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Un Paese di ignoranti

Un tempo la cultura era un valore positivo in ogni società; oggi invece, almeno nella nostra, è diventata per molti uno svantaggio, un inutile fronzolo, un peso da togliersi di dosso il prima possibile. E di converso l’ignoranza, un tempo condannata anche in modo eccessivo perché molte persone ne erano afflitte senza averne colpa, è diventata adesso quasi un titolo di vanto. I modelli proposti dalla TV e dai social esaltano altre qualità individuali come la bellezza fisica, il successo, la ricchezza materiale; di conseguenza il non sapere, l’essere privo di ogni competenza e di ogni conoscenza non è sentita come una mancanza, ma come un merito. La persona di cultura è spesso svalutata, ritenuta noiosa e pedante, quando addirittura non è apertamente guardata con sospetto e avversione.

Di questa attuale svalutazione della cultura nella nostra società contemporanea fornisco alcuni esempi. Nonostante che la maggioranza dei cittadini sia stata a scuola ed abbia terminato almeno un istituto di istruzione superiore, ciò non ha impedito la diffusione dell’analfabetismo funzionale: moltissime persone, infatti, sanno leggere e scrivere, ma non riescono a comprendere il senso di ciò che leggono, e se debbono scrivere non sono in grado di costruire un periodo in lingua italiana che sia sintatticamente corretto. Questo fenomeno a me sembra gravissimo: a che è servito a costoro andare a scuola per almeno tredici anni senza aver raggiunto le più elementari conoscenze di lingua? Ma il bello è che di tale condizione nessuno si preoccupa, pare anzi che questo genere di ignoranza – perché di ciò si tratta – venga comunemente accettata come facente parte della più ordinaria normalità.

A me risulta però che esista e sia molto diffuso anche un altro genere di analfabetismo, che io chiamo “di ritorno”. Mi riferisco alla limitatezza culturale di tante persone che non soltanto hanno frequentato le scuole superiori, ma si sono anche laureate diventando brillanti medici, avvocati, architetti o altro che dir si voglia. La maggior parte di costoro non legge più un libro dai tempi dell’università e presenta una spaventosa ignoranza in tutto ciò che non fa parte delle proprie specifiche competenze professionali: la storia, la geografia, la letteratura, le scienze, tutto lo scibile che hanno incontrato nel loro percorso è andato irrimediabilmente perduto. Tutto dimenticato, tutto sparito. Illustri e celebri professionisti, ricchi e famosi, non sanno chi erano Giulio Cesare o Napoleone, né quando sono vissuti né che cosa abbiano fatto, né dove si trovino l’Armenia o il Paraguay, né che cosa abbiano scritto Manzoni e Leopardi. Anche a costoro si potrebbe chiedere: cosa siete andati a fare a scuola? Cosa vi è rimasto della vostra istruzione?

Ma l’ignoranza più crassa e diffusa si vede dai social come Facebook, dove per mettere un post o scrivere un commento occorrerebbe quanto meno avere una minima conoscenza della lingua italiana; invece gli sfondoni e gli orrori ortografici e sintattici abbondano senza limiti, per non parlare della limitatezza lessicale di gente che magari, pur avendo un diploma, conosce appena 500 parole ed impiega sempre quelle. E se qualcuno che ne sa un po’ di più si azzarda a correggerli anziché ringraziarlo lo insultano, intimandogli di “non fare il professorino” e asserendo che ciò che conta è il concetto, poi se “a dormire” è scritto “ha dormire” non importa nulla, basta intendersi.

A questo punto c’è da chiedersi a cosa serva la scuola se tante persone, pur diplomate e laureate, non posseggono più neppure le competenze di base e si dimenticano in poco tempo tutto ciò che hanno studiato. Ma il problema non sta negli insegnanti, che nella gran maggioranza dei casi sono preparati e professionali, bensì nella mentalità corrente, che non conferisce alla serietà degli studi l’importanza che dovrebbe avere. La tendenza generale dei personaggi pubblici, dai divi dello spettacolo ai pedadogisti ed ai sociologi, è quella di blandire gli studenti, giustificarli sempre e comunque e soprattutto non biasimarli quando si comportano in modo scorretto, ad esempio copiando o cercando ogni scusa per non impegnarsi e ingannare i docenti; anzi, dalla TV arrivano messaggi compiacenti con tali comportamenti, come se non studiare, copiare o andar male a scuola fosse un merito e non un atteggiamento censurabile. Ho sentito celebrità televisive vantarsi di essere stati degli asini a scuola o di aver copiato i compiti, ed il tutto è accompagnato da risolini compiacenti, come se l’ignoranza che è la inevitabile conseguenza di questi atteggiamenti fosse cosa di cui andare fieri. A ciò si aggiunge la tendenza, ormai invalsa da molti anni, alle promozioni generalizzate, anche degli studenti per i quali sarebbe estremamente giovevole ripetere un anno del loro percorso. Tutte queste situazioni messe insieme non possono che dare un unico risultato: l’ignoranza, che a me pare una sciagura ma che invece, per l’opinione comune, è cosa di poco conto, anzi è auspicabile per poter controllare meglio il popolo ed imporgli una sorta di regime come quello in cui già ci troviamo, almeno da quando è iniziata la pandemia. E allora, se siamo contenti, continuiamo così: tanto, come disse qualcuno, con la cultura non si mangia.

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Graece est: non legitur

“E’ in greco; non si legge”. Con questa frase, durante il Medioevo, alcuni monaci dei vari monasteri occidentali classificavano i codici scritti in greco, lingua per loro sconosciuta e che cominciò ad essere studiata in Italia solo tra il XIV ed il XV secolo, con l’avvento dell’Umanesimo; però, nonostante questa formula, in molti conventi si continuò a trascrivere meccanicamente i testi greci, pur senza conoscerli, e così tante opere dell’antichità si sono salvate e sono giunte a noi. Forse è stata proprio questa provvidenziale ignoranza degli amanuensi cristiani medievali che ha permesso la conservazione di testi comici ed anche osceni – come le commedie di Aristofane – che altrimenti, se si fosse compreso del tutto il loro contenuto, sarebbero certamente stati censurati.
Questa frase medievale l’ho apposta così, come titolo del post, perché mi pare tornata di grande attualità: da noi in Italia il greco antico viene studiato più che in ogni altro paese europeo (compresa la Grecia stessa), ma ogni anno che passa diventa sempre più difficile per gli studenti impararlo, come si è visto anche all’ultimo esame di Stato. In molti casi i docenti, specie quelli del triennio liceale del Classico, sono costretti ad accontentarsi di interrogazioni di storia letteraria più o meno soddisfacenti, oppure di traduzioni di classici imparate a memoria, per compensare uno scritto che non soddisfa mai. Un brano di greco anche di autori considerati facili (Lisia, Senofonte, Plutarco ecc.), se gli alunni non riescono a copiare con il cellulare come purtroppo spesso succede, non ottiene in un’intera classe che quattro o cinque sufficienze. A me, almeno, capitava questo. Diciamo che l’apprendimento della lingua greca non era facile neanche mezzo secolo fa, quando io iniziai il Ginnasio, ed anche allora molti venivano rimandati a settembre in questa materia o promossi a stento e sempre grazie all’orale; ma da allora ad oggi le cose sono notevolmente peggiorate e pertanto non sbaglieremo di molto se diremo che, nella fattispecie attuale, tolti quei tre o quattro alunni per classe che sono particolarmente studiosi o hanno specifica inclinazione per le lingue classiche, il greco non si impara più. Un gran numero di studenti termina il liceo, e magari anche con un buon voto, senza saper tradurre neanche un rigo di un autore greco di media levatura.
Vediamo quali possano essere le cause di questa situazione, che non sono certo io il primo a denunciare: già circa trent’anni fa il prof. Luigi Moretti,illustre epigrafista dell’Università di Roma, diceva che, viste le condizioni in cui gli arrivavano gli studenti riguardo al greco, sarebbe stato molto meglio al liceo far leggere una tragedia intera in italiano piuttosto che costringerli ad imparare, imprecando e sbuffando, qualche centinaio di versi in lingua. Già allora si manifestava la prima delle due cause di cui parlerò, mentre la seconda era del tutto sconosciuta. Vediamo quindi qual è “la prima radice” della decadenza delle lingue classiche (e soprattutto del greco) nella nostra scuola. Io la identifico con la progressiva perdita delle conoscenze di lingua italiana, più che con l’abbandono del latino alla scuola media, come alcuni sostengono. Se fin dalle elementari si imparasse a leggere ed a scrivere correttamente, a identificare le varie parti del discorso, a riconoscere le funzioni logiche dei vari componenti della frase, sarebbe questa già una buona base per imparare le lingue classiche; a ciò si dovrebbe aggiungere poi, alla scuola media, lo studio specifico dell’analisi logica e di quella del periodo, in modo da padroneggiare quelle strutture linguistiche che sono alla base dello studio del latino e del greco. Banalmente dico: se uno studente che arriva al Ginnasio non sa la differenza tra verbo attivo e passivo, tra soggetto e complemento (oppure crede che ogni complemento introdotto da “di” sia di specificazione!), tra proposizioni principali e subordinate, come potrà apprendere la morfologia e la sintassi delle lingue classiche? Il discorso vale ovviamente anche per il latino, ma mentre in questa materia gli studenti si muovono meglio per la maggiore vicinanza con l’italiano, con il greco invece, magari non all’inizio ma nel prosieguo degli studi, le difficoltà sono maggiori perché questa lingua possiede un sistema verbale particolarmente complesso, una sintassi diversa da quella latina e soprattutto un lessico quasi del tutto ignoto agli studenti. A mio giudizio non è tanto la mancanza del latino alla scuola media che ha danneggiato le lingue classiche, quanto la mancanza dell’italiano: dagli anni ’70 in poi infatti, specie per il nefasto influsso delle idee sessantottine, in molte scuole si è quasi cessato di far studiare la grammatica, ritenuta un residuato della vecchia scuola classista, per lasciare spazio ad altre attività, a progetti spesso inutili e fuorvianti. Si sono aboliti dettati, riassunti e temi perché ormai “obsoleti” sostituendoli con esercizi e letture del tutto inutili per la conoscenza della propria lingua. Non meravigliamoci quindi non solo del fallimento nello studio delle lingue antiche, ma neanche dell’ignoranza linguistica oggi così diffusa nella nostra società, dove trovare uno scritto senza errori di ortografia e periodi sconclusionati è ormai diventata una rarità.
Ma c’è anche una seconda causa che ostacola gravemente l’apprendimento liceale delle lingue classiche e soprattutto del greco: la diffusione della rete internet e degli strumenti informatici. La tecnologia, si sa, non è di per sé né buona né cattiva; dipende dall’uso che se ne fa. Se è indubbio che le novità telematiche abbiano rappresentato un grande progresso ed abbiano dato vita a tante opportunità prima sconosciute, è altrettanto certo che esiste anche il rovescio della medaglia, che nella scuola si manifesta con grande evidenza. Tutti gli studenti di oggi posseggono uno smartphone, quasi tutti anche un tablet e un computer, e tutti o quasi usano i cosiddetti “social” (facebook, instagram, twitter, ask ecc.); e questo è già un grave danno, perché tutto il tempo ch’essi passano su questi aggeggi (che non è poco!) è tempo tolto allo studio. Ma il problema non è soltanto questo, c’è ben di peggio. Va detto intanto che i mezzi informatici di oggi offrono i vari contenuti oggetto di ricerca in forma già compiuta, riducendo di molto la necessità di arrivare ad un certo risultato con le proprie facoltà intellettive; pensiamo ad esempio ai calcoli matematici, che nessuno svolge più da solo perché ci sono le calcolatrici; pensiamo che nessuno si sforza più di ricordare, ad esempio, dati storici, geografici e letterari, perché basta andare su Wikipedia e si trova tutto già pronto. Questa situazione ha fatto sì che proprio quelle qualità mentali come l’intuito, la deduzione, l’esercizio della memoria, che sono proprio le facoltà richieste per la traduzione di un brano di greco, si siano quasi del tutto perdute. E’ come se una persona si legasse un braccio al corpo per quarant’anni: una volta sciolto, non riuscirebbe più a muoverlo. E come si atrofizzano gli organi del corpo, così fanno anche le facoltà della mente. E c’è anche un’altra cosa da aggiungere per quel che concerne lo studio delle lingue antiche: che gli studenti di fatto oggi non traducono più, perché se il docente assegna delle versioni da svolgersi a casa loro non le fanno più da soli, ma scaricano agevolmente le traduzioni da internet, dove siti compiacenti offrono questo servizio riportando già tradotti tutti i brani presenti sui versionari adottati nei licei italiani. Durante i compiti in classe, poi, si ingegnano a trovare la versione con il cellulare su internet e copiarla; e spesso la furberia riesce, perché i docenti non possono perquisire gli studenti né controllare contemporaneamente venticinque o più persone, e se chiedono ai ragazzi di consegnare i cellulari essi ne consegnano uno e ne tengono un altro nascosto. Questo giochetto viene effettuato spesso anche agli esami di Stato ed i vari ministri dell’istruzione, pur consapevoli di quanto accade, non hanno mai fatto nulla per impedire questa vergogna.
Enunciate le due cause principali, non resta che ammettere che ci troviamo in una situazione penosa per quanto riguarda l’apprendimento del latino ed ancor più quello del greco. Sinceramente io non mi sento di suggerire soluzioni miracolose perché non esistono, a meno che non si voglia risolvere radicalmente il problema allineandoci a quanto avviene negli altri paesi europei, dove le lingue classiche sono ridotte a zero, o quasi. Purtroppo, quel che una volta era un vanto della scuola italiana, oggi si è ridotto ad una mera esteriorità, che tanti classicisti difendono ad oltranza per non ammettere il fallimento che ci sta dietro. Però, oltre a constatare la situazione oggettiva, non si può dire molto di più: ciò che è difficile, in effetti, non è fare la diagnosi di questa malattia, ma trovarne una cura. Una cosa è certa: se le cose continuano come vanno adesso, questa cura non la si troverà mai.

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Il femminismo linguistico, altra aberrazione dei giorni nostri

Quando si parla del movimento femminista degli anni ’70 e delle sue propaggini che arrivano fino ad oggi, si è portati a pensare ad argomenti di tipo politico e sociale come l’uguaglianza dei diritti, le pari opportunità di lavoro, il rispetto della dignità della donna in famiglia e in società e così via. Questi grandi temi hanno riempito per decenni le aule parlamentari, i dibattiti televisivi e gli organi di stampa, tanto che sono state emanate molte leggi a riguardo, oltre al diffondersi di una mentalità generale, di un pensiero comune, che ha finito in certi casi per sconfinare nell’ingiustizia e nella discriminazione al contrario: mi riferisco, ad esempio, alle cause di tipo matrimoniale, dove i giudici tendono quasi sempre a dare ragione comunque alla moglie, alla quale vengono affidati non solo i figli ma anche la casa coniugale, il mantenimento ecc., mentre il marito si vede spesso privato di tutto, rovinato economicamente e costretto persino a dormire in macchina perché non ha più un alloggio. Questo lo dico tanto per ricordare che le ingiustizie e le violenze accadono nei confronti di entrambi i sessi, non di uno soltanto.
Ma lasciamo perdere questo argomento, perché nel presente post intendo riferirmi ad altro, ad un’abitudine cioè di recente introduzione che si allinea al cosiddetto “politically correct” tanto in voga oggi; un’abitudine che, pur di eliminare ciò che in certi ambienti si ritiene una discriminazione, va addirittura a finire nel ridicolo. Mi riferisco a quello che io chiamo “femminismo linguistico”, una moderna aberrazione che fa violenza alla nostra lingua in nome di un presunto rispetto del genere femminile, rispetto del quale non c’è affatto bisogno. Così, nell’illusione di dare alle donne la stessa importanza sociale degli uomini, si sono creati orrendi neologismi che fanno a pugni con la lingua italiana, la quale non li ha mai previsti finora: per ricordarne solo alcuni cito “la ministra”, “la sindaca”, “la prefetta”, “la questora” (pare di risentire la famosa battuta di Totò in un suo celebre film: “Che mi portate in questura dal questore a quest’ora?) e via dicendo. Questi nuovi sostantivi sono ridicoli perché non previsti dalla lingua in quanto queste funzioni, in passato, erano esercitate solo da uomini; adesso ben venga la novità, ma non c’era affatto bisogno di questi mostri linguistici, poiché chi li ha creati non ha tenuto conto del fatto che le differenze sessuali ce l’hanno le persone ma non le cariche e le istituzioni; perciò si potrebbe e si dovrebbe continuare benissimo a dire “il ministro”, “il sindaco”, “il prefetto” anche se queste funzioni sono ricoperte da donne, nessuno toglierebbe a queste persone la loro dignità. In altri casi la lingua prevedeva già il passaggio dal maschile al femminile, e quindi è lecito usare entrambi i termini: si è sempre detto, infatti, “avvocatessa”, “professoressa”, “deputata”, “senatrice” ecc., anche se si potrebbe pure in questi casi continuare ad usare il maschile, sempre perché la persona ha il sesso, ma non la funzione. Nella scuola, ad esempio, si usa dire “la preside” se il Dirigente è donna, ma non sarebbe affatto necessario, perché il termine “preside” o, più di recente, “dirigente” indica anch’esso una funzione, e come tale non ha sesso. Nella mia carriera di docente, tanto per fare un caso personale, ho avuto per lungo tempo una dirigente donna la quale si faceva chiamare normalmente “la preside”, ma che usava invece definirsi al maschile (“il preside”) quando voleva riaffermare la sua autorità. Anche il termine “presidente” può essere usato al maschile anche quando si tratta di una donna, e appare quindi grottesca ai miei occhi l’ostinazione della signora Boldrini a far ristampare tutte le carte intestate riguardanti la Camera dei deputati, con notevole spreco di denaro, perché voleva che in calce ci fosse scritto “la presidente” al femminile. Si tratta di un femminismo sciocco, di facciata, che non cambia nulla, è assolutamente inutile e linguisticamente errato.
Da alcuni anni questo assurdo femminismo linguistico ha lanciato anche un’altra pretesa altrettanto grottesca, quella cioè di inserire sempre il femminile accanto al maschile, o addirittura prima di esso: così si è cominciato a dire “le cittadine e i cittadini”, “le studentesse e gli studenti” (celebre il famigerato Statuto di Berlinguer che si intitola proprio così), “le spettatrici e gli spettatori” e così via. Questa usanza è ancora più stupida di quella ricordata prima, è un’altra aberrazione del cosiddetto “politically correct” che va per la maggiore ma che non denota altro se non l’ignoranza di chi propone e adotta cose simili, poiché si dovrebbe sapere che in tutte le lingue del mondo, antiche e moderne, il maschile riassume anche il femminile: perciò, se dico che alle prossime elezioni voteranno “tutti i cittadini”, io intendo uomini e donne, senza alcun bisogno di ulteriore specificazione; se dico “i miei studenti” intendo tutti, maschi e femmine, pur in una scuola come la mia dove le ragazze sono in netta maggioranza. Questa usanza è solo un inutile orpello atto a complicare le cose e rendere più faticosa l’espressione di chi parla o scrive, senza che ve ne sia alcuna necessità pratica. Non è così che si difendono realmente i diritti delle donne ad essere considerate pari agli uomini, un principio sacrosanto nella nostra società che non ha bisogno di continue riaffermazioni. Tanto più quando a farne le spese è la nostra povera lingua italiana, già umiliata e offesa dagli anglicismi e da tanti altri usi distorti che già in altri post ho ricordato.

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I docenti “anziani” sono da rottamare?

Qualche giorno fa è uscito sul “Corriere della Sera” un articolo a firma del noto giornalista Gian Antonio Stella, al quale è molto difficile non replicare, soprattutto per un docente come il sottoscritto. L’esimio giornalista, salito agli onori della cronaca per il famoso libro “La casta” in cui metteva in luce tutte le magagne della classe politica, ha qui mostrato di avere la pretesa, se non la presunzione, di voler parlare anche di argomenti su cui non è abbastanza informato, non facendo egli parte dell’ambiente e del settore di cui pretende di occuparsi. In pratica, sintetizzando al massimo quanto da lui scritto, la tesi di fondo del suo articolo è quella secondo cui la responsabilità del cattivo andamento della scuola italiana (cosa tutta da dimostrare, peraltro) sarebbe dell’età dei docenti, troppo anziani per svolgere bene questo lavoro. E questa tesi viene documentata mediante il solito vecchio ritornello del confronto (che ci penalizza sempre e comunque) con gli altri paesi europei, dove l’età media degli insegnanti sarebbe molto più bassa di quella italiana.
A parte il fatto che è quantomeno azzardato, se non inopportuno, attribuire ad un unico fattore (o quasi) il livello di efficienza di una determinata istituzione; ma poi il buon Stella ci dovrebbe dimostrare con prove incontestabili – cosa che nel suo articolo non c’è affatto – che un docente giovane sia sempre e comunque didatticamente più efficace di chi ha alle spalle già molti anni di insegnamento. Io francamente non riesco a vedere come l’età possa essere, di per sé, una discriminante per decidere chi è più o meno preparato, più o meno adatto a questo mestiere. Forse l’unico argomento a favore dei docenti giovani (che peraltro Stella non nomina espressamente) è la presunta loro maggiore familiarità con l’informatica e con l’inglese, i due idoli (assieme all’impresa, le tre I di berlusconiana memoria) dei governi degli ultimi anni, di qualunque colore politico siano. Ora io dico che questo pregiudizio è manifestamente infondato, e per due ragioni: in primo luogo non è detto che un insegnante anziano non sappia usare computer, tablet ecc. quanto basta per le esigenze che ci sono attualmente nella scuola, o che sappia l’inglese meno di un giovane; in secondo luogo, è l’ora di finirla una buona volta con questa sbornia informatica e anglicistica. Come più volte ho detto in questo blog, i nuovi strumenti informatici, pur essendo un sussidio senz’altro utile, non possono sostituire gli strumenti tradizionali, e di ciò è prova il fatto che negli Stati Uniti, dove le nuove tecnologie si usano da molto più tempo che da noi, stanno tornando ai libri ed ai quaderni; lo stesso vale per l’inglese, lingua importante a conoscersi ma che non costituisce certo la panacea di tutti i mali. Sarebbe molto più opportuno che i nostri giovani imparassero bene l’italiano prima dell’inglese, cosa che purtroppo non è così scontata!  Ed il primo requisito di un buon docente, a mio parere, è la conoscenza approfondita delle discipline che insegna e la capacità di saperle trasmettere con chiarezza ed entusiasmo agli alunni, suscitando in loro curiosità intellettuale e la volontà di porsi delle domande. Profondamente convinto di ciò, io sarei disposto a credere alla tesi di Stella soltanto s’egli riuscisse a dimostrarmi che queste qualità essenziali si trovano sempre in misura maggiore in un insegnante giovane rispetto ad uno di più provata esperienza.
Anche un docente anziano può essere motivato, può avere ancora entusiasmo per il suo lavoro, può aggiornarsi come e meglio di un giovane. In più ha l’esperienza, che gli consente di porsi di fronte ai problemi da affrontare ogni giorno con un ventaglio più ampio di rimedi e di soluzioni, cosa che un giovane alle prime armi spesso non riesce a fare ed è costretto a chiedere consiglio a noi “vecchietti”. Anch’io, che adesso ho 61 anni compiuti proprio oggi, sono stato un giovane insegnante di 26 anni, ed ho compiuto allora tanti errori che oggi non compio più, come quello di valutare gli studenti in modo troppo rigido e di non tenere abbastanza conto della fragilità psicologica che molti ragazzi hanno; ho poi imparato con il tempo e l’esperienza che la valutazione è un processo molto complesso, che deve prendere in considerazione tanti fattori e soprattutto non deve mai abbattere l’autostima degli alunni, ma anzi infondere coraggio e fiducia a chi, inevitabilmente, subisce insuccessi scolastici. I metodi stessi di verifica del lavoro degli studenti sono cambiati: ho sperimentato per anni varie tipologie dopo che quelle iniziali si erano rivelate inadatte, e la stessa cosa potrei dire per tutti gli altri aspetti della vita professionale (rapporti con i colleghi, i genitori, i dirigenti ecc.) che sono andato migliorando nel corso del tempo. Noto invece che i colleghi giovani (specie i supplenti) molto spesso non hanno buoni risultati, o perché la loro preparazione è troppo teorica e lontana dalle necessità effettive della scuola (e di ciò la colpa è tutta dell’università attuale), o perché non hanno quell’autorevolezza che permette di essere rispettati dagli alunni senza doversi imporre con la forza, o perché, presi dal “sacro furore” dell’alta cultura, hanno pretese eccessive e non sanno calibrare il loro metodo valutativo alle condizioni reali ed effettive della scuola attuale e degli studenti.
L’articolo di Stella, da respingere in toto a mio modo di vedere, può essere nato soltanto da una mentalità oggi tanto diffusa quanto errata, quella cioè del giovanilismo che già da tempo ha invaso la sfera della politica (a partire dalle famose “rottamazioni” di Renzi) e che tende ad invadere ogni settore della vita sociale. Si tratta di un pregiudizio totalmente infondato, perché non esiste nessuna prova del fatto che un politico, un medico, un avvocato, un insegnante giovane siano per forza di cose migliori e più efficaci dei loro colleghi più anziani, a meno che non si parli di attività sportive dove a 35 anni si è già vecchi; ma in quelle professioni in cui non è la prestanza fisica ma quella intellettuale ad essere richiesta, è vero l’esatto contrario. Richiamandomi al mio caso personale, affermo che a 61 anni ho ancora più entusiasmo nello svolgere il mio lavoro di quando ne avevo 30-35, e di ciò si sono accorti sia i miei alunni che i loro genitori; e aggiungo anche che, a differenza di tanti miei colleghi, io non bramo affatto la pensione, che accetterò solo quando mi verrà imposta a forza di legge. Perciò rifiuto su tutta la linea lo sciatto giovanilismo del sig. Stella, e dal suo articolo ricavo un motivo in più per alimentare un altro po’ la mia naturale antipatia per la categoria dei giornalisti.

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La lingua italiana umiliata e offesa IV: gli anglicismi

Ecco il quarto e ultimo post sulle sofferenze oggi patite dalla nostra lingua, che mi decido a scrivere con una certa amarezza perché temo che al problema qui ricordato non vi sia rimedio. Inizio con una premessa che mi pare necessaria, cioè che io considero la lingua di un popolo, quella in cui si è espressa la sua letteratura e la sua cultura in genere, un tratto distintivo e irrinunciabile della sua identità storica, politica e sociale. Una nazione come la nostra, che con la sua arte figurativa, la sua musica, la sua letteratura ha dominato il mondo per secoli, dovrebbe preservare la purezza della sua lingua come un patrimonio prezioso; e invece, da molti anni ormai, assistiamo ad un continuo imbastardimento dell’italiano e al suo continuo arretrare di fronte all’irrompere prepotente e irrispettoso dell’inglese, che ha ormai contagiato a tutti i livelli ed in tutti i settori il nostro modo di parlare quotidiano. Il fenomeno è a mio parere molto increscioso, perché inquinare la propria lingua con il lessico, la fraseologia, la sintassi di un’altra significa, in certo modo, rinunciare alla propria identità culturale ed anche alla dignità collettiva di un Paese che, dopo aver primeggiato in Europa e nel mondo per tanti aspetti, si trova adesso ad essere svilito addirittura dai propri abitanti; io credo infatti, e non ho remore ad affermarlo, che questa schiacciante invasione dell’inglese, cui molte persone aderiscono forse perché sembra loro di essere più “chic” a inserire nel proprio eloquio tanti anglicismi e americanismi, sia solo una delle tante manifestazioni di quell’autolesionismo, di quella svalutazione e vilipendio di tutto ciò che è italiano e nazionale da cui tante persone sono affette. In ogni settore della vita pubblica è in voga oggi la più becera esterofilia: a sentire molti politici, giornalisti e persone comuni, i paesi stranieri sarebbero un Eden, un Eldorado dove tutto funziona perfettamente, mentre l’Italia sarebbe il ricettacolo di tutti i mali, di tutte le inefficienze, di tutte le ingiustizie. Io ho cercato, anche in questo blog, di ribaltare questa vergognosa mentalità che danneggia gravemente il nostro Paese, dato che siamo proprio noi italiani ad infamarlo. Ho anche dimostrato, almeno per il settore che dove lavoro da 35 anni, che la nostra scuola non è affatto l’ultima d’Europa; a me risulta il contrario, dato che ogni volta che ho avuto a che fare con docenti e alunni stranieri (inglesi, francesi, americani) ho trovato un’ignoranza abissale, mentre posso provare che i nostri studenti – anche quelli mediocri – quando vanno all’estero ottengono risultati strabilianti e surclassano quelli del luogo. Un motivo ci sarà… o no?
Tornando al problema della lingua, trovo assurdo e avvilente, oltre che autolesionista, imbastardire l’idioma più bello del mondo con l’intromissione forzata di anglicismi spesso orrendi e per giunta niente affatto necessari. Si potrebbe giustificare l’uso di un termine straniero qualora non esista in italiano un esatto corrispondente: ad esempio “computer” va lasciato in inglese, perché tradurlo “calcolatore”, come fanno i francesi, sarebbe fuori luogo in quanto oggi il PC è tutto fuorché un calcolatore numerico. La parola straniera potrebbe ancor comprendersi allorché esista un corrispondente in italiano ma sia disusato o arcaico: un esempio è “baby sitter”, che non mi piace affatto ma che non mi sento di sostituire con “bambinaia”, termine ormai fuori uso ed anche un po’ ridicolo. Però, al di fuori di casi come questi, perché non usare la lingua italiana? Dovrebbero spiegarmi i nostri politici quale necessità c’è di dire “spending revue” quando si può dire benissimo “revisione della spesa”, oppure “job act” invece di “riforma del lavoro”; e del pari dovrebbero spiegarmi, certi giornalisti, perché sia necessario dire “shopping” quando si potrebbe benissimo dire “acquisti”, o “footing” invece di “allenamento, corsa”, o “public relations” anziché “pubbliche relazioni”, che ne è l’esatto corrispondente. Potrei comprendere l’invasione dei forestierismi se la nostra lingua fosse deficitaria e lessicalmente povera; ma se ce n’è al mondo una estremamente ricca di termini e di diverse accezioni, questa è proprio l’italiano. Perché ricorrere all’inglese quando non ce n’è alcuna necessità? Io penso che i motivi siano due, quelli che ho già accennato: il voler seguire scimmiescamente le tendenze del momento (pardon, il “trend”)e la scarsissima stima che noi italiani, purtroppo, abbiamo di noi stessi e della nostra Patria. Altrimenti, quando il ministero dell’istruzione promulgò l’inserimento della figura del “tutor” nella scuola, l’avrebbe ripreso dal latino e non dall’inglese; io mi illusi che così fosse, ma dovetti poi amaramente ricredermi quando trovai scritto il plurale di questo termine, che mi aspettavo fosse “tutores”, ed invece era “tutors”!
L’infatuazione anglicistica si è diffusa ovunque come un’epidemia, tanto che l’inglese è diventato la materia più importante di tutte, è ritenuto indispensabile, ineludibile, irrinunciabile! Nella scuola superiore è già in atto lo sconcio provvedimento targato Gelmini che vuole che nell’ultimo anno dei Licei si insegni una materia in inglese; nelle nostre università esistono ormai corsi e Falcoltà interamente in inglese. Ma perché? Forse che in Inghilterra o in America esistono facoltà in italiano, benché sia palese che la nostra lingua ha contribuito alla cultura mondiale molto più della loro? Io non ho nulla contro lo studio dell’inglese, oggi necessario, ma la nostra coscienza e identità culturale di italiani dovrebbe indurci a proteggere la nostra lingua e semmai a valorizzarla, non a mortificarla e offenderla come noi stessi, purtroppo, stiamo facendo. Nel deprecato ventennio fascista ciò avveniva, ed erano addirittura vietate la parole straniere, perché allora il senso di Patria era molto più sviluppato, non andava di moda infangare il proprio Paese come stiamo facendo adesso. Mi rendo conto che oggi sarebbe improponibile tornare ad un protezionismo linguistico come quello di allora, che voleva si dicesse, ad esempio, “autorimessa” invece di “garage” o “quisibeve” invece di “bar”; ma un giusto mezzo di aristotelica memoria sarebbe la scelta migliore. Prendiamo esempio dai francesi, i quali hanno ben chiaro il concetto della propria identità linguistica e culturale, e non permettono agli anglicismi ed agli americanismi di inquinare la loro lingua. Sono forse reazionari? Io non penso affatto che lo siano, credo invece che si sentano sì europei, ma prima di tutto francesi. Ed è questa, secondo me, la scelta più giusta e più civile.

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La lingua italiana umiliata e offesa III: le parole antipatiche

Premetto che, in questo terzo post dedicato all’uso odierno della lingua italiana, parlerò di alcuni termini che non sono affatto errati o impropri; sono soltanto fortemente antipatici al sottoscritto, tanto che sentirli ripetere alla televisione o alle persone in strada mi genera un incontenibile senso di fastidio. Poiché tuttavia la simpatia o l’antipatia per qualcuno o per qualcosa sono sensazioni molto soggettive, ci sarà ovviamente chi non condividerà queste mie osservazioni, chi si stupirà per quanto io affermerò all’indirizzo di parole che ai più sembrano perfettamente normali. Anche in questo caso le riferisco senza alcun ordine predefinito, ma solo nella sequenza in cui mi vengono in mente.
Cominciamo dalla prima. Quando alla tv o sui giornali si parla di una donna in gravidanza, si usa dire che ha il “pancione”. A me questa parola fa orrore, mi sembra fortemente irrispettosa nei confronti di un evento, la maternità, che è quanto di più bello e naturale possa esistere al mondo. Una donna in attesa di un bambino è avvenente anche più di prima, perché reca in sé la vita; attribuirle questo termine volgare e grossolano ce la fa immaginare invece quasi come una creatura deforme, mostruosa, persino repellente, cioè il contrario della realtà. Mi fa orrore sentirlo dire, il che purtroppo accade molto spesso.
Altro termine che non sopporto da parte dei giornalisti è “Pasquetta”, con cui designano il giorno seguente a quello della Pasqua. Mi sembra una mancanza di rispetto verso la festività cristiana, alla quale viene applicato questo rozzo diminutivo che fa pensare alla baldoria, alla vita gaudente, alla gita in campagna, dimenticando così il suo valore religioso. In realtà il nome più appropriato per questo giorno è “Lunedì dell’Angelo”, e non si vede il motivo per cui lo si voglia evitare a vantaggio di un altro molto più banale ed edonistico.
Altro orribile neologismo molto frequente nel linguaggio odierno è “vacanzieri”, per designare coloro che, magari dopo mesi di lavoro, si concedono giustamente alcuni giorni di villeggiatura. Etimologicamente è un brutto calco dal francese “vacancier”, del quale non c’era affatto bisogno perché la lingua italiana si sa sempre esprimere da sola. Al mio orecchio suona malissimo, perché mi dà la sensazione di contenere una sorta di ironia (se non di malcelato disprezzo) per chi parte per le vacanze, come se quelli che si mettono in viaggio per le località di villeggiatura fossero dei sempliciotti che vanno a imbottigliarsi sull’autostrada. A volte è vero, ma cosa possiamo fare se abbiamo tutti le ferie ad agosto?
Tra le altre parole che urtano la mia sensibilità voglio segnalare anche l’uso frequente del verbo “consumare” per descrivere la dinamica di un fatto di cronaca nera. I nostri giornalisti amano dire che “l’omicidio (o la violenza, la rapina, o che altro) si è consumato in una gioielleria (o in strada, in una discoteca ecc.”. Ma non basterebbe dire “è avvenuto”, “è stato compiuto” o simili? Altrimenti sembra che quel delitto fosse più grande prima di essere commesso e più piccolo dopo, dato che si è “consumato”. Assurdo. E restando nel campo dei nomi alterati, un altro termine che mi fa orrore è “quizzone”, per indicare la terza prova dell’esame di Stato o i test d’ingresso alle facoltà universitarie: usando questo accrescitivo, infatti, si dà l’idea che quella prova sia costituita da domande che non finiscono mai e che mettono a terra i poveri maturandi o aspiranti universitari, il che le più volte non è vero.
L’elenco potrebbe continuare all’infinito, ed è meglio fermarsi perché la pazienza di chi legge i post sul mio blog, necessariamnente, ha un limite. Segnalo soltanto un altro bruttissimo neologismo e due termini altrettanto brutti del linguaggio giovanile. Il primo è “biscotto”, una parola che, nel linguaggio calcistico, designa un accordo truffaldino tra due squadre per ottenere un risultato (spesso un pareggio) tale da danneggiare una terza squadra, magari escludendola da un torneo; ma sul vocabolario – giustamente – questo uso non è riportato, semplicemente perché non esiste, è un’invenzione del tutto arbitraria di qualche buontempone che poi ha avuto, disgraziatamente, molta fortuna; ma io queste villanie verso la nostra lingua non le sopporto, perché sono del tutto fuori della logica e del buon senso. Quanto al linguaggio dei giovani, ci vorrebbe un post apposito per commentarlo e rilevarne tutte le assurdità e le nefandezze; qui mi limito a citare due termini orrendi purtroppo molto usati, cioè “sballo” e “tamarro”. Il primo designa il divertimento eccessivo, smodato a cui purtroppo molti ragazzi di oggi si dedicano anche facendo uso di alcool e droghe; la mia antipatia per la parola, pertanto, non deriva dalla forma o dall’etimo, ma dal significato che le viene attribuito e nel quale non mi riconosco, anche perché le persone della mia età, quando erano giovani, avevano altri modi per divertirsi, più sani ed onesti, di quelli presunti da quella parola. Il secondo termine, che pare derivare addirittura dall’arabo, designa il giovane zotico e grossolano che “segue la moda, ma ne coglie gli aspetti più vistosi e volgari” (voc. Zingarelli); è una parola efficace come concetto, anche per una sua certa foggia onomatopeica, ma offende l’orecchio di chi a certi neologismi così arditi non è abituato e che preferirebbe, conoscendo la lingua italiana, un’altra terminologia ugualmente espressiva.
Chiudo qui questo terzo post, benché molto altro avrei da aggiungere. Ma non ho finito, perché ne ho in mente un quarto, sempre sul tema generale della violenza “consumata” ai danni della nostra lingua ma dedicato ai forestierismi ed ai latinismi maccheronici che profanano la lingua di Roma. Sarà forse più lungo, e certamente ancor più comico di questo.

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La lingua italiana umiliata e offesa II: espressioni sgradevoli

Nell’ambito di queste mie osservazioni – del tutto personali – sul modo in cui viene oggi usata la lingua italiana, vorrei dedicare questo secondo post ad alcune espressioni che, pur essendo di uso comune, mi risultano sgradevoli e antipatiche al solo sentirle, perché si tratta di neologismi che non si trovano nei veri scrittori o forse soltanto perché sono io ad avere una sensibilità particolare nei confronti del linguaggio. Sono in realtà modi di dire comparsi di recente e introdotti per lo più da giornalisti televisivi o della carta stampata, che a mio avviso suonano proprio male all’orecchio perché costituiti da termini impropri o da metafore di basso o infimo livello, neanche paragonabili a quelle letterarie. Comincio ad esporle in base all’ordine in cui mi vengono in mente.
“Bagno di folla”. Questo modo di esprimersi per me è sgradevole, in quanto il personaggio famoso che incontra i suoi sostenitori non si bagna per nulla, a meno che non piova. L’espressione è quindi del tutto fuori luogo, una metafora trita e piuttosto banale.
“Staccare la spina”. Bruttissima espressione figurata che si usa quando si vuol indicare il comportamento di chi, per periodi di ozio o di vacanza, abbandona temporaneamente le occupazioni quotidiane. Viene da un banalissimo paragone con gli apparecchi elettrici di uso quotidiano che appunto, staccata la spina, smettono di funzionare; ma riferita alle persone è orribile.
“Gita fuori porta”. Espressione immancabilmente utilizzata dai giornalisti in occasione di certe feste, come la Pasqua, in cui alcune famiglie decidono di fare una scampagnata o una passeggiata fuori città. Ma questo modo di dire è improprio, perché non tutti abitano in città nelle quali ancora sono in uso le porte, residuo delle antiche cinte murarie medievali; molti abitano in paesi o villaggi in cui le porte cittadine non ci sono.
“A monte, a valle”. Espressione molto antipatica, anche perché iniziò ad essere utilizzata negli anni delle forti contrapposizioni ideologiche e soprattutto dai cosiddetti “intellettuali di sinistra”, che spesso si vantavano con spocchia di una cultura che in effetti non era affatto superiore a quella di chi la pensava diversamente da loro. Da allora, provo fastidio ogni qual volta la sento.
“Volere o volare”. Orrendo modo di dire fondato sulla figura retorica della paronomasia, o meglio di una sua variante particolare detta “paragramma”, che consiste nell’accostare due termini distinti da un solo grafema (lettera). Ma in realtà chi ha inventato questo obbrobrio non conosceva certo la retorica classica, e ha operato solo uno sgradevole e mostruoso accoppiamento su due termini che non hanno niente in comune tra di loro.
“Nascondersi dietro a un dito”. Anche questa espressione è grottesca, perché non è possibile per nessuno celarsi alla vista altrui in questa maniera. Ma è evidente l’ignoranza dell’inventore, il quale non ha trovato di meglio che enunciare una banalità di questo genere, addirittura puerile. Forse l’inventore era un bambino, chissà.
“Alla fine della fiera”. Questa espressione è usata soprattutto nel nord Italia, ed è evidentemente ripresa dalle fiere paesane o forse dalle esposizioni su larga scala come la fiera di Milano o di Bologna. In senso figurato significa “in fin dei conti” o “tutto sommato”, che sono però molto più eleganti e appropriate rispetto a questo modo di dire piuttosto volgare e materialistico. Nelle fiere si vendono prodotti, e forse è questa tendenza dei settentrionali a guardare soprattutto al profitto ed al guadagno ad aver generato questo mostro linguistico.
“Essere se stessi”. Questomodo di dire, in uso soprattutto dagli anni della contestazione del ’68, è addirittura paradossale. Io mi sono chiesto più volte cosa possa significare un’espressione del genere. Che vuol dire “Sii te stesso”, come spesso si sente dire? Chi altro potrei essere se non il sottoscritto, a meno che non mi trasformi come il dottor Jekyll? Se ci si pensa bene l’espressione, intesa in senso letterale, è un’assurdità; meglio sarebbe dire “comportati spontaneamente”, “di’ ciò che pensi”, “sii sincero” e altro ancora, tutte cose che sarebbero migliori.
Per adesso mi fermo qui. Tra breve arriverà il terzo post, dedicato ai singoli termini sgradevoli, e forse anche un quarto che tratterà degli anglicismi e delle altre parole straniere che stanno inquinando la nostra bellissima lingua.

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La lingua italiana umiliata e offesa I: gli eufemismi

Con questo post, a cui seguiranno altri due del medesimo argomento, intendo porre l’attenzione sullo scempio che da tempo giornalisti, politici e scribacchini vari stanno compiendo contro la nostra lingua, senza dubbio la più bella del mondo. Le mie osservazioni saranno suddivise in tre parti: 1) gli eufemismi; 2) le espressioni idiomatiche oggi in uso; 3) le parole usate impropriamente o in modo del tutto arbitrario, alle quali aggiungerò anche quelle a me personalmente antipatiche, sebbene siano di uso comune. Questo post quindi è il primo di tre, perché si occupa solo degli eufemismi, cioè le parole e le espressioni più tenui impiegate per evitarne altre più pesanti o volgari.
Intendiamoci bene: l’eufemismo è sempre esistito, anche nelle lingue classiche, e si è confermato in quelle moderne; si può anzi dire ch’esso ha seguito da vicino il mutarsi dei costumi e della mentalità comune. Faccio un esempio. Nei secoli passati (diciamo fino alla metà circa del secolo XX) tutto ciò che riguardava la sessualità era considerato “tabù”, e la relativa terminologia veniva sostituita da eufemismi proprio perché quelli erano argomenti di cui non si doveva parlare a nessun costo. Le famiglie si guardavano bene dall’impartire un’educazione sessuale ai figli ed alle figlie, e se pure a certi argomenti talvolta si accennava, si doveva farlo tramite allusioni ed espressioni caste che non offendessero le orecchie dei possibili ascoltatori. Ciò che invece, nei secoli passati, non era affatto tabù ma argomento comune era la morte, della quale si poteva parlare liberamente, senza eufemismi; essa era considerata un fatto del tutto naturale e trattabile senza remore, tanto che in certi paesi d’Europa si andava ad assistere alle esecuzioni pubbliche come fossero veri spettacoli, e si abituavano persino i bambini ad osservare tranquillamente il nonno sdraiato sul letto di morte, mentre riceveva l’estrema unzione. Oggi invece questa antitesi tra sessualità e morte (gli eventi più naturali per tutti gli esseri viventi) si è totalmente rovesciata: la prima non è più un tabù per nessuno, tanto che si sono diffusi spettacoli osceni ovunque, adulti e bambini vengono continuamente bersagliati da allusioni sessuali, immagini di nudo sono presenti nella pubblicità e nei programmi televisivi, sono state ammesse e persino incensate dai mass media deviazioni come l’omosessualità ecc. La morte invece, evento connaturato inevitabilmente alla nostra condizione di esseri viventi, è stata come esorcizzata, dimenticata, rimossa dai pensieri e dalla vita di ciascuno, tanto che le persone oggi vivono come se non dovessero morire mai; eppure Seneca diceva (e aveva ragione) che “vivrà male chi non saprà morire bene.” E insieme alla morte sono state rimosse dalla mentalità odierna anche le malattie e le disabilità, nell’affannoso e talvolta patetico tentativo di far accettare come normale e usuale quello che non lo è affatto.
A questo ribaltamento ideologico è funzionale anche un diverso uso degli eufemismi. Se prima essi riguardavano soprattutto la sfera sessuale, oggi riguardano invece la morte e la disabilità, che la mentalità moderna, tutta tesa all’apparire e non all’essere, non riesce ad accettare nel loro aspetto più crudo e realistico. Così si fa molta fatica a dire che una persona è morta, ma si preferisce dire “è venuto a mancare”, “è mancato”, “non è più con noi” o espressioni simili, perché non si ha il coraggio di nominare direttamente un evento (la morte) che fa orrore al solo pensiero. Se ci pensiamo, questo uso degli eufemismi è una sorta di viltà, il non aver coraggio di rapportarsi alla realtà, alla quale comunque non si può sfuggire. Un altro eufemismo originato dalla medesima esigenza è quello di definire “diversamente abili” i portatori di handicap, i disabili, perché la società attuale non riesce più a concepire ciò che è brutto o spiacevole alla vista, colui cioè che ha delle minorazioni fisiche o mentali, e crede ingenuamente di liberarlo dal suo problema solo cambiandogli nome. Questo uso dell’avverbio “diversamente” in questo senso è persino ridicolo, oltre che ipocrita, perché a ben vedere lo si potrebbe attribuire a chiunque: così il sottoscritto, che ha ormai 60 anni (purtroppo) potrebbe essere definito “diversamente giovane”, oppure una donna brutta o bruttissima (come purtroppo ce ne sono in quantità nonostante l’attuale culto dell’estetica) potrebbe essere definita “diversamente bella” e via dicendo. Si tratta di una vera e propria ipocrisia ideologica, che ravviso anche in termini come “non vedente” per dire cieco o “non udente” per dire sordo; anche perché, nonostante abbiano loro cambiato nome, queste persone continuano nondimeno a non vedere e a non sentire.
Un’ultima osservazione sugli eufemismi riguarda certe categorie di persone le quali, non si sa perché, non possono più essere designate coi termini usati fino a pochi anni fa. E’ il caso della parola “negro”, oggi concepita come un insulto, ma che in realtà non lo è affatto: deriva dal latino “niger” e indica la persona dalla pelle scura, così come “black” in inglese significa “nero” ed è il termine in uso in America per indicare gli afroamericani e le persone di colore. Se “black” si può dire, perché non si può dire “negro”? Io continuo a non comprendere queste stravaganze linguistiche, magari inventate da qualche giornalista e poi accettate – a torto – da tutta la società. La stessa cosa vale per alcuni mestieri e professioni che, a motivo dell’egualitarismo diffuso ai nostri giorni, apparivano troppo umili e svalutati se indicati coi termini precedenti: così il netturbino è diventato “operatore ecologico”, il bidello “operatore scolastico”, il fabbro “artigiano del ferro”, e gli esempi potrebbero continuare. Questi sono casi di vera e propria violenza perpetrata ai danni della lingua italiana, alla quale non sono mai mancate parole per indicare oggettivamente persone, cose e idee, e che è stata invece artificialmente modificata per adattarla alla mentalità superficiale ed ipocrita dei tempi moderni. Anche questo, come mi pare di aver dimostrato, è uno svilimento culturale del nostro paese, ed ancor più questo concetto si evidenzierà nei prossimi due post dedicati alla stessa tematica.

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Viaggio in Germania

Era da molto tempo che meditavo l’idea di recarmi in Germania, paese che non avevo mai visto; così, approfittando delle vacanze pasquali, ho deciso di effettuare un viaggio in Baviera, precisamente a Monaco, sulle Alpi bavaresi e sul lago di Costanza; ed in quest’ultima località l’interesse era costituito, oltre che dal magnifico specchio d’acqua diviso tra tre nazioni, anche dalla bellissima isola di Mainau, detta “Blumeninsel” perché ricca di splendide aiuole e prati fioriti.
Il viaggio in auto è stato tranquillo e tutti gli obiettivi sono stati raggiunti; così io e mia moglie abbiamo potuto constatare la veridicità di quanto ci aspettavamo sulla bellezza dei luoghi e su ciò che proverbialmente si dice della Germania e dei tedeschi. In effetti, sia durante la permanenza a Monaco che durante gli spostamenti, ci siamo resi conto di come ciò che comunemente si pensa su quel Paese sia sostanzialmente vero: le città sono pulite, le persone disciplinate e attente al rispetto delle regole molto di più di quanto faremmo (e in effetti facciamo) noi italiani. Le file in ingresso ai musei ed alle pinacoteche sono rapide e regolari (nel senso che nessuno fa il furbo tentando di passare avanti), le persone a passeggio per le vie sono silenziose e corrette, gli automobilisti sono talmente gentili che, alla vista di un passaggio pedonale, si fermano anche se hanno soltanto il sospetto che tu voglia attraversare la strada, cosa che magari non hai in quel momento intenzione di fare. I limiti di velocità, inoltre, vengono rispettati alla lettera, anche quando manifestamente malposti: anche in Germania, per intenderci, ci sono strade ampie e diritte con assurdi limiti di 50 ed anche 30 Km orari, che i tedeschi osservano scrupolosamente, mentre da noi le cose vanno in maniera molto diversa. Su questo piano dobbiamo riconoscere che siamo dalla parte del torto, c’è poco da dire.
Nonostante ciò, debbo dire che i miei sentimenti verso i tedeschi non sono cambiati dopo questo viaggio; continuo infatti a non nutrire simpatia per quel senso di superiorità ch’essi mostrano nei confronti degli stranieri e soprattutto di noi italiani, verso cui hanno certamente poca considerazione. Per prima cosa ho dovuto constatare con dispetto che nell’albergo dove abbiamo alloggiato nessuno del personale sapeva una parola di italiano, tanto che ho dovuto arrangiarmi con quel poco di inglese che so, e che anch’essi non parlavano affatto bene; e a tal riguardo dico senza remore che trovo inconcepibile che in un hotel internazionale, che raccoglie ospiti da tutti i paesi dell’Unione Europea, non si parlino tutte le principali lingue di questo continente. In giro per Monaco e nei luoghi visitati (musei, chiese ecc.) tutto era scritto in tedesco e solo qualcosa in inglese; mancavano tutte le altre lingue, a dimostrazione del fatto che i tedeschi considerano la loro come unica lingua di comunicazione, nonostante che sostengano a parole l’unità europea e l’abolizione delle frontiere. Parlando poi con un cameriere che sapeva l’italiano, ci è stato detto che la Germania è giustamente il primo paese d’Europa perché è migliore degli altri: di fronte alla crisi economica internazionale, infatti, i tedeschi avrebbero preso oculate misure preventive che hanno impedito il verificarsi di ciò che è successo in altri paesi come il nostro. La realtà è che l’euro è stato voluto dai tedeschi a tutto vantaggio loro e della loro economia, mentre tutti gli altri sono stati impoveriti da questa moneta, che per noi si è rivelata un autentico capestro. Ma questo non lo dicono e non lo ammetteranno mai: loro sono superiori a tutti, sono “über alles” per dirla nella loro lingua.
In questi ultimi giorni c’è stata una forte polemica contro Berlusconi per quella sua affermazione secondo cui per i tedeschi i campi di concentramento nazisti non sarebbero esistiti. Non si può negare che la frase sia infelice ed in senso letterale falsa, perché anche in Germania i libri di storia parlano della seconda guerra mondiale, del regime hitleriano, dell’olocausto ecc.; contiene però un fondo di verità, nel senso che fino agli anni ’70 tutto questo in Germania era tabù, era escluso dai libri di storia e i tedeschi evitavano l’argomento, cercavano di rimuovere questa macchia orribile che gravava su di loro. E anche oggi, quando ormai i fatti sono noti, non mi risulta che in Germania ci si occupi molto del problema, né che ci sia per esso un autentico pentimento: durante la mia permanenza a Monaco, in effetti, non ho visto rammentare l’olocausto da nessuna parte, neanche nel maestoso “Deutsche Museum” che raccoglie infinite testimonianze di scienza, tecnica, lavorazione di materiali, aerei, navi, macchine di tutti i generi del passato e del presente. Perché i signori del “Museum” non si sono sentiti in dovere di mostrare ai visitatori come funzionavano i camion dentro ai quali venivano asfissiati gli ebrei o di far vedere come si produceva il micidiale “Zyklon B”, il gas con cui sono stati sterminati milioni di persone? L’occasione ci sarebbe stata, ma tutto è caduto nel dimenticatoio, e questo mi sembra un atto di disgustosa ipocrisia, il voler allontanare da sé, dal proprio popolo, un orrore del genere rimuovendolo, fingendo che non sia mai esistito. E’ vero che i tedeschi di oggi non hanno alcuna colpa, ma potrebbero e dovrebbero ancora sentirsi responsabili, come popolo, di quanto è accaduto, parlarne e non tacere, e soprattutto educare i giovani, per mezzo della storia, alla tolleranza ed alla fratellanza con gli altri popoli, anziché ostentare questo senso di superiorità che non mi sembra affatto giustificato. Ritengo quindi che l’affermazione di Berlusconi, certamente fuori luogo, abbia però una sua motivazione in quello che io stesso ho potuto vedere, e che le solite polemiche insultanti contro di lui dimostrino ancora una volta che non esiste ancora in Italia un dibattito politico sereno e fondato sul rispetto verso chi manifesta idee ed opinioni diverse dalle proprie.

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