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Il crepuscolo del Liceo Classico

Abbiamo appreso, da una nota diffusa dal Ministero dell’Istruzione e del merito emanata pochi giorni fa, che nel prossimo anno scolastico 2023/24 frequenterà il Liceo Classico soltanto il 5,8% degli alunni che attualmente stanno completando la scuola media. Non possiamo non rammaricarci di fronte a quello che appare come un inarrestabile declino, se consideriamo che negli anni ’90 dello scorso secolo e nei primi di questo gli iscritti a questa scuola rasentavano il 10% del totale; poi, negli ultimi anni, si è assistito ad una discesa graduale che ci ha condotti, dal 6,8% dell’anno scolastico 2019/20, al misero 5,8 attuale.

Quando si verifica un fenomeno di questo genere l’impulso primario di ognuno è quello di ricercarne le cause. Perché dunque i giovani e le loro famiglie non danno più fiducia alla cultura umanistica di cui il Classico è il primo promotore in Europa, anche considerando ch’esso è una nostra specificità italiana e non esiste in nessun altro Paese europeo? Cosa allontana i nostri giovani da una scuola che è universalmente riconosciuta come d’eccellenza? E’ una scuola che impegna molto ma che dà anche molto, che apre cioè tutte le possibili strade a livello universitario e non, una scuola che attraverso materie che sembrano inutili fornisce invece quella che è la più grande utilità che un percorso formativo può avere: formare cioè delle menti pensanti, delle coscienze in grado di analizzare criticamente la realtà ed operare in virtù di questo processo le più adatte scelte di vita. Inoltre la conoscenza delle lingue classiche migliora enormemente la padronanza dell’italiano scritto e orale, qualità questa che serve a tutti, anche agli ingegneri ed ai tecnici informatici; e consente anche di entrare nei linguaggi specifici delle discipline scientifiche (la biologia, la medicina, la fisica ecc.) i cui termini specifici derivano in massima parte dal latino e dal greco.

Queste sono ovvietà di dominio comune e generalmente ammesse da tutti. Perché allora questo progressivo distacco da una scuola che è sempre stata il fiore all’occhiello del sistema formativo italiano? Le cause possono essere molte: alcune già note da molti anni, come la millantata necessità di approfondire le materie scientifiche in una società essenzialmente tecnologica, la concezione della scuola soltanto come mezzo per inserirsi nel mondo del lavoro per cui il latino ed il greco sarebbero “inutili”, la difficoltà di un percorso scolastico troppo impegnativo, ed altre ancora. Quest’ultimo motivo, che come ripeto è ostativo da molti anni, si è accentuato oggi dopo la pandemia, in conseguenza del fatto che gli alunni provenienti dalla scuola media, avendo affrontato lunghi periodi in DAD o comunque non in condizioni normali, non si sentono in grado di affrontare l’impegno che richiede la frequenza del Classico, preferendo altre soluzioni ibride come il liceo delle Scienze Umane, che in qualche modo assomiglia al Classico ma che risulta a tutti gli effetti meno impegnativo. A ciò si aggiunge l’ostilità più o meno dichiarata di molti insegnanti della scuola media, che preferiscono consigliare ai loro alunni altri percorsi, forse anche per non essere giudicati per la preparazione che non hanno potuto (o saputo) dare ai loro alunni.

Qualunque ne siano le cause, questa è la situazione. E allora cosa dobbiamo fare noi cultori della cultura umanistica, la cui validità formativa è indiscussa nelle nostre coscienze? Vi sono come sempre tendenze opposte, che possiamo verificare anche semplicemente leggendo i commenti apposti sulle pagine dei social. In queste occasioni spuntano sempre fuori i soliti detrattori che, magari per invidia, attaccano il Liceo Classico riaffermandone la vetustà e la sostanziale inutilità; ed a costoro non meriterebbe neanche conto di rispondere, se nel nostro animo non vi fosse una qualche forma di compassione per la loro ignoranza. Ci sono poi quelli che predicano la necessità di sostanziali cambiamenti nella struttura disciplinare della scuola (meno latino e greco, più matematica e scienze, più inglese, più informatica ecc.). Ma così verrebbe fuori un ibrido che non potrebbe più chiamarsi Liceo Classico; sarebbe semmai un liceo “di cultura generale”, come quello di coloro che propongono addirittura di smettere di studiare le lingue classiche e leggere i testi antichi in traduzione. All’opposto, però, ci sono anche i conservatori irriducibili, quelli che vorrebbero un ritorno del Classico a quello che era cinquant’anni fa, tutto basato sul greco e sul latino, con giudizi sugli alunni ricavati solo dalla loro capacità di tradurre (la cosiddetta “versione secca”), e con la riduzione o l’abolizione delle materie scientifiche e dell’inglese.

Il mio parere, di un ex docente che osserva la situazione oggettiva dagli ozi della pensione, è quello di rispettare la saggezza degli antichi, quando sostenevano doversi evitare le soluzioni estreme, giacché in medio stat virtus. Non credo che si possa snaturare una scuola che è nata con Gentile con una determinata struttura ed una funzione che ancor oggi è attualissima; ma al tempo stesso non ritengo praticabile la strada di chiudersi nella “torre d’avorio” degli studi classici e rimanere ancorati a caratteristiche che andavano bene forse tanti decenni fa ma non oggi: la società è cambiata, gli studenti sono cambiati, ed è quindi illusorio e stupido pretendere ch’essi abbiano le stesse competenze che avevamo noi negli anni ’70 quando traducevamo Tucidide e Tacito come il pane quotidiano. La matematica, le scienze, l’informatica (almeno nei suoi dati essenziali) e l’inglese sono oggi necessari e ineliminabili, se ne facciano una ragione i pedanti conservatori che ancora incontro nei gruppi specifici di Facebook come “Amici della letteratura latina (o greca)” e simili. E su questo piano è stato sacrosanto, a mio parere, il cambiamento della seconda prova scritta dell’esame di Stato, perché gli alunni di oggi, tranne poche eccezioni, non sono più in grado di affrontare prove impossibili come le traduzioni da Platone e Aristotele assegnate sciaguratamente anche pochi anni or sono. Mantenersi nell’ambito della modernità, corrispondere alle esigenze della società attuale non significa “cedere le armi” come sostengono alcuni, ma adeguarsi ad una realtà con cui non possiamo fare a meno di rapportarci. Ciò però deve avvenire senza cambiare la struttura di una scuola che dev’essere in grado di far comprendere al largo pubblico il suo enorme potere formativo, unico e maggiore di quello di tutte le altre, e di spiegare che frequentare il Liceo Classico è possibile anche da parte di chi non abbia doti eccezionali, purché sia disposto ad impegnarsi. Lo studio è fatica, si sa; ma è una fatica che darà poi i suoi frutti, e chi li sa cogliere affronterà la vita e le sue grandi scelte con animo tranquillo e mente equilibrata.

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Il rientro a scuola nell’epoca del Covid

In questi ultimi 15 giorni la televisione di Stato, tutta filogovernativa, filogrillina e filopiddina, non ha fatto altro che parlare in continuazione della riapertura delle scuole, ovviamente esaltando l’impegno del ministro Azzolina e di tutto il governo Conte per arrivare a questo importante traguardo: hanno lavorato tanto per i nostri studenti, hanno speso molti soldi, hanno dato mari e monti agli studenti ed al Paese. Poi però, alla riapertura effettiva delle scuole, si scopre che tutta questa montatura celebrativa, degna della propaganda del Minculpop e di Goebbels, non era altro che un castello di carte pronto a cadere al primo impatto con la realtà: in molte scuole mancano i banchi (dopo tutta la pubblicità che hanno fatto a quelli nuovi a rotelle), mancano le mascherine e il gel sanificante, mancano le aule e soprattutto manca il personale, un numero di docenti che si calcola intorno ai 50.000. Questo la dice lunga sulla distanza che c’è tra il dire ed il fare, tra i proclami lanciati ad alta voce e la realtà a cui poi gli studenti si trovano di fronte. Eppure, come tanti giustamente hanno ricordato, di tempo ce n’è stato per provvedere a risolvere le varie criticità, visto che le scuole sono chiuse dai primi di marzo, la chiusura più lunga tra tutte quelle avvenute in Europa; durante questi sette mesi si sarebbe potuto e dovuto provvedere all’edilizia scolastica, alle opportune sanificazioni, al reperimento del materiale e soprattutto alle nomine dei docenti. E’ ammissibile, in un Paese civile, che le graduatorie per l’insegnamento contengano sempre errori e che si provochino intoppi burocratici quando le si debbono utilizzare? In questo periodo di chiusura c’era tutto il tempo per stilare le nuove graduatorie in forma definitiva e provvedere alle nomine dei docenti non di ruolo fin dalla fine di agosto. Qualcuno dei governi precedenti c’era riuscito negli anni scorsi, quello attuale no, e questo la dice lunga sull’incapacità e l’incompetenza di tutto questo esecutivo ed in particolare del comparto dell’istruzione.
Si obietterà, come è stato fatto per tanti altri settori, che il governo Conte si è trovato ad affrontare una situazione del tutto nuova, quella della pandemia di Covid-19, e che in queste condizioni non è facile trovare sempre la formula giusta per risolvere i problemi. E’ una giustificazione reale e vale anche per la scuola, ed in effetti io credo che qualunque altro ministro, al posto dell’Azzolina, si sarebbe trovato in difficoltà, fosse stato pure Gentile o qualche altro illustre personaggio un po’ più titolato di lei a ricoprire quel ruolo; ma questa motivazione è valida solo a metà, perché il reperimento dei materiali necessari, la sistemazione delle aule e le nomine degli insegnanti non c’entrano nulla con l’epidemia, le si sarebbero potute fare così come venivano effettuate in precedenza. Quello che è stato fatto, invece, è il protocollo di comportamento per alunni e insegnanti, che francamente mi sembra assurdo e molto più pesante di quello applicato in tutti gli altri paesi europei: mi riferisco soprattutto all’uso obbligatorio delle mascherine da parte dei docenti, che in alcune regioni italiane sono costretti a indossarle per l’intera durata della loro permanenza a scuola. E’ una misura eccessiva e inutile: una volta che l’insegnante è in cattedra, distante almeno due metri dai ragazzi, perché obbligarlo a tenere sul viso questa pezzuola che è sopportabile se portata per pochi minuti, ma che diventa un autentico tormento se tenuta per ore, soprattutto nella stagione calda in cui ancora ci troviamo? E poi c’è la questione dei trasporti: anche lì si è fatto poco o nulla, perché stabilire che sui pulmann si possono occupare i posti all’80% significa lasciare la situazione più o meno com’era prima. E allora a che serve tenere distanziati i ragazzi in classe quando sui mezzi di trasporto stanno tutti ammassati?
Anche a questo proposito mi vedo costretto a tornare a quel che ho sempre sostenuto fin dall’inizio, che cioè il clima catastrofico che è stato creato appositamente da questo governo ed il terrorismo psicologico dei mezzi di informazione hanno determinato la formazione di un clima di paura e di preoccupazione eccessive che ha investito tutte le componenti sociali, ben al di là di quello che sarebbe stato necessario: fermo restando, infatti, che è giusto e opportuno agire con cautela e seguire le norme precauzionali per evitare il contagio, per il resto è giusto tornare alla vita, considerato anche che attualmente le conseguenze della patologia provocata dal virus non sono più drammatiche come avveniva nei mesi di marzo e aprile scorsi; nei giovani, poi, il virus è quasi sempre asintomatico e quindi  le misure adottate nella scuola sono eccessive e talora persino grottesche, come la doppia quarantena degli elaborati scritti che passano dalle mani degli alunni a quelle del professore e viceversa. Il discorso è un po’ diverso per i docenti, che effettivamente debbono proteggersi con più attenzione; ma anche qui non è opportuno esagerare e paventare più pericoli di quelli che effettivamente ci sono. Purtroppo l’influsso negativo della campagna mediatica promossa dal governo ha contagiato anche i professori, provocando in alcuni di essi una folle paura per il rientro a scuola e addirittura patologie psichiatriche dovute allo stress. Questo è molto dannoso, perché quello del professore non è un lavoro materiale ma richiede serenità mentale, buon umore, concentrazione; ed in queste condizioni sarà molto difficile raggiungere questi obiettivi, perché non può stare tranquillo davanti ad una classe un docente che vive nel terrore di infettarsi. Per questo, oltre che per molte altre ragioni, credo che questo nuovo anno scolastico non parta con buoni auspici.

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I liceali e il “tormento” della traduzione

Qualche giorno fa, nella mia scuola, io ed i miei colleghi della classe di concorso 52 (Materie letterarie, latino e greco) parlavamo dei risultati deludenti che i liceali di oggi – sia quelli del biennio che quelli del triennio – ottengono nelle traduzioni dal greco e dal latino. Abbiamo convenuto sul fatto che in ogni classe, tolti quei pochi elementi particolarmente inclini a questo tipo di esercizio o dotati di notevoli capacità intuitive, la gran maggioranza degli studenti fa una gran fatica di fronte ad un brano di prosa anche semplice scritto nelle lingue classiche, affannandosi per ore sul vocabolario per produrre poi traduzioni fortemente inesatte ed a volte addirittura disastrose, senza contare la pessima forma italiana in cui vengono redatte.
La situazione descritta sopra non è un’opinione o un caso particolare di qualche scuola, ma un dato di fatto ormai accertato ovunque. Che i giovani di oggi non siano più in grado di interpretare testi latini e greci, a meno che non siano di livello elementare, è cosa nota da anni: già alcuni decenni fa, in effetti, vari studiosi si erano occupati del fenomeno, ed al riguardo ricordo un articolo scritto dall’epigrafista Luigi Moretti dell’Università di Roma, il quale suggeriva ai docenti liceali di smettere di costringere gli studenti a leggere “sbuffando e imprecando” poche centinaia di versi di una tragedia greca; meglio sarebbe stato, a suo giudizio, leggerla per intero in traduzione. Se questa era un’autorevole opinione espressa trent’anni fa, tanto più il problema di pone oggi, quando la moderna tecnologia ha messo a disposizione degli studenti strumenti capaci di accerchiare facilmente gli ostacoli. Ciò cui intendo riferirmi è l’abitudine ormai invalsa di scaricare le traduzioni di latino e greco da internet, dove esistono alcuni siti che riportano, tradotti, tutti i brani di versioni presenti nei vari libri in adozione nei licei. Considerato quindi che i nostri studenti praticamente non si esercitano più nel tradurre, e tenuto conto anche del fatto che i social network (facebook, whatsapp, ask, twitter ecc.) assorbono molto del loro tempo e contribuiscono sensibilmente alla perdita di quelle qualità intuitive e deduttive indispensabili per svolgere un’attività di ragionamento autonomo qual è quella che si richiede per interpretare i testi classici, non rimane altro che pensare a una diversa soluzione del problema. Altrimenti durante i compiti in classe continueremo a vedere i nostri studenti sbuffare e imprecare, sudando freddo, per consegnare poi una traduzione quasi sempre insoddisfacente; oppure, quando ci riescono, tenteranno di copiare la versione con cellulari nascosti durante il compito collegandosi a quei famosi siti che già utilizzano per i compiti a casa. Durante l’esame di Stato poi gli studenti o riescono a copiare con lo smartphone (visto che i presidenti di commissione non esercitano una gran sorveglianza) oppure trovano un professore compiacente, interno ma qualche volta anche esterno, che traduce la versione al posto loro. Sono parole crude, queste, ma è la realtà.
E allora, sic stantibus rebus, come si puù uscire da questo labirinto? E’ inutile, secondo me, continuare a osannare la traduzione dal greco e latino ricordando a ogni piè sospinto il suo valore formativo e considerandola come fosse l’unico obiettivo che gli studenti debbano conseguire: esistono altre conoscenze e competenze, come quelle letterarie e storico-artistiche, che resteranno nella memoria dei giovani, per la loro vita, ben più delle regole grammaticali. Ma soprattutto è assurdo far finta che tutto vada bene e illudersi che gli alunni affrontino da soli brani di Platone o di Tacito quando sappiamo tutti che non è così. E’ giunto il momento in cui qualcuno abbia il coraggio di dire che il re è nudo, e che la questione va affrontata alla radice.
E’ qui appunto che volevo arrivare. In quel dialogo con i colleghi abbiamo avanzato l’ipotesi, che non mi sembra affatto peregrina visto come vanno le cose oggi, di abolire di fatto la traduzione autonoma degli alunni, non assegnando più esercizi di questo genere. Lo studio della lingua, secondo la nostra proposta, dovrebbe continuare nel biennio e nel primo anno del triennio, affinché si conseguano quelle conoscenze che consentano agli studenti di comprendere le peculiarità formali e la dimensione artistica dei grandi testi greci e latini, ma senza che debbano tradurli da soli: l’analisi dei testi classici deve essere condotta dal docente, ed è lui che deve tradurre i passi di Omero, Virgilio, Platone, Tacito ecc. letti in classe, mentre gli studenti dovrebbero entrare nel testo e comprenderne le dinamiche in base agli elementi interpretativi loro forniti dal docente. A ciò dovrebbe aggiungersi uno studio puntuale e approfondito della storia letteraria e dei vari aspetti delle civiltà classiche.
A beneficio dei conservatori, che a leggere queste righe s’indigneranno come non mai nel vedere insidiato il fortino isolato degli studi classici circondato da un fossato di pregiudizi, dentro il quale essi si gongolano in un sogno romantico che è però sempre più lontano dalla vita reale e dalla mentalità dei giovani di oggi, confermo che la proposta prima avanzata non eliminerebbe affatto lo studio linguistico, ma lo riserverebbe ad un’analisi guidata dei testi classici, i cui elementi formali (lingua, stile, ordito retorico ecc.) e sostanziali verrebbero comunque compresi dagli studenti sulla base delle loro conoscenze e con un’opportuna guida del docente. Ciò che chiediamo di abolire è la traduzione autonoma delle cosiddette “versioni”, un esercizio che comunque, lo si voglia o no, non fa più quasi nessuno già adesso. Si tratterebbe quindi del riconoscimento di uno stato di fatto che non è possibile mutare, perché non si può impedire ai ragazzi di scaricare le versioni da internet, né si può pretendere che riescano lodevolmente in un’attività, quella della traduzione dalle lingue antiche, che è ormai diventato un lavoro da esperti filologi e non più realizzabile da ragazzi che non solo non studiano più latino alla scuola media, ma che spesso arrivano ai Licei senza conoscere neanche la sintassi ed il lessico della lingua italiana.
C’è un solo grosso ostacolo alla realizzazione di questo progetto: la seconda prova scritta dell’esame di Stato, che ancor oggi, a distanza di quasi un secolo dalla riforma Gentile, è rimasta tale e quale ad allora, costituita cioè da un brano da tradurre senza che gli studenti abbiano la possibilità di mutare o di scegliere alcunché. Questo è appunto il tasto che bisogna battere e che da anni il prof. Maurizio Bettini dell’Università di Siena, tanti altri studiosi e modestamente anche il sottoscritto tentano di premere: la necessità cioè di cambiare questa prassi antiquata della versione unica, considerato anche che negli altri Licei questa prova è stata adattata ai tempi presenti, mentre al Classico siamo rimasti all’epoca di Gentile. So anch’io che la traduzione sarebbe un buon banco di prova per saggiare le capacità intuitive e deduttive dei nostri giovani; ma dato che di fatto essa è diventata un ostacolo insormontabile, è inutile voler insistere a battere la testa nel muro e a fingere ipocritamente di ignorare quella che è la realtà, cioè che gli studenti non traducono più, “si arrangiano” alll’esame copiando, e se non lo fanno vanno incontro ad un colossale fallimento. Quando finalmente il Ministero capirà che “il re è nudo” e si confronterà con la realtà di fatto delle nostre scuole, forse avremo la possibilità, con una prova diversa e non più fondata sulla sola traduzione, di ottenere risultati dignitosi e capaci anche di ridurre quel timore reverenziale che deriva proprio dalla difficoltà rappresentata dalle lingue classiche, un timore che allontana moltissimi giovani dal frequentare il Liceo Classico.

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Esame di Stato 2017: errori e incoerenze del MIUR

Le contraddizioni e le incoerenze del Ministero dell’istruzione in materia di esami di Stato e di concorsi sono a tutti note, tanto che c’è appena la necessità di ricordarle, e del resto ne ho parlato in alcuni post degli anni precedenti. Quest’anno però, in particolare nei Licei Classico e Scientifico, si sono verificate ulteriori incoerenze che dimostrano l’assoluta incompetenza dei funzionari ministeriali per quanto attiene al funzionamento effettivo del nostro sistema scolastico. Al Liceo Classico si attende da anni la riforma della seconda prova scritta, perché è noto a tutti che la traduzione pura e semplice di un unico brano imposto dal Ministero e non ben calibrato dal punto di vista della difficoltà è ormai un esercizio pressoché inaccessibile alla maggior parte degli studenti; avvverrà così, come già è ampiamente attestato in tanti licei, che la “versione” sarà copiata da internet tramite cellulare oppure si troverà qualche professore compiacente che darà… un aiutino ai ragazzi (eufemismo per non dire che la farà al posto loro). Da anni molti di noi si sono attivati per ottenere una modifica di questa prova, ovviamente non sopprimendo del tutto il lavoro di traduzione, ma affiancandolo con domande di civiltà classica o storia letteraria, in modo da dare alla maggioranza degli studenti la possibilità di evitare il fallimento totale.
Oltre a questo problema irrisolto, quest’anno se n’è aggiunto un altro, mai verificatosi prima: l’italiano è materia affidata al commissario esterno per il secondo anno consecutivo, e ciò è insolito ma comunque prevedibile; la cosa più strana e controproducente, invece, è che per questa materia sono stati nominati commissari titolari nella classe A052 (materie letterarie, latino e greco). Ora, è cosa lampante e a tutti nota il fatto che i docenti della A052 insegnano normalmente nel triennio conclusivo del Liceo Classico soltanto latino e greco, mentre l’italiano è affidato di norma ai colleghi della classe A051. E’ vero che chi è di ruolo per la A052 è abilitato anche per l’insegnamento dell’italiano, ma quasi sempre lo insegna soltanto al biennio, e non ha quindi una preparazione e un’esperienza tali da consentirgli di ricoprire in modo dignitoso e autorevole la funzione di commissario esterno, perché il programma delle classi quinte (la letteratura dei secoli XIX e XX e il Paradiso di Dante) va conosciuto in modo appprofondito per poter sostenere la correzione degli elaborati d’esame ed il colloquio orale. Ciò provocherà (anzi ha già provocato) una marea di rinunce da parte dei docenti nominati come esterni per l’italiano, tranne quei pochi (come il sottoscritto) che hanno deliberatamente chiesto al proprio Dirigente di poter avere l’insegnamento dell’italiano nel triennio del Classico. E da ciò nasce il caos delle sostituzioni e della ricerca dei sostituti da parte degli Uffici provinciali e delle scuole, con relativa perdita di tempo e di energie.
Un altro pasticcio il Ministero l’ha fatto al Liceo Scientifico, dove si attendeva da qualche anno la seconda prova scritta di fisica anziché la tradizionale di matematica. Dopo aver lasciato credere a tutti che tale sarebbe stata la prova, e dopo aver spedito alle scuole anche esempi di svolgimento di prove di fisica, il Ministero ha cambiato idea l’ultimo giorno utile (sembra per intervento dello stesso ministro Fedeli) e ha riproposto la prova di matematica, inserendo però la fisica tra le materie affidate al commissario esterno. Anche qui si è creato il caos, perché i docenti di matematica delle varie quinte sono impegnati come membri interni per le loro classi, e non possono quindi essere nominati come esterni per la fisica. Chi svolgerà quindi questo compito? Probabilmente i docenti del biennio, che insegnano solo matematica (o al massimo la fisica ma nel biennio), che quindi anch’essi – come i colleghi della classe A052 al Classico – non hanno in genere la necessaria conoscenza di un programma complesso e da poco rinnovato qual è quello della fisica nelle classi terminali dello Scientifico.
Queste che ho trattato sono le due cialtronerie fatte dal Ministero di cui io sono a conoscenza, ma certamente ci saranno anche altre incoerenze e contraddizioni, alle quali purtroppo siamo abituati. La sensazione che io ho di questa situazione è che al Ministero dell’istruzione s’intendano di tutto fuorché di didattica, e che la burocrazia irrazionale, oggi aiutata e peggiorata anche dall’informatica, la faccia da padrona. Ritengo quindi vero ciò che molti da tempo stanno pensando: che se il sistema scolastico italiano si regge ancora in piedi il merito di ciò sta nella buona volontà e nel grande impegno di molti docenti, i quali sono ormai avvezzi a “tappare i buchi” fatti da altri e continuare a tirare la carretta per non veder crollare tutto l’edificio. Speriamo che ci sia sempre chi ama questa professione al punto da farne una missione, sopportando così tutte le cialtronate e gli errori che vengono dall’alto. Ma la pazienza ha un limite, e questo limite per molti è sempre più vicino.

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Le materie dell’esame di Stato 2017

IL mio collega ed amico Paolo Mazzocchini, docente delle mie stesse discipline, mi ha mandato un commento all’ultimo articolo pubblicato qui sul mio blog, in cui mi chiede cosa pensi delle materie che il Ministero dell’istruzione ha scelto per l’esame di Stato del Liceo Classico del prossimo giugno. Anziché rispondergli nella sezione dei commenti preferisco dedicare all’argomento questo nuovo post, vista anche la discussione in proposito che si è scatenata su Facebook e forse anche su altri “social”.
Premetto che anch’io, come Paolo, sono rimasto perplesso di fronte alla mancata alternanza tra docenti interni ed esterni: l’italiano infatti è stato affidato anche quest’anno, come l’anno scorso, al docente esterno, mentre noi di latino e greco dobbiamo ricoprire di nuovo il ruolo di membri interni. La cosa è un po’ strana, non perché non sia legalmente ammissibile, ma perché dal 1999 ad oggi non era mai stata fatta (almeno a quanto io ricordo); la decisione del Ministero, pertanto, è stata quella di affidare agli esterni tre discipline considerate fondamentali, e cioè italiano, matematica e inglese, che saranno anche oggetto della prova Invalsi che gli studenti dovranno sostenere, prima dell’esame, a partire dal 2018.  Mazzocchini sospetta che dietro questa inattesa coincidenza delle tre materie affidate agli esterni con quelle della prova Invalsi si celi un occulto disegno di mettere in ombra le discipline caratterizzanti il liceo classico, cioè il latino ed il greco. Confesso che non ci avevo pensato, ma adesso questo suo commento attrae sull’argomento la mia attenzione, considerando anche che, come si dice, a pensar male si farà anche peccato ma spesso ci si azzecca. Del resto è evidente che da anni, da quando cioè esiste la funesta concezione aziendalistica della scuola, le discipline umanistiche sono viste da molte persone, anche con incarichi istituzionali, come inutili orpelli, o peggio come ostacoli alla formazione di quello che io chiamo il “pensiero unico”, ossia l’omologazione culturale che ci viene trasmessa attraverso la tv e gli altri organi d’informazione. Le materie umanistiche, come è noto, insegnano a riflettere, a pensare, a fare autonomamente le proprie scelte; in un mondo globalizzato quindi, dove è più utile chi obbedisce ai diktat anziché chi ragiona con la propria testa, queste discipline danno fastidio. Che ci si muova in questa direzione, del resto, lo dimostra il calo vistoso delle iscrizioni che, sia a livello nazionale che locale, si è verificato nei Licei Classici (nel mio, ad esempio, in dieci anni si è passati da tre ad una sola sezione); ed inoltre la volontà di procedere in questo senso si è manifestata anche nella continua pressione ministeriale a favore dell’inglese e dell’informatica, come se queste conoscenze fossero sufficienti a formare il perfetto cittadino, senza che debba perder tempo a tradurre delle lingue morte o a studiare le letterature del mondo classico. Che ci sia un accanimento contro il Liceo Classico è un’impressione che anch’io ho provato più volte, da quando l’ex ministro Berlinguer lanciò il progetto del “liceo umanistico” senza lo studio delle lingue antiche a quando, all’esame di Stato di alcuni anni fa, fu assegnata una versione di Aristotele praticamente intraducibile, che aveva tutto l’aspetto di un invito agli studenti a boicottare il Classico ed a scegliere altre scuole più “accessibili”.
Credo con ciò di aver risposto all’amico Paolo, dicendomi d’accordo con lui. Un altro aspetto però di queste materie scelte per l’esame mi preme sottolineare: che cioè l’italiano esterno del Liceo Classico sia stato affidato a docenti della classe 52 (Materie letterarie, latino e greco) anziché a quelli della 51 (Materie letterarie e latino), che quasi sempre insegnano italiano al triennio del Classico, mentre quelli della 52 lo insegnano quasi esclusivamente al biennio. Mi premerebbe sapere se si tratta di un mero errore materiale (e non sarebbe una novità, dato che in questi ultimi anni il Ministero ne ha fatti molti) oppure se veramente la letteratura italiana dell’800 e del ‘900 verrà richiesta da docenti che mai o quasi mai l’hanno insegnata. E poi c’è un altro dilemma: le domande di greco, nella terza prova ed all’orale, saranno formulate dal docente esterno di italiano o da quello interno di latino, visto che appartengono entrambi alla classe 52? Spero che in qualche modo il Ministero ci chiarisca il dilemma, perché se le cose restano così avremo all’esame due latinisti e grecisti, interno ed esterno, e nessun italianista, tranne il caso fortunato che uno dei due sia competente anche in letteratura italiana moderna e contemporanea; è vero infatti che per la classe 52 è previsto anche l’insegnamento dell’italiano ma questo, come ho detto, si esplica quasi totalmente al biennio, mentre all’esame di Stato il livello delle conoscenze letterarie richiesto è molto più elevato, senza contare la prima prova scritta dell’esame stesso. Staremo a vedere come finirà la cosa, ma per il momento dobbiamo dire che delle due l’una: o al Ministero sono incompetenti a tal punto da confondere le classi di concorso oppure c’è la volontà di imbrogliare gli affari semplici per danneggiare un indirizzo di studi, il Liceo Classico, che non è più nelle grazie di chi, a qualsiasi titolo, detiene una qualche forma di potere.

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E’ così utile la tecnologia nella scuola?

Ritorno qui su un argomento che non è nuovo, l’opportunità cioè o meno di affidarsi alle nuove tecnologie nella scuola ed in generale nel processo di apprendimento. I governi che si sono succeduti in questi ultimi dieci anni si sono lasciati prendere tutti, indipendentemente dal colore politico, da una smania tecnologica senza controllo: nelle scuole non si sono più acquistati libri cartacei ma solo computers, lim ed altri strumenti informatici, il Ministero ci ha bombardato per anni con corsi di aggiornamento dedicati all’utilizzo delle nuove tecnologie, ci sono piovute dall’alto direttive che ci obbligavano ad usare questi strumenti ed imporli anche agli alunni, secondo una concezione dell’insegnamento la cui valenza didattica nessuno osava mettere in discussione. Di recente però ci si è accorti che questa ubriacatura tecnologica può portare con sé anche effetti negativi ed abbiamo saputo anche che in alcuni Paesi pionieri per l’uso delle tecnologie informatiche (v. gli Stati Uniti) si sta facendo marcia indietro e si sta tornando ai mezzi tradizionali di apprendimento. Per questo io riprendo l’argomento, dato che avevo previsto da tempo che ci sarebbe stata un’inversione di tendenza, ed anche perché sono convinto che questo sacro furore del Ministero dell’istruzione per la tecnologia non sia scevro da interessi privati, più o meno trasparenti, manifestatisi in accordi con le aziende produttrici di hardware e di software.
Non voglio parlare delle gravi insidie nascoste nel grande mondo della rete internet, anche perché l’argomento non riguarda solo la scuola ma la vita sociale in genere. Per restare invece in ambito scolastico, vorrei prima di tutto cercare di scoprire qual è, se esiste, la vera utilità dei nuovi strumenti informatici come, ad esempio, gli smartphone, la lavagna elettronica (LIM) ed i tablets. Questi oggetti, al massimo, possono avere la medesima utilità che hanno gli strumenti tradizionali, ma non vedo come possano averne una maggiore: leggere una definizione di matematica in un libro cartaceo o in un tablet, è forse diverso? Leggere una pagina di letteratura su un libro o su una LIM, non è la stessa cosa? Anzi, dico io, se qualche differenza c’è, non è certo a favore dei nuovi strumenti, perché leggere pagine e pagine su un computer o un cellulare stanca la vista e rende nervosi, oltre al danno potenziale alla salute provocato dal diffondersi delle onde elettromagnetiche. Quindi qual è il vantaggio? Non è neanche quello di attrarre maggiormente lo studente e farlo impegnare di più, perché i mezzi informatici non costituiscono più una novità ormai e non c’è quindi possibilità che attraggano chi già da tempo li conosce. E poi, se uno studente è svogliato o incapace, non sarà certo il tablet o lo smartphone in classe a interessarlo e impegnarlo nello studio: caso mai si allontanerà ulteriormente, perché sarà preso dalla forte tentazione di utilizzare diversamente questi strumenti; e così, mentre il professore crede ingenuamente che l’allievo stia seguendo la sua lezione sul cellulare, costui magari spedirà sms o si dedicherà ai videogiochi, in tutta tranquillità.
Per quanto riguarda poi lo studio personale a casa, l’utilizzo delle nuove tecnologie fa più male che bene. L’unico vantaggio, pur importante che sia, è che con internet si aprono nuove possibilità culturali prima indisponibili e quindi un alunno, se non ha compreso bene quanto dice il suo libro di letteratura italiana sulla filosofia del Leopardi (tanto per fare un esempio), potrà cercare dei siti web che glielo spieghino meglio. Ma quanti usano internet per questa funzione? Pochi. La maggior parte degli studenti tiene acceso lo smartphone durante le ore di studio per motivi propri, e questo rappresenta un danno irreparabile, perché fa perdere continuamente la concentrazione su ciò che si sta apprendendo: i nostri ragazzi prendono i libri, cercano di concentrarsi su un concetto e proprio sul più bello… tac: arriva un messaggino dall’amico ed ecco che debbono rispondere, e così ciò che stavano studiando va a farsi benedire. Io ho notato un grave abbassamento del livello di attenzione e di concentrazione degli studenti da quando esistono i cellulari, oltre che un’altrettanto grave riduzione delle capacità di memoria e di ragionamento autonomo. Affidarsi a questi aggeggi significa dare in prestito il proprio cervello a degli oggetti inanimati che lo annacquano fino a renderlo liquido del tutto.
Ma c’è un altro aspetto dannoso della tecnologia, che tocca tutti noi e non soltanto gli studenti: la graduale estinzione della capacità di scrivere a mano in modo ottimale, che un tempo era invece considerata molto importante nella società. Mia nonna, tanto per fare un esempio personale, aveva frequentato soltanto la seconda elementare, perché all’inizio del ‘900 la scuola non era per tutti e le ragazze venivano istruite ancor meno dei maschi, soprattutto in campagna: eppure aveva una grafia meravigliosa, un corsivo che ricordava quello dei manoscritti dei secoli passati, con le lettere tutte perfettamente tracciate. Oggi non si è più capaci di scrivere a mano proprio per colpa di questi nuovi strumenti che hanno tolto alla persona le sue prerogative secolari e rischiano di sospingerla in una nuova forma di analfabetismo. Un altro danno gravissimo è quello provocato dai correttori automatici di Word e di altri programmi di videoscrittura: eliminando automaticamente alcuni errori, infatti, hanno causato in chi scrive una forma di noncuranza circa la correttezza di quanto scritto, con la conseguenza che molti non fanno più caso se hanno messo l’h con il verbo avere, se hanno disposto giustamente gli accenti, se una parola si scrive con la s o con la z; perciò, quando il correttore non è più disponibile, gli errori si moltiplicano. C’è da vergognarsi a leggere i commenti che vengono mandati attraverso internet sui social network come Facebook o altri: sono pieni di errori grammaticali e ortografici, compiuti anche da persone diplomate e laureate. Sarà colpa della scuola, soprattutto della primaria, dove al posto delle vere lezioni si fanno per lo più insulsi progetti e dove per legge oggi non boccia più nessuno? Certamente sì, ma va anche detto che se una competenza posseduta da qualcuno viene lasciata a se stessa, non più rinfocolata e affidata a oggetti estranei all’uomo come sono gli strumenti informatici, finisce gradualmente per perdersi. Ed è quello che succede oggi, nell’epoca più avanzata tecnologicamente ma più arretrata culturalmente, in cui un nuovo analfabetismo si sta facendo strada a passi da gigante.

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Aggiornamento, sì o no?

E’ di pochi giorni fa la notizia secondo cui il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca (MIUR) ha emanato una norma che rende obbligatoria l’attività di aggiornamento per tutti i docenti in servizio, destinando allo scopo una cifra che supera i 300 milioni di euro. Visto il modo in cui viene organizzata la cosa, sorge spontanea l’idea di chiedersi se questi soldi non avrebbero potuto essere spesi meglio, magari per rinnovare il nostro contratto di lavoro scaduto dal 2009 (cioè da ben sette anni!), con un blocco pluriennale cui si è aggiunta anche la beffa, perché a me risulta che sarei dovuto passare all’ultimo scaglione stipendiale già da molto tempo, ed invece ogni anno mi viene posticipata la data di applicazione del nuovo stipendio al dicembre successivo. Comunque sia, lasciamo questo futile argomento e pensiamo invece all’aggiornamento obbligatorio, un altro bel regalo che i nostri politici ci hanno elargito.
Voglio precisare subito che io non sono contrario di principio all’aggiornamento dei docenti, anzi lo ritengo necessario e persino indispensabile, anche perché molti di noi, che quando erano giovani e precari leggevano, si documentavano, frequentavano le università e altro ancora, una volta entrati in ruolo e passato qualche anno tendono a tirare i remi in barca – come si suol dire – e replicare più o meno le stesse lezioni e gli stessi argomenti fino alla pensione. Ritengo però che un progetto di aggiornamento serio dei docenti dovrebbe principalmente – se non esclusivamente – riferirsi alle conoscenze relative alle materie di insegnamento di ciascuno e realizzarsi mediante corsi che ci rendano consapevoli delle nuove acquisizioni metodologiche, delle ultime novità della critica, delle nuove scoperte in ambito scientifico ma anche letterario, filosofico, storico e via dicendo. Questo genere di aggiornamento sarebbe veramente utile proprio per la didattica, perché non si può oggi insegnare la matematica o le scienze (ma anche l’italiano, il latino o la storia) con gli strumenti metodologici e critici di trenta o quaranta anni fa, quando si è laureata la maggior parte di noi, visto che i docenti italiani sono i più vecchi d’Europa, e non per colpa loro. Quando io mi sono laureato, tanto per fare l’esempio personale, il programma di letteratura italiana si fermava a Svevo e Pirandello; oggi questo non è più attuale né fattibile, perché dopo questi autori ci sono altri settant’anni di letteratura, sui quali farei volentieri un corso di aggiornamento, dal momento che insegno italiano in una quinta. Invece nessuno ci offre nulla di tutto ciò; siamo costretti ad aggiornarci da soli, ed è ben chiaro che un simile lavoro autonomo lo compie chi lo vuol compiere, mentre alcuni di noi restano fermi a più di mezzo secolo fa, visto che non esiste alcun obbligo al riguardo.
Ed allora, su cosa il nostro amato Ministero vuole che ci aggiorniamo? Sui soliti argomenti triti e ritriti che vanno di moda oggi: le competenze digitali, le lingue straniere e la normativa sugli alunni diversamente abili, BES e DSA. Ormai a livello ministeriale queste sono le sole cose a cui dare importanza, la didattica delle materie curriculari non interessa più a nessuno e si ha la pretesa di imporci (perché di imposizione si tratta) corsi che c’entrano poco con il nostro insegnamento e che poco ci interessano, e spiego il perché. Dell’infatuazione informatica del ministero non ne possiamo più: già da anni nelle scuole non si acquistano più libri né sussidi di altro genere, ma solo computers, tablets, LIM ecc. ecc., senza rendersi conto che questi oggetti sono solo strumenti che possono sì aiutare la didattica, ma non possono certamente risolvere tutti i problemi, né tanto meno sostituire i sussidi tradizionali come libri e quaderni, e men che meno il cervello umano; anzi, su questo ultimo punto avrei qualche riserva e potrei dire che il digitale può essere addirittura dannoso, perché finisce per atrofizzare la memoria e talvolta anche le capacità logiche degli studenti. Comunque sia, da parte della quasi totalità dei docenti ormai le nuove tecnologie sono abbastanza conosciute, almeno per quel che ci serve per le esigenze dell’attività quotidiana; non vedo quindi a cosa serve insistere all’infinito su queste competenze e conoscenze che nulla aggiungono alla nostra professionalità. Lo stesso dicasi per le lingue straniere, e per l’inglese in particolare. Si tratta di una lingua indispensabile ai giovani di oggi, considerato anche il fatto che – purtroppo – molto spesso sono costretti ad emigrare all’estero per trovare lavoro; ma di essa debbono occuparsi i docenti di lingua, i quali possono essere aggiornati o autoaggiornarsi come vogliono e come credono. Ma i docenti delle altre discipline cosa c’entrano? Perché io, che insegno italiano, latino e greco, debbo aggiornarmi in inglese che non c’entra nulla con il mio insegnamento? Anche questa è una fissazione dei tempi moderni, il voler mettere l’inglese dappertutto, come il prezzemolo; e così anche la nostra lingua, la più bella del mondo, viene continuamente imbastardita da questi termini anglosassoni non necessari ed impronunciabili.
Rimane il terzo settore su cui il Ministero vuole aggiornarci, che riguarda non tanto gli alunni disabili (per cui esistono i docenti di sostegno), quanto quelli con difficoltà specifiche di apprendimento (BES e DSA); ma anche su questo argomento siamo già stati informati abbastanza, abbiamo già tutti o quasi tutti seguito corsi di approfondimento, sappiamo cos’è il “piano didattico personalizzato” e come comportarci in caso che ci capiti nelle classe qualcuno di questi casi. Perché dunque ribattere sempre sugli stessi tasti e costringerci a seguire corsi durante i quali, presumibilmente, molti colleghi faranno finta di seguire e di nascosto leggeranno il giornale o sbirceranno sullo smartphone come i ragazzi? A me sembra che questa modalità di organizzare l’aggiornamento, che se fatto bene sarebbe veramente proficuo, sia invece ancora una volta un’inutile formalità, uno dei tanti tentacoli del formalismo e della burocrazia che ormai dominano la nostra scuola e che hanno tolto a molti di noi, che pure sono ancora contenti di andare in classe a fare veramente lezione, l’entusiasmo che prima avevamo nello svolgere la nostra professione.

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Compiti copiati e siti canaglia

Benché io riceva solitamente pochi commenti al mio blog, ogni tanto me ne arriva qualcuno inviato da genitori preoccupati o anche da studenti in cui si sottolinea la gravità del fenomeno delle copiature a scuola con il cellulare, sia nei compiti in classe che in occasione degli esami; in certi licei, direi soprattutto Classici perché è qui che vengono copiate le versioni di latino e di greco, questa grave forma di illegalità e di malcostume è arrivata a un livello tale da rendere praticamente inutile lo svolgimento dei compiti in classe, i cui risultati vengono totalmente falsati. Certi studenti dotati di coscienza e buona volontà che, a detta loro, non hanno mai copiato, mi scrivono indignati perché vedono i loro compagni copiare e ottenere voti pari o superiori ai loro; una collega, invece, mi scrisse una volta chiedendomi come comportarsi in un caso che le era capitato, quello cioè di un alunno che fotografava il compito con il cellulare, lo spediva ad un’insegnante esterna che lo svolgeva e poi glielo rimandava con lo stesso sistema. Mi chiedeva se poteva denunciare quella persona, ma io le risposi, con il mio consueto scetticismo, che la cosa mi pareva poco fattibile, sia perché bisognerebbe dimostrare, in primis, che le cose sono andate veramente come lei diceva, ed in secundis che questo fatto costituisca un reato vero e proprio. Ed è proprio da qui che prendo le mosse per dire che non esiste una legislazione al riguardo che blocchi questo squallido fenomeno delle copiature, e le norme esistenti sono tutte contro i docenti che vogliano far rispettare l’onestà e la legalità: non solo non possiamo perquisire gli studenti per controllare se hanno un cellulare nascosto, ma non possiamo neppure classificare con un brutto voto una prova anche palesemente copiata, perché lo studente potrebbe sostenere di averla fatta da solo ed in caso di ricorso al TAR vincerebbe di sicuro. Occorre sorprenderlo sul fatto, ma questo è sempre più difficile perché non si possono sorvegliare contemporaneamente 25 ragazzi (specie quelli delle ultime file), i quali possono nascondere il cellulare in qualunque posto, persino dentro il vocabolario, in tasca, nell’astuccio o altrove.
Ma perché questa comportamento subdolo e squallido degli studenti è possibile? Perché riescono quasi sempre a trovare su internet la soluzione dei quesiti, in particolare la traduzione delle versioni di latino e di greco: basta digitare il titolo della versione o le prime parole del testo ed ecco che, in pochi secondi, compare la traduzione ed il gioco è fatto. Su questo stesso blog, più di due anni fa (gennaio 2014, v. l’Archivio nella colonna di destra), ho cercato di fornire ai colleghi possibili antidoti per arginare il fenomeno in un post intitolato “Vademecum anti copiature per prof. di latino e greco”; ma ogni accorgimento è insufficiente, soprattutto per coloro che si accordano con dei lestofanti fuori scuola ai quali inviare il testo della versione per tradurla. La soluzione, comunque, non spetterebbe a noi ma al Ministero dell’istruzione, il quale, pur informato del problema, non ha mai fatto nulla per risolverlo, se non generici divieti all’uso del cellulare che lasciano comunque il tempo che trovano. E allora cosa possiamo fare? Tirare avanti così significa togliere ogni validità ai compiti in classe ed alla seconda prova dell’esame di Stato; tanto varrebbe allora abolire completamente le traduzioni dalle lingue classiche ed effettuare compiti in classe ed esami su altre competenze. L’unica cosa che il Ministero dovrebbe fare è fornire a tutte le scuole delle apparecchiature in grado di schermare l’aula dove si svolge il compito ed impedire quindi ai cellulari di collegarsi a internet (i famosi jammer, mi pare si chiamino così); ma pare che l’uso di questi apparecchi sia proibito, e comunque il Ministero si guarda bene dall’autorizzarlo. Ho saputo di una professoressa del nord Italia che l’ha acquistato a spese sue e lo usa in classe, e bisogna dire che questa collega è molto meritoria e coraggiosa, perché rischia una denuncia solo per aver fatto rispettare la legalità. Paradossi italiani!
La colpa di questo malcostume, tuttavia, non è soltanto degli studenti; anzi, in parte almeno vanno compresi, perché tradurre dal latino e dal greco per i ragazzi di oggi è sempre più difficile e, si sa, in questi frangenti la tentazione di trovare scorciatoie è forte. Chi non è da scusare affatto sono invece i detentori dei siti-canaglia (così li chiamo io) che mettono a disposizione gli esercizi e le versioni tradotte. Il più frequentato di essi, http://www.skuolasprint.it, si vanta addirittura di aver messo a disposizione degli studenti liceali migliaia di versioni di latino e greco tradotte, ed altri siti non sono da meno. Ma c’è di più: in alcuni siti, come http://www.skuola.net, http://www.studenti.it, http://www.scuolazoo.it ed altri si trova persino un prontuario di consigli agli studenti per copiare durante i test, i compiti e le interrogazioni. In questi prontuari vengono elencati sia i metodi tradizionali da sempre in uso nella scuola (il passaggio di bigliettini, le minifotocopie, le sbirciate sul compito del compagno, formule scritte sul banco o sul muro, e via dicendo) sia quelli nuovi e tecnologici basati sullo smartphone o l’iphone o come si chiama.
Personalmente ritengo che questi siti andrebbero immediatamente oscurati ed i loro responsabili messi in galera per diversi anni, e ciò non per il danno materiale che provocano (che è ben limitato dal fatto che gli studenti già conoscono per lo più queste tecniche) ma per la gravità del loro comportamento sul piano morale e civico. Istigare uno studente a copiare o fornirgliene i mezzi significa incitarlo a compiere un atto disonesto e illegale, formare in lui la convinzione che per avere successo nella vita non sia necessario impegnarsi onestamente e far valere il frutto delle proprie capacità, ma sia invece opportuno farsi furbi e “fregare” il prossimo. Chi autorizza i ragazzi a ingannare i loro professori o i loro genitori li corrompe moralmente ed è paragonabile a chi fornisce loro armi o droghe; e questo perché la disonestà e l’illegalità, una volta apprese, non si dimenticano e restano impresse nella personalità del futuro cittadino. Chi copia a scuola, chi è contento perché ha “fregato” il professore, un domani vorrà “fregare” il suo prossimo e lo Stato, e diventerà un corrotto o un corruttore, un truffatore di anziani, o nel migliore dei casi un evasore fiscale. Noi docenti dovremmo insegnare ai nostri ragazzi ad essere onesti ed a vivere nel rispetto della legge e dei buoni costumi; ma come possiamo realizzare questo obiettivo quando c’è chi rema in senso contrario, abituando gli adolescenti ad essere disonesti ed a considerare il professore come un nemico da combattere anziché come una persona più grande e matura che cerca di condurti meglio possibile sulla buona strada? E credo che non poca responsabilità in questi fenomeni ce l’abbiano anche i politici, che lasciano soli noi docenti a combattere le nostre battaglie e parlano di scuola a vanvera, senza conoscere affatto i problemi che ogni giorno vi si affrontano. Comincino intanto col far oscurare questi siti canaglia che avvelenano il rapporto tra alunni e docenti e apertamente caldeggiano comportamenti squallidi e disonesti; otterrebbero molto di più, con un provvedimento simile, di quanto non ottengano con le loro insulse circolari sul rispetto della legalità, che pochi leggono e che nessuno osserva.

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La scuola degli anni ’70 e quella attuale

Viene spontaneo, quando assistiamo ad un’assemblea d’istituto degli studenti o semplicemente riflettendo sul nostro lavoro quotidiano, pensare alle notevoli differenze tra la scuola di oggi e quella dei tempi in cui io ero studente liceale, dal 1968 al 1973. In base a questo confronto io personalmente trovo assurda e figlia dell’incompetenza la posizione di coloro che affermano che da allora ad oggi nulla è cambiato e che la scuola è “vecchia”: è vero il contrario invece, è cambiato tutto, e non sempre in meglio né sempre in peggio. Proviamo perciò a considerare alcuni elementi (non tutti) della vita scolastica per poter arrivare ad un’opinione circostanziata.
Mi preme anzitutto dimostrare la falsità del pregiudizio dei più accaniti conservatori, coloro cioè che sostengono l’assoluta superiorità della scuola di un tempo, dove “si imparava molto”, “si faceva molto più di adesso”, “gli studi erano veramente seri” e via dicendo. Nel mio caso è vero l’esatto contrario, nel senso che i programmi che svolgo io adesso con i miei studenti sono almeno il doppio, se non il triplo, di quelli con cui mi confrontavo quando ero studente liceale. I miei professori lavoravano poco e spesso male, non erano molto preparati nelle loro discipline oppure, se lo erano, non si applicavano un grande impegno nella didattica; i libri di testo, inoltre, erano un terzo di quelli attuali, e di letture personali o approfondimenti (che oggi io chiedo ai miei alunni) non si parlava affatto. Personalmente avevo un docente di greco che si accontentava di farci imparare a memoria i frammenti dei lirici ed i versi di Omero senza verificare se avevamo veramente compreso l’importanza ed il messaggio culturale di quegli Autori, e che in tre anni non svolse neppure un terzo del programma previsto di storia letteraria; un docente di storia che ci faceva studiare la critica, cioè le opinioni dei vari storici sui fatti, senza prima illustrarci gli avvenimenti oggettivi, tanto che conoscevano tutti i giudizi degli studiosi sulla Rivoluzione francese ma senza sapere nulla di ciò che accadde dal 1789 al 1795. Nel caso del liceo classico, inoltre, le materie scientifiche avevano un peso molto inferiore a quello attuale ed in certi casi non si studiavano affatto, anche perché la sufficienza, sull’onda protestataria e ugualitaria del ’68, era quasi sempre garantita. E’ vero che le attività parascolastiche in orario curriculare erano meno di adesso e si perdevano meno ore di lezione (in pratica, tranne la consueta gita di pochi giorni ad aprile, non facevamo altro), ma molte di più erano le feste e le occasioni di vacanza: l’anno scolastico iniziava il 1° ottobre ed il 4 (San Francesco) era già festivo; a novembre la festività di Ognissanti veniva spesso unita con un “ponte” con il 4 novembre, festa della vittoria nella prima guerra mondiale, l’11 febbraio era festivo per ricordare la Conciliazione, il 29 aprile era Santa Caterina… E così procedendo, i giorni effettivi di lezione erano meno di adesso, mentre i professori facevano veramente la bella vita, avendo impegni molto minori di quelli attuali: le riunioni pomeridiane erano pochissime (non esistevano i consigli di classe, i consigli di Istituto, le varie commissioni ecc.) e le vacanze estive erano di tre mesi o più, perché andavano da giugno al primo settembre (giorno in cui iniziavano gli esami di riparazione, che duravano circa una settimana) e poi riprendevano per un ulteriore supplemento di libertà fino al 1° di ottobre. Concludendo, tutti allora lavoravano meno di adesso: gli studenti, ma anche e soprattutto i professori. Non mi rammarico certo avere maggiori impegni rispetto ad allora, ma non condivido l’idea di chi incensa la scuola del passato e getta fango su quella attuale, perché la realtà è molto diversa.
Allo stesso modo non mi sento di rimpiangere gli anni ’70 neanche da un altro punto di vista, quello della “coscienza politica” degli studenti e dei docenti. Quegli anni erano connotati da un fosco clima di violenza e di intolleranza ideologica, che portò a tanti eventi luttuosi e al dilagare del terrorismo estremista; erano anni bui la cui ombra funesta si estese anche alla scuola, anzi spesso nasceva proprio dalle scuole e dalle università. L’epoca della “contestazione” non può essere mitizzata perché, se è vero che allora c’era un maggior interesse dei giovani per i problemi politici e sociali rispetto ad oggi, è altrettanto vero che il clima che si viveva non era affatto piacevole: io stesso ho dovuto assistere a scontri di piazza tra giovani di opposte tendenze, con feriti e contusi; ho avuto in classe per mesi un professore che veniva a scuola con la testa fasciata per i colpi ricevuti in sala insegnanti da un altro docente di idee politiche opposte (bell’esempio per gli studenti, vero?); ho dovuto confrontarmi con docenti che pretendevano di indottrinarci al loro credo politico e ci chiamavano “compagni”, e altro ancora. Oggi, fortunatamente, questo clima è scomparso e la rivalità ideologica non ostacola più i rapporti umani, tanto che nella scuola c’è sicuramente più tolleranza e pluralismo rispetto ad altri settori della vita sociale. E non è neppure vero che gli studenti non abbiano alcuna coscienza di ciò che accade intorno a loro, o che siano dediti solo allo smartphone o al culto dei beni materiali; in certi casi è così, ma la maggior parte di loro è consapevole dei problemi del nostro paese e di ciò che incontreranno dopo la conclusione dei loro studi, e si interessano alle problematiche sociali e politiche, senza però quella faziosità e quella sciocca illusione rivoluzionaria tanto diffusa negli anni ’70.
Ovviamente, come in ogni aspetto della vita e della società, ogni cambiamento porta con sé conseguenze positive ma anche negative. E cosa c’è di sbagliato nella scuola di oggi che non esisteva allora, quando io frequentavo il liceo? Purtroppo di novità spiacevoli ce ne sono, ma non per colpa degli studenti o dei docenti, ma di chi ci governa e ci amministra: cito ad esempio l’invadenza delle pastoie burocratiche che aumentano ad ogni “riforma” che i vari governi di turno intendono attuare (POF, PTOF, RAV e altre sciocchezze del genere), i progetti para ed extrascolastici che riducono lo spazio delle lezioni e impediscono l’apprendimento delle discipline essenziali nella scuola primaria (la lingua italiana e la matematica, ad esempio), la castroneria della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” che con i licei c’entra come il cavolo a merenda, l’esame di Stato attuale che non funziona, l’assurda infatuazione ministeriale per l’informatica e la multimedialità spesso inutile (se non dannosa), e via dicendo. Ogni epoca ha i suoi pregi ed i suoi difetti, e pertanto non me la sento di pronunciare un giudizio apodittico sulla scuola che ho frequentato io, né su quella attuale; però la differenza c’è, e non di poco conto. Se poi in questo cambiamento prevalgano i dati positivi o quelli negativi è difficile stabilire; spero perciò di poter sentire le opinioni di colleghi e lettori su questo punto attraverso i commenti al mio blog, che continuano tuttora ad essere pochissimi in rapporto al numero delle visite.

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Le strane nomine dei commissari per l’esame di Stato

Dopo una lunga attesa, finalmente lo scorso 3 giugno il Ministero ha reso nota la composizione delle commissioni per i prossimi esami di Stato della scuola media superiore. Il ritardo rispetto alle date consuete avrebbe dovuto farci presagire qualcosa di strano che sarebbe accaduto ma che purtroppo io, nella mia ingenuità, non avevo previsto. Quando poi si sono potuti leggere i nomi dei commissari ci siamo accorti che il Ministero stesso ha clamorosamente trasgredito una norma scritta sempre rispettata negli anni precedenti, quella cioè di non nominare docenti all’interno dello stesso distretto scolastico di appartenenza. Quest’anno invece, con mia grande meraviglia e un po’ di sgomento, ho notato che le nomine dei commissari esterni sono state fatte quasi tutte “sotto casa”, in scuole cioè vicine o vicinissime a quella di titolarità, spesso persino ubicate nello stesso edificio! Una decisione assurda e ridicola che renderà ancor meno trasparente e meno serio l’esame di Stato, che già con la situazione precedente mostrava chiaramente i suoi limiti. Adesso il prof. Tizio, nominato nella scuola adiacente alla propria, sicuramente conoscerà i colleghi Caio e Sempronio di quella scuola, e probabilmente conoscerà anche alcuni alunni, cui non di rado avrà impartito anche lezioni private; in questo caso, pur di non perdere la nomina, molti colleghi dichiareranno tranquillamente il falso, cioè di non conoscere i candidati e di non averli preparati individualmente, e così l’esame si trasformerà in una ridicola farsa dove si fingerà di correggere seriamente gli elaborati scritti, di far domande serie ed impegnativi ai ragazzi, i quali in realtà – in molti casi – conosceranno in anticipo i quesiti e le richieste che saranno loro rivolte. Tra scuole limitrofe, dello stesso distretto, la logica del quieto vivere dominerà su tutta la linea, perché nessuno vorrà mettersi in urto con dei colleghi che conosce, di cui magari ha avuto i figli come alunni e con i quali ha lavorato a stretto contatto fino all’anno precedente.
Se finora si è a lungo discusso sulla serietà e sull’effettivo valore di questi esami, oggi il problema si pone con ancor maggiore evidenza, poiché è chiaro che i nostri politici, pur di tagliare sulla scuola e risparmiare denaro pubblico, non si curano affatto dell’efficienza didattica e formativa del nostro sistema scolastico. L’unico e reale motivo di questa buffonata delle nomine “sotto casa”, infatti, è il risparmio economico, perché logicamente i commissari provenienti da scuole molto distanti dalla sede assegnata, pur appartenenti alla stessa provincia, vanno pagati di più; invece chi viene nominato a distanza di pochi metri riceverà un misero compenso di poche centinaia di euro e così lo Stato spenderà di meno, alla faccia della qualità della didattica ed in barba a tutti coloro che vorrebbero un esame serio ed un rigoroso accertamento delle reali conoscenze e competenze degli studenti. Bisogna riconoscere una cosa però, che il nostro ministro ed il governo di cui fa parte sono stati furbi, machiavellici direi: per spendere meno, infatti, avevano a disposizione anche un altro metodo, quello di diminuire i compensi per i docenti; ma un provvedimento del genere avrebbe scatenato proteste, scioperi e rinunce di tanti colleghi di fronte all’impegno di partecipare all’esame, e così hanno optato per una soluzione più “soft” ma altrettanto efficace, quella di nominare i commissari a pochi metri di distanza da casa, in modo da retribuirli con una miseria e cavarsela così a buon mercato.
A questo punto, però, ci coglie l’obbligo di chiederci – noi che ci illudiamo ancora e crediamo in una scuola veramente formativa – che senso abbia celebrare ogni anno questo stanco ed ipocrita rito dell’esame di Stato, che continua a costare denaro pubblico (anche se meno che in precedenza) e non offre più alcuna garanzia non dico di rigore, ma persino di regolarità. Se prima avveniva di frequente che i membri interni aiutassero sfacciatamente gli studenti suggerendo loro le soluzioni dei quesiti scritti e passando loro in anticipo le domande dell’orale, ora avverrà ancor più di frequente, perché a questa forma di prostituzione intellettuale parteciperanno anche i commissari esterni, che in realtà esterni non sono perché conoscono i colleghi (e spesso anche gli alunni) della scuola dove fanno l’esame. E per quanto io sia fermamente contrario alle commissioni formate tutte da professori interni (come era stato deciso all’inizio nella legge di stabilità) debbo dire che in fondo questa soluzione sarebbe preferibile rispetto a questa ridicola pantomima dei professori esterni che sono anch’essi interni, o quasi. Anzi, affiancandomi all’opinione di tanti altri colleghi, ritengo che la decisione migliore, visto il ridicolo nel quale siamo piombati, sarebbe quella di abolire del tutto questi esami e far decidere il voto finale al consiglio di Classe, che conosce gli studenti da almeno un anno e sa valutarli sulla base del loro rendimento scolastico ma anche del loro comportamento durante l’intero percorso scolastico. In tal modo il Governo otterrebbe un doppio risultato: avrebbe valutazioni più attendibili di quelle attuali e al tempo stesso risparmierebbe ancora altro denaro, da impiegare in qualche opera pubblica, magari una di quelle che costano miliardi, arricchiscono i corrotti e non arrivano mai alla completa realizzazione.

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La lingua italiana umiliata e offesa IV: gli anglicismi

Ecco il quarto e ultimo post sulle sofferenze oggi patite dalla nostra lingua, che mi decido a scrivere con una certa amarezza perché temo che al problema qui ricordato non vi sia rimedio. Inizio con una premessa che mi pare necessaria, cioè che io considero la lingua di un popolo, quella in cui si è espressa la sua letteratura e la sua cultura in genere, un tratto distintivo e irrinunciabile della sua identità storica, politica e sociale. Una nazione come la nostra, che con la sua arte figurativa, la sua musica, la sua letteratura ha dominato il mondo per secoli, dovrebbe preservare la purezza della sua lingua come un patrimonio prezioso; e invece, da molti anni ormai, assistiamo ad un continuo imbastardimento dell’italiano e al suo continuo arretrare di fronte all’irrompere prepotente e irrispettoso dell’inglese, che ha ormai contagiato a tutti i livelli ed in tutti i settori il nostro modo di parlare quotidiano. Il fenomeno è a mio parere molto increscioso, perché inquinare la propria lingua con il lessico, la fraseologia, la sintassi di un’altra significa, in certo modo, rinunciare alla propria identità culturale ed anche alla dignità collettiva di un Paese che, dopo aver primeggiato in Europa e nel mondo per tanti aspetti, si trova adesso ad essere svilito addirittura dai propri abitanti; io credo infatti, e non ho remore ad affermarlo, che questa schiacciante invasione dell’inglese, cui molte persone aderiscono forse perché sembra loro di essere più “chic” a inserire nel proprio eloquio tanti anglicismi e americanismi, sia solo una delle tante manifestazioni di quell’autolesionismo, di quella svalutazione e vilipendio di tutto ciò che è italiano e nazionale da cui tante persone sono affette. In ogni settore della vita pubblica è in voga oggi la più becera esterofilia: a sentire molti politici, giornalisti e persone comuni, i paesi stranieri sarebbero un Eden, un Eldorado dove tutto funziona perfettamente, mentre l’Italia sarebbe il ricettacolo di tutti i mali, di tutte le inefficienze, di tutte le ingiustizie. Io ho cercato, anche in questo blog, di ribaltare questa vergognosa mentalità che danneggia gravemente il nostro Paese, dato che siamo proprio noi italiani ad infamarlo. Ho anche dimostrato, almeno per il settore che dove lavoro da 35 anni, che la nostra scuola non è affatto l’ultima d’Europa; a me risulta il contrario, dato che ogni volta che ho avuto a che fare con docenti e alunni stranieri (inglesi, francesi, americani) ho trovato un’ignoranza abissale, mentre posso provare che i nostri studenti – anche quelli mediocri – quando vanno all’estero ottengono risultati strabilianti e surclassano quelli del luogo. Un motivo ci sarà… o no?
Tornando al problema della lingua, trovo assurdo e avvilente, oltre che autolesionista, imbastardire l’idioma più bello del mondo con l’intromissione forzata di anglicismi spesso orrendi e per giunta niente affatto necessari. Si potrebbe giustificare l’uso di un termine straniero qualora non esista in italiano un esatto corrispondente: ad esempio “computer” va lasciato in inglese, perché tradurlo “calcolatore”, come fanno i francesi, sarebbe fuori luogo in quanto oggi il PC è tutto fuorché un calcolatore numerico. La parola straniera potrebbe ancor comprendersi allorché esista un corrispondente in italiano ma sia disusato o arcaico: un esempio è “baby sitter”, che non mi piace affatto ma che non mi sento di sostituire con “bambinaia”, termine ormai fuori uso ed anche un po’ ridicolo. Però, al di fuori di casi come questi, perché non usare la lingua italiana? Dovrebbero spiegarmi i nostri politici quale necessità c’è di dire “spending revue” quando si può dire benissimo “revisione della spesa”, oppure “job act” invece di “riforma del lavoro”; e del pari dovrebbero spiegarmi, certi giornalisti, perché sia necessario dire “shopping” quando si potrebbe benissimo dire “acquisti”, o “footing” invece di “allenamento, corsa”, o “public relations” anziché “pubbliche relazioni”, che ne è l’esatto corrispondente. Potrei comprendere l’invasione dei forestierismi se la nostra lingua fosse deficitaria e lessicalmente povera; ma se ce n’è al mondo una estremamente ricca di termini e di diverse accezioni, questa è proprio l’italiano. Perché ricorrere all’inglese quando non ce n’è alcuna necessità? Io penso che i motivi siano due, quelli che ho già accennato: il voler seguire scimmiescamente le tendenze del momento (pardon, il “trend”)e la scarsissima stima che noi italiani, purtroppo, abbiamo di noi stessi e della nostra Patria. Altrimenti, quando il ministero dell’istruzione promulgò l’inserimento della figura del “tutor” nella scuola, l’avrebbe ripreso dal latino e non dall’inglese; io mi illusi che così fosse, ma dovetti poi amaramente ricredermi quando trovai scritto il plurale di questo termine, che mi aspettavo fosse “tutores”, ed invece era “tutors”!
L’infatuazione anglicistica si è diffusa ovunque come un’epidemia, tanto che l’inglese è diventato la materia più importante di tutte, è ritenuto indispensabile, ineludibile, irrinunciabile! Nella scuola superiore è già in atto lo sconcio provvedimento targato Gelmini che vuole che nell’ultimo anno dei Licei si insegni una materia in inglese; nelle nostre università esistono ormai corsi e Falcoltà interamente in inglese. Ma perché? Forse che in Inghilterra o in America esistono facoltà in italiano, benché sia palese che la nostra lingua ha contribuito alla cultura mondiale molto più della loro? Io non ho nulla contro lo studio dell’inglese, oggi necessario, ma la nostra coscienza e identità culturale di italiani dovrebbe indurci a proteggere la nostra lingua e semmai a valorizzarla, non a mortificarla e offenderla come noi stessi, purtroppo, stiamo facendo. Nel deprecato ventennio fascista ciò avveniva, ed erano addirittura vietate la parole straniere, perché allora il senso di Patria era molto più sviluppato, non andava di moda infangare il proprio Paese come stiamo facendo adesso. Mi rendo conto che oggi sarebbe improponibile tornare ad un protezionismo linguistico come quello di allora, che voleva si dicesse, ad esempio, “autorimessa” invece di “garage” o “quisibeve” invece di “bar”; ma un giusto mezzo di aristotelica memoria sarebbe la scelta migliore. Prendiamo esempio dai francesi, i quali hanno ben chiaro il concetto della propria identità linguistica e culturale, e non permettono agli anglicismi ed agli americanismi di inquinare la loro lingua. Sono forse reazionari? Io non penso affatto che lo siano, credo invece che si sentano sì europei, ma prima di tutto francesi. Ed è questa, secondo me, la scelta più giusta e più civile.

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Ancora su cellulari e copiature

Sto notando da un po’ di tempo che tra i termini più ricercati dagli utenti del mio blog ci sono “come copiare con il cellulare”, “copiare la versione”, “come non farsi sgamare dai prof mentre si copia”, e altre perle di questo tipo. Ciò significa che gli alunni continuano a cercare le scorciatorie e nell’ultima parte dell’anno scolastico, anziché studiare con più impegno, tentano come sempre di fare i furbi e di copiare, per raggiungere in modo disonesto e truffaldino una valutazione che non meritano. Parlando poi con colleghi di altre scuole (e anche della mia) mi accorgo che il fenomeno delle copiature con il cellulare durante gli esami ed i compiti in classe ha raggiunto dimensioni macroscopiche: ci sono classi dove, in barba al professore che non fa sufficiente attenzione (forse in buona fede, perché si fida dei suoi alunni), copiano praticamente tutti, falsando i risultati delle prove scritte e rendendo quindi queste ultime praticamente inutili. Il problema è già stato fatto presente ai vari ministri dell’istruzione che si sono succeduti, ma nessuno ha mai preso in considerazione l’idea di prendere provvedimenti atti ad impedire questa sconcezza che disonora tutta la scuola italiana. Non ci sono norme che tutelino gli insegnanti: i dirigenti scolastici infatti, interrogati in proposito, sostengono che se un alunno non viene sorpreso nel momento in cui copia, nessun provvedimento può essere adottato, neanche se il docente trova su internet la traduzione del brano latino (o greco) uguale a quella fatta dall’alunno e gliela mette sotto gli occhi. Niente da fare. Dinanzi a questa situazione, molti docenti fanno finta di non accorgersi di nulla (tanto lo stipendio arriva lo stesso!) e si rendono così complici dei disonesti e sono quindi cialtroni pure loro; altri tentano di reagire in qualche modo, ma è veramente difficile. Far consegnare i cellulari prima del compito è indispensabile ma non risolve il problema, perché i furbetti ne consegnano uno e ne occultano un altro tra i vestiti, nell’astuccio, facendo un incavo nel vocabolario e in altro modo ancora; perquisire gli alunni non si può assolutamente; impiegare i disturbatori di frequenze, che sarebbero l’unico strumento in grado di risolvere il problema, è illegale. Cosa ci resta da fare? Io ho cercato di dare qualche suggerimento in un post dello scorso 18 gennaio intitolato “Vademecum anticopiature per docenti di latino (e greco)”, basato essenzialmente sulla modifica sostanziale del brano da tradurre proposto, in modo da rendere difficile il suo reperimento su internet; aggiungo ora che può essere utile anche ricorrere ad autori semisconosciuti, magari di epoca medievale e umanistica, i cui testi non sono stati ancora collocati nei siti canaglia che si rendono complici di questo reato, perché di questo si tratta, specie se compiuto agli esami di Stato. Ritengo però che le scuole dovrebbero anzitutto elaborare un proprio regolamento in proposito, autorizzando i docenti ad assegnare il voto minimo (1 su 10) quando riescano a trovare una traduzione uguale o simile a quella effettuata dall’alunno, oppure – quanto meno – costringere quest’ultimo a svolgere un compito supplementare dove sia da solo e sottoposto a stretta sorveglianza.
C’è pure qualche ebete che, di fronte a queste mie parole, mi manda commenti accusandomi di metodi polizieschi o peggio ancora. Sarebbe meglio non arrivare a tanto, ma a mali estremi estremi rimedi. E poi, concludo, del problema dovrebbe occuparsi chi di dovere, cioè il nostro Ministero, perché è del tutto inutile fare proclami sui problemi della scuola e sul valore dei titoli di studio quando si permette che questi titoli vengano conseguiti in modo truffaldino e del tutto illegale. Ho già scritto in proposito ai funzionari che dovrebbero occuparsi del caso, ma per adesso nessuna risposta.

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I concorsi della beffa

In questo periodo sono state espletate già le prove scritte dei concorsi a cattedra per i docenti. Così, per curiosità, ho voluto dare uno sguardo ai testi delle prove, per vedere se potevo in qualche modo paragonarli a quelli che affrontai io quando sostenni il mio concorso ordinario a cattedre nel 1983/84, anni lontanissimi quanto le guerre Puniche. Mi è capitato di trovare su un sito web il testo della prova di latino delle classi 51A e 52A, le stesse in cui io mi abilitai e vinsi la cattedra in quel concorso antidiluviano che ricordavo sopra. Alla lettura sono sbigottito letteralmente, non credevo ai miei occhi: tutta la prova, cui è affidata la grave responsabilità di decidere se un candidato è degno o meno di insegnare nei nostri Licei, si riduceva alla traduzione di cinque versi (sic!) di una Bucolica di Virgilio, quattro righe del Brutus di Cicerone e due domande di letteratura! Se penso che al mio concorso prima citato dovetti svolgere ben tre prove di otto ore ciascuna, la prima delle quali era un tema di italiano, la seconda una traduzione di due lunghissimi capitoli di Tacito con aggiunta di un commento e la terza una traduzione di 55 versi di Euripide dal greco al latino (sì al latino, non all’italiano, e senza la possibilità di usare il vocabolario italiano-latino) con annesso commento, queste prove di oggi mi sembrano non solo ridicole, ma addirittura offensive per quelle persone brave e preparate che pur esistono ancora oggi. Come se non bastasse, uno dei due quesiti di storia letteraria era inopportuno, se non addirittura errato, perché faceva riferimento alla produzione teatrale romana dell’età di Augusto, la quale, come sa chi si intende solo un poco di letteratura latina, non produsse opere di tal genere. E’ bensì vero che Augusto tentò di rilanciare i generi teatrali perché, essendo il teatro frequentato da tante persone, avrebbe in tal modo potuto contare su di un’ottima cassa di risonanza per la propaganda di regime; ma il tentativo non riuscì, e di tal fallimento abbiamo una chiara testimonianza, fornita di adeguate motivazioni, nella prima Epistola del II° libro di Orazio. Ciò che può afferire al teatro, in epoca augustea, è soltanto qualche opera isolata di valore (come la celebre tragedia Medea di Ovidio, che non ci è pervenuta) oppure manifestazioni di minor rilievo come il mimo e il pantomimo. La domanda è quindi del tutto inopportuna in una prova concorsuale; ma ciò non ci stupisce più di tanto, perché alle imprecisioni ed agli errori degli “esperti” (si fa per dire!) del Ministero siamo ormai abituati, anche alle prove dell’Esame di Stato per gli studenti dei Licei.
Sta di fatto, comunque, che una prova così congegnata vale poco o nulla, e non è assolutamente adeguata a valutare la preparazione di persone che dovranno divenire docenti di ruolo dei Licei; anzi, a detta degli stessi candidati con cui ho potuto parlare, questo concorso ha favorito gli avventurieri ed i cialtroni che in questi casi non mancano mai, e non soltanto perché quesiti come quelli proposti non sono credibili né probatori, ma anche perché – a detta di tutti – i soliti furbetti hanno potuto copiare come volevano servendosi di cellulari, I-phon e altre diavolerie del genere, senza che nessuno abbia controllato né impedito alcunché. Si afferma quindi di nuovo il sacrosanto principio per cui, nella nostra sventurata Patria, non è il merito né la cultura che vengono premiati, ma la furberia, la furfantaggine e l’ignoranza. Ed il primo ignorante in tutto ciò, quello che merita la corona di Re, è il nostro ministro Francesco Profumo, un illustre personaggio che avrebbe potuto meglio realizzarsi, forse, al ministero dell’agricoltura.

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La mala tecnologia, ovvero “Come ti copio la versione”

Ritorno qui su un argomento già trattato in precedenza, che adesso ritrovo anche in un post del “Gruppo di Firenze”: la triste abitudine, ormai molto diffusa, di copiare con il cellulare i compiti in classe e quelli d’esame, in particolare le versioni di latino ed anche, sebbene in minor misura, quelle di greco. Il giochetto è semplice: gli studenti hanno tutti cellulari, smartphone, Iphone o come altro si chiamano, in grado di collegarsi ad internet. Così, una volta ricevuto dal prof. il testo da tradurre, si collegano a certi siti dove veri e propri criminali, nemici giurati della cultura e dell’onestà, mettono a disposizione la traduzione di tutti gli autori classici normalmente letti e studiati a scuola; basta inserire le prime parole della versione e compare sul display la traduzione già fatta, versando un minimo contributo o addirittura gratis.
Il danno fatto da questi manigoldi informatici è gravissimo, e non tanto perché si ingannano i professori (i quali, a dir la verità, non sono poi così tanto danneggiati, visto che non sono loro a dover ricevere una formazione ma gli alunni), quanto perché si trasmette ai giovani l’idea deleteria che per riuscire nella vita non occorre sforzarsi e far valere i propri meriti individuali, bensì farsi furbi e percorrere scorciatoie comode per arrivare alla meta. Così il giovane cercherà anche nella vita lavorativa di essere disonesto, di rubare, di ingannare il prossimo a suo vantaggio, e questo a me, che per tutta la vita ho cercato di inserire nei giovani il concetto di dovere, di impegno personale e di onestà, pare degno della galera a vita.
Ma come si può rimediare a questo sconcio? Io personalmente adotto un metodo che funziona: prendo i testi d’autore, li trasferisco in un file word e poi li modifico sensibilmente cambiando le costruzioni sintattiche, il lessico, l’ordine delle parole ecc., di modo che la versione da tradurre non è più quella che gli studenti possono trovare su internet. Per adesso questo mi è sembrato il partito migliore, benché non tutti i colleghi siano del mio stesso parere.
Il problema più grave si verifica però all’esame di Stato, dove la traduzione della versione proposta dal Ministero è già on line pochi minuti dopo la dettatura, e così i furbetti hanno buon gioco: invitati a consegnare i cellulari dalla commissione, ne depositano uno (magari una vecchia carretta) e ne tengono addosso un altro più moderno e sofisticato. Noi docenti, ovviamente, non possiamo perquisire gli studenti, né controllarli durante la prova, perché questi aggeggi hanno dimensioni così ridotte da poter essere nascosti ovunque, persino dentro le pagine del vocabolario. E allora cosa si può fare? Ho spedito poco fa una mail all’ispettore del MIUR Luciano Favini, dove ho suggerito una valida soluzione, anche se dubito molto del fatto ch’egli vorrà adottarla, se pur leggerà la mia lettera e mi darà risposta. Ciò che propongo è semplice: evitare di assegnare sempre e soltanto la traduzione di latino o di greco nella seconda prova scritta del Liceo Classico. Esistono altre forme di accertamento delle competenze linguistiche e letterarie degli studenti, che oltretutto nella loro vita non dovranno fare i traduttori professionisti dal latino o dal greco; si possono assegnare brani già tradotti da analizzare testualmente o con un commento storico-letterario, proporre analisi del testo come già si fa con la prova d’italiano; magari lasciare una piccola parte di testo da tradurre ma fondare la prova su esercizi di altro tipo. Al Liceo Scientifico è stata modificata da anni la seconda prova scritta: perché non lo si può fare anche al Classico, senza proporre sempre la solita vecchia “versione”? Del resto è evidente a tutti coloro che insegnano latino e greco al triennio del Classico, che i ragazzi di oggi, per vari motivi che non sto ad elencare, non sanno più tradurre in modo accettabile brani anche semplici in lingua, a parte ovviamente alcune lodevoli eccezioni. La traduzione, specie di brani molto difficili come quello di Aristotele proposto lo scorso anno, è ormai divenuta un lavoro da esperti, non da studenti liceali. E’ ora di cambiare questa prova d’esame, fermo restando l’esercizio linguistico da svolgere durante i cinque anni di Liceo, che conserva inalterata tutta la sua validità formativa; ma fondare l’esame di Stato soltanto sulla traduzione mi pare oggi, oltre che eccessivo, pressoché inutile (visto che i ragazzi copiano). Una diversa tipologia come quella da me suggerita non si troverebbe su internet e i ragazzi potrebbero semmai trovarvi qualche spunto, ma non copiare di sana pianta, perché ogni elaborato dovrebbe essere diverso dall’altro.

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