaro, la ricchezza, il facile successo e illudono i giovani di poter raggiungere questi traguardi senza fatica. Pretendere che un ragazzo o una ragazza di oggi provino più piacere a leggere Omero o Dante che a stare su Facebook è vana illusione; ma almeno cerchiamo di ridurre le distanze, per quanto è in nostro potere. In futuro i nostri ragazzi, divenuti ex studenti, ci ringrazieranno; e di questo sono sicuro, avendone avuto già tante dimostrazioni.
Altro requisito importante è saper tenere la disciplina e attribuire le giuste valutazioni alle prove effettuate dagli studenti. Essere arcigni e provocare un clima di terrore in classe è assurdo e controproducente; ma è altrettanto assurdo che il docente faccia l'”amicone” degli studenti, ci giochi insieme, dia confidenza ecc. Chi si comporta così è un insegnante fallito, a mio giudizio, perché non si merita il rispetto degli alunni e quindi non lo ottiene. Nelle valutazioni è parimenti errato, secondo me, distribuire a pioggia voti bassi solo per farsi rispettare, perché il rispetto lo si ottiene in altro modo; ma è altrettanto deleterio, quasi criminale a mio avviso, il comportamento di quei docenti che largheggiano coi voti e che per principio non danno insufficienze, per non mortificare gli alunni o – più spesso – per non avere fastidi da presidi e genitori. Chi si comporta così rovina i giovani che gli sono affidati, i quali non s’impegnano affatto in quelle discipline dove sanno di avere la sufficienza garantita; poi, a molti anni di distanza, si rendono conto di non sapere nulla di quelle materie e rimpiangono i docenti che, anche con i brutti voti, li costringevano a studiare. A 25 o 30 anni si comprende l’importanza dello studio; a 15 spesso no, e se la sufficienza è sicura si preferisce fare altro che non perdere tempo sui libri.
Senza dire altre cose che si trovano nel “decalogo”, aggiungo qui che la logica aristotelica del giusto mezzo mi pare ancor oggi la migliore: che cioè, in altre parole, sia giusto tenere un comportamento intermedio tra due difetti opposti, come appunto sono l’eccessiva severità e l’eccessivo buonismo che purtroppo è ancora così diffuso. Questo modo di pensare e di essere, a mio avviso, dovrebbe applicarsi anche nel comportamento quotidiano del docente, che dovrebbe affidarsi al proprio buon senso, prima che alle norme scritte sui regolamenti. Nel far valere i propri diritti con i colleghi e i dirigenti scolastici, ad esempio, trovo ugualmente errato sia l’atteggiamento di chi si sottomette e subisce anche soprusi senza reagire sia quello dei ribelli ad ogni costo, coloro che stanno sempre sulle barricate, che sono sempre pronti a far polemiche su qualunque cosa. E trovo sensato e ragionevole applicare il giusto mezzo anche nella maniera di presentarsi, nelle abitudini quotidiane e persino nel modo di vestire: a me personalmente (mi potrei sbagliare, ma io la penso così) non piacciono né i colleghi che si presentano con affettata eleganza, sempre impeccabili in tailleur o giacca e cravatta, né coloro che vengono a scuola sciatti e persino sporchi talvolta, con magliette scritte, blue-jeans strappati, trasandati e magari con la sigaretta in bocca, altro bruttissimo vizio che i professori non dovrebbero mai avere. Purtroppo colleghi così conciati esistono ancora, persone cioè che non riconoscono la dignità e il decoro del luogo dove lavorano, che non è né una spiaggia né un vicolo da scaricatori di porto. Dispiace dover dire queste cose ancora oggi, ma purtroppo è così; e a mio avviso i Dirigenti non dovrebbero emanare soltanto le solite circolari sull’abbigliamento degli studenti, ma dovrebbero controllare anche quello di coloro che agli studenti debbono essere di esempio.

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I social network e la scuola

Personalmente non sono mai stato contrario, di principio, alle nuove tecnologie: posso dire anzi di essere stato affascinato, ormai da molti anni, dallo straordinario mondo di internet, che in effetti ha rivoluzionato il nostro modo di apprendere, di comunicare (vedi l’importanza della posta elettronica), di svolgere studi e ricerche. Basti pensare che, quando ho scritto la mia storia della letteratura latina (dal titolo “Scientia Litterarum”, pubblicata a Napoli nel 2009 da Loffredo), ho scaricato da internet centinaia di pagine di testi latini e di traduzioni da collocare nell’antologia, e tutto in pochi minuti. Quanto tempo sarebbe occorso, e soprattutto quanti errori di battitura avrei compiuto, se avessi dovuto scrivere tutto a mano?
Però gli antichi Romani, che sciocchi non erano, dicevano: “ubi commoda, ibi et incommoda”, il che significa che dove ci sono dei vantaggi, lì ci sono anche inconvenienti. Il detto può applicarsi benissimo alla moderna rivoluzione della rete: accanto a indubbi aspetti positivi ve ne sono tanti altri negativi, che tutti sanno e che non è il caso qui di elencare. Ne rammento solo uno perché connesso con il mondo della scuola e molto influente su di esso: l’uso indiscriminato che i giovani di oggi fanno dei cosiddetti social network, cioè Facebook, Twitter, Ask, WhatsApp e altri ancora. Questi programmi consentono di mandarsi messaggi, scambiarsi foto, video e quant’altro in forma più o meno privata, poiché chi si intende un po’ di internet può anche entrarvi e scoprirne i contenuti, come ho già detto in un altro post dove condannavo la sciocca abitudine di certi studenti di sparlare della scuola e dei docenti credendo di restare nell’anonimato. Comunque, oltre a questo aspetto già di per sé negativo perché potrebbe portare persino a cause penali, ve ne sono altri ancor più deleteri dovuti soprattutto al fatto che i nostri alunni non fanno soltanto uso di questi strumenti, ma ne fanno abuso, nel senso che vi passano ore ed ore trascurando così sia lo studio sia tutte le altre occupazioni più utili e proficue cui dovrebbero dedicarsi. Il danno che ne riceve la loro preparazione scolastica è pesante, perché è chiaro che chi passa il pomeriggio su Facebook o su Twitter non ha più tempo di studiare, con le conseguenze prevedibili dal punto di vista dell’andamento didattico.
Il guaio più grave connesso a questi nuovi passatempi, tuttavia, non è neanche questo, perché si potrebbe obiettare che anche ai nostri tempi, quando Facebook e compagnia non esistevano, c’erano pur sempre gli svogliati e i fannulloni che, invece di studiare, se ne andavano a giocare a pallone, a carte o a chissà cos’altro. L’aspetto più deleterio è che le comunicazioni che avvengono mediante i social network sono basate sul nulla, nel senso che gli studenti, anziché affrontare in rete qualche argomento di rilievo (non dico scolastico, per carità, ma anche di attualità, di politica, di sport o di altro), sprecano il loro tempo a scambiarsi complimenti o insulti di bassissima lega, a farsi domande stupide e ridicole su Ask (che in inglese significa appunto “domandare”) come ad esempio “cos’hai nel frigorifero?” o “con chi usciresti?”, “cosa hai mangiato oggi?” ed altre molto più volgari che qui per decenza non posso riferire. In questa maniera la mente umana, già gravemente danneggiata dalla televisione, dalla musica rocchettara, da internet stesso e dagli altri mezzi di informazione attuali che forniscono messaggi già confezionati e non richiedono il ragionamento intuitivo e deduttivo autonomo, si atrofizza del tutto, come un braccio legato al corpo che non si muova più per lunghi anni. Non solo: i messaggi scambiati sui social network, per la loro stessa natura momentanea e del tutto inconsistente, vengono immediatamente dimenticati, tanto che se si chiedesse ad uno studente cosa ha scritto il giorno prima su Facebook non si ricorderebbe più nulla. Questa comunicazione “usa e getta” tipica della società attuale, dove tutto appare in forma visiva, scorre via sullo schermo e non viene mai sedimentato nella mente, si trasferisce poi anche sui contenuti delle discipline scolastiche, tanto che un alunno che ha risposto decentemente in una interrogazione svolta un determinato giorno non ricorda più nulla o quasi di quei contenuti se gli vengono chiesti nuovamente appena una settimana dopo. E’ questo il problema più grave che mi trovo ad affrontare io nella mia esperienza quotidiana di docente di Liceo: gli alunni non sono affatto più sciocchi di quanto eravamo noi negli anni ’70, sono anzi più perspicaci e ricettivi; ma con la stessa rapidità con cui imparano tendono poi a dimenticare in poco tempo tutto ciò che hanno appreso. E non credo affatto, come sostiene qualcuno, che questo dipenda da una cattiva organizzazione dello studio o al disinteresse per le materie scolastiche, perché mi accorgo che anche gli alunni volenterosi e motivati dimenticano allo stesso modo. La responsabilità di questo disastro vero e proprio, a mio avviso, è dei nuovi strumenti comunicativi tipici della società moderna, che non richiedono alcun ragionamento né riflessione critica, ma solo ricezione passiva di informazioni che si succedono con straordinaria rapidità e che la mente, proprio per questo, non riesce a immagazzinare e sedimentare. Il messaggio televisivo o informatico arriva in un momento e velocemente passa, subito sostituito dal successivo; diverso è invece il caso del libro di carta, nella lettura del quale ci si può fermare a riflettere ed eventualmente rileggere ciò che non si è compreso fino a farlo restare immobile nella nostra mente. Ecco il motivo per cui noi adulti (per non dire quasi anziani) che abbiamo vissuto la nostra giovinezza quando questi strumenti ancora non esistevano, e che ci basavamo soltanto sui libri, imparavamo molte meno cose ma le ricordavamo per sempre: io stesso, per fare un esempio personale, rammento ancora ciò che ho studiato alle elementari, con la mia eccezionale maestra di allora, oltre mezzo secolo fa. Per lo stesso motivo non dobbiamo stupirci se gli alunni che arrivano ai licei non sanno più le tabelline: non è che non abbiano le capacità di impararle, è che sono abituati da sempre a fare 7 X 6 con la calcolatrice, invece che con la loro mente.
Questa situazione già pesante è oggi ulteriormente aggravata da quei formidabili strumenti imbonitori e produttori di ignoranza che sono i social network, i quali danneggiano irreparabilmente i nostri studenti, senza che i genitori si rendano conto del pericolo. E poi si verifica che quando vengono a parlare con i professori, essi affermino ingenuamente che i loro figli passano il pomeriggio nelle loro camere a studiare, e che non ne comprendano quindi gli esiti scolastici piuttosto deludenti. Provino a controllare più da vicino i ragazzi, a calcolare quanto tempo passano sui libri e quanto su facebook o su twitter! Quando avranno compiuto questa ricerca, forse potranno dirimere i loro dubbi.

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Dottor Jekyll e Mister Hyde: la doppia vita dei nostri studenti

Chi di noi non ha letto il celeberrimo romanzo di R.L.Stevenson, Lo strano caso del dott. Jekyll e di Mr. Hyde, dove il geniale scrittore immagina che un uomo possa sdoppiarsi in due opposte personalità, collocando tutto il bene della sua anima in una e tutto il male nell’altra? Orbene, questo romanzo mi è venuto in mente in questi giorni, dopo aver letto su internet le “riflessioni” (chiamiamole così) di alcuni studenti della mia scuola. Entrando in alcuni social-network da loro frequentati (specialmente Facebook e Twitter, ma anche altri) si resta esterrefatti del linguaggio che usano, pieno di oscenità, di parolacce e persino di bestemmie, e del livore che sfogano impunemente sulla scuola e sui loro professori, ricorrendo anche ad insulti irripetibili. Eppure questi stessi studenti, se li si guarda in classe al mattino, sono generalmente cortesi, corretti e persino timidi nel rivolgersi agli insegnanti, tanto da fare a questi ultimi un’ottima impressione. Poi, quando escono di scuola, si trasformano improvvisamente in mostri tipo mister Hyde, inveendo contro i docenti, le materie di studio e tutto ciò che riguarda la scuola, magari dicendosi vittime di non si sa quale bieca tirannia che li costringe a sacrificare un po’ del loro prezioso tempo per studiare, un tempo che dedicherebbero ben più volentieri al divertimento ed al vagabondaggio.
E’ vero che l’invettiva contro la scuola e i docenti è sempre andata di moda, anche ai nostri tempi; ma allora gli anatemi venivano scagliati su una panchina del giardino pubblico o nelle stanze private di qualche abitazione, e quindi nessuno ne veniva a conoscenza. Invece oggi questi studenti, che si credono grandi ed emancipati ma sono in realtà bambini viziati ed ingenui anche a 18-19 anni, scrivono sui social network credendo che quello sia un loro spazio privato che nessuno vede; ma si ingannano, perché in realtà ciò che viene scritto su internet è pubblico e può essere letto da chiunque, anche dai diretti interessati. Ed in effetti non è bello che un docente, pienamente rispettato in classe, venga poi insultato in questa maniera vile e subdola, nella convinzione di agire nell’ombra. Vi sono colleghi che, pur sapendo di questo fatto, se ne disinteressano e non gli danno la dovuta importanza; e invece secondo me la cosa è intollerabile, perché la dignità personale di ciascuno deve essere sempre salvaguardata e nessuno ha diritto di insultare il prossimo, neanche su internet, perché un tale comportamento costituisce un reato penale e gli studenti debbono quindi sapere a cosa potrebbero andare incontro, loro e le loro famiglie se sono minorenni.
Per questo motivo, il primo giorno di scuola, ho diffidato i miei alunni dal compiere azioni simili, avvertendo che ciò potrebbe comportare, oltre a provvedimenti disciplinari scolastici, anche una denuncia penale. Ho anche informato della cosa il Dirigente della mia scuola, con il quale abbiamo concordato di avvertire gli studenti, in occasione di una prossima assemblea d’Istituto, circa le loro responsabilità ed i loro doveri.
Al di là di quello che può accadere, è comunque sconfortante l’esistenza di un fenomeno simile, che a mio parere dovrebbe far riflettere tutti i docenti, perché avviene dappertutto, in tutte le scuole o quasi. E non si può fare orecchi da mercante dicendo “lasciamo perdere, sono ragazzi”, perché le norme della vita civile debbono essere apprese fin dall’infanzia e non si può transigere quando si tratta dell’onorabilità e della dignità altrui. Questa società, con il libertarismo che la distingue, ha fatto falsamente credere ai cittadini, fin da quando sono studenti, che tutto sia lecito e che tutto si possa fare. E’ ora di rientrare nei ranghi e insegnare a questi ragazzi ad essere persone corrette e responsabili, ancor prima di trasmettere loro i contenuti culturali delle nostre discipline. E se con le buone maniere non si ottiene il risultato, si applicheranno le dovute sanzioni, senza alcun timore di passare per “repressori”. Blandire gli studenti, sostenerli sempre, anche quando sbagliano, è un pessimo insegnamento che danneggia soprattutto loro, futuri genitori e futuri cittadini.
Non so se avrò commenti a questo post. Mi auguro però che non venga in mente a nessuno di tirar fuori la solita storia della scuola repressiva, dei docenti che danno poco e pretendono molto, dei poveri studenti perseguitati ecc. Si tratta di colossali fandonie, che potevano avere un fondamento cinquant’anni fa ma non certo adesso, quando i rapporti interpersonali sono totalmente cambiati rispetto a prima, tutti noi teniamo conto dei problemi degli studenti, programmiamo le interrogazioni, aiutiamo tutti agli scrutini, anche al di là di ciò che sarebbe giusto ed equo. Se la ricompensa è questa, allora sarebbe meglio tornare alla scuola dei tempi miei (anni ’60), quando al professore non potevamo neppure rivolgere la parola, se non interpellati, e dove venivamo interrogati anche quattro o cinque volte di seguito, senza alcun preavviso. Certo, la società è cambiata, ma non deve cambiare fino al punto da poter gettare nel fango l’onorabilità di chi ha dedicato, suo malgrado, tutta la sua vita ad una “missione”, quella dell’insegnamento, che oggi ben pochi stimano e riconoscono.

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