Un Paese di ignoranti

Un tempo la cultura era un valore positivo in ogni società; oggi invece, almeno nella nostra, è diventata per molti uno svantaggio, un inutile fronzolo, un peso da togliersi di dosso il prima possibile. E di converso l’ignoranza, un tempo condannata anche in modo eccessivo perché molte persone ne erano afflitte senza averne colpa, è diventata adesso quasi un titolo di vanto. I modelli proposti dalla TV e dai social esaltano altre qualità individuali come la bellezza fisica, il successo, la ricchezza materiale; di conseguenza il non sapere, l’essere privo di ogni competenza e di ogni conoscenza non è sentita come una mancanza, ma come un merito. La persona di cultura è spesso svalutata, ritenuta noiosa e pedante, quando addirittura non è apertamente guardata con sospetto e avversione.

Di questa attuale svalutazione della cultura nella nostra società contemporanea fornisco alcuni esempi. Nonostante che la maggioranza dei cittadini sia stata a scuola ed abbia terminato almeno un istituto di istruzione superiore, ciò non ha impedito la diffusione dell’analfabetismo funzionale: moltissime persone, infatti, sanno leggere e scrivere, ma non riescono a comprendere il senso di ciò che leggono, e se debbono scrivere non sono in grado di costruire un periodo in lingua italiana che sia sintatticamente corretto. Questo fenomeno a me sembra gravissimo: a che è servito a costoro andare a scuola per almeno tredici anni senza aver raggiunto le più elementari conoscenze di lingua? Ma il bello è che di tale condizione nessuno si preoccupa, pare anzi che questo genere di ignoranza – perché di ciò si tratta – venga comunemente accettata come facente parte della più ordinaria normalità.

A me risulta però che esista e sia molto diffuso anche un altro genere di analfabetismo, che io chiamo “di ritorno”. Mi riferisco alla limitatezza culturale di tante persone che non soltanto hanno frequentato le scuole superiori, ma si sono anche laureate diventando brillanti medici, avvocati, architetti o altro che dir si voglia. La maggior parte di costoro non legge più un libro dai tempi dell’università e presenta una spaventosa ignoranza in tutto ciò che non fa parte delle proprie specifiche competenze professionali: la storia, la geografia, la letteratura, le scienze, tutto lo scibile che hanno incontrato nel loro percorso è andato irrimediabilmente perduto. Tutto dimenticato, tutto sparito. Illustri e celebri professionisti, ricchi e famosi, non sanno chi erano Giulio Cesare o Napoleone, né quando sono vissuti né che cosa abbiano fatto, né dove si trovino l’Armenia o il Paraguay, né che cosa abbiano scritto Manzoni e Leopardi. Anche a costoro si potrebbe chiedere: cosa siete andati a fare a scuola? Cosa vi è rimasto della vostra istruzione?

Ma l’ignoranza più crassa e diffusa si vede dai social come Facebook, dove per mettere un post o scrivere un commento occorrerebbe quanto meno avere una minima conoscenza della lingua italiana; invece gli sfondoni e gli orrori ortografici e sintattici abbondano senza limiti, per non parlare della limitatezza lessicale di gente che magari, pur avendo un diploma, conosce appena 500 parole ed impiega sempre quelle. E se qualcuno che ne sa un po’ di più si azzarda a correggerli anziché ringraziarlo lo insultano, intimandogli di “non fare il professorino” e asserendo che ciò che conta è il concetto, poi se “a dormire” è scritto “ha dormire” non importa nulla, basta intendersi.

A questo punto c’è da chiedersi a cosa serva la scuola se tante persone, pur diplomate e laureate, non posseggono più neppure le competenze di base e si dimenticano in poco tempo tutto ciò che hanno studiato. Ma il problema non sta negli insegnanti, che nella gran maggioranza dei casi sono preparati e professionali, bensì nella mentalità corrente, che non conferisce alla serietà degli studi l’importanza che dovrebbe avere. La tendenza generale dei personaggi pubblici, dai divi dello spettacolo ai pedadogisti ed ai sociologi, è quella di blandire gli studenti, giustificarli sempre e comunque e soprattutto non biasimarli quando si comportano in modo scorretto, ad esempio copiando o cercando ogni scusa per non impegnarsi e ingannare i docenti; anzi, dalla TV arrivano messaggi compiacenti con tali comportamenti, come se non studiare, copiare o andar male a scuola fosse un merito e non un atteggiamento censurabile. Ho sentito celebrità televisive vantarsi di essere stati degli asini a scuola o di aver copiato i compiti, ed il tutto è accompagnato da risolini compiacenti, come se l’ignoranza che è la inevitabile conseguenza di questi atteggiamenti fosse cosa di cui andare fieri. A ciò si aggiunge la tendenza, ormai invalsa da molti anni, alle promozioni generalizzate, anche degli studenti per i quali sarebbe estremamente giovevole ripetere un anno del loro percorso. Tutte queste situazioni messe insieme non possono che dare un unico risultato: l’ignoranza, che a me pare una sciagura ma che invece, per l’opinione comune, è cosa di poco conto, anzi è auspicabile per poter controllare meglio il popolo ed imporgli una sorta di regime come quello in cui già ci troviamo, almeno da quando è iniziata la pandemia. E allora, se siamo contenti, continuiamo così: tanto, come disse qualcuno, con la cultura non si mangia.

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