L’antifascismo di comodo

Allora, meglio se lo dico subito e lo scrivo addirittura in maiuscolo, come se gridassi: IO NON SONO ANTIFASCISTA. E adesso spiego il motivo di questa mia affermazione così grave, così terribile agli occhi di molti nostri connazionali. Non ho alcuna simpatia per il fascismo, ma non sono antifascista per una ragione semplice, semplicissima: perché si può essere “anti”, cioè “contro” qualcosa che è vivo, esistente e operante; ma poiché il fascismo è finito quasi 80 anni fa, non ha alcun senso oggi nel 2024 dichiararsi fascisti o antifascisti, perché quel periodo è storicamente concluso, morto e sepolto, ed è assurdo e ridicolo dopo tanti anni fondare oggi, in un mondo profondamente diverso da quello di allora, il dibattito politico sulla contrapposizione fascismo/antifascismo. Se ciò che appartiene alla storia dev’essere ancora motivo di scontro oggi, allora perché non essere, ad esempio, anti-napoleonici, anti-guelfi o ghibellini, o contro i senatori che uccisero Giulio Cesare?

L’essere antifascisti era giustificato e meritorio durante il periodo 1922-1945, quando effettivamente esisteva quella dittatura, ed era lecito opporvisi anche affrontando, come fecero tante persone, le conseguenze di quella posizione ideologica. Gli antifascisti di allora, da Croce a Gramsci, vanno elogiati per il loro coraggio, ma perché combattevano contro un nemico esistente e potente, che aveva conculcato le libertà individuali e collettive; ma essere antifascisti oggi è semplicemente ridicolo, significa combattere contro ombre e fantasmi che non esistono in alcun luogo. La battaglia di don Chisciotte contro i mulini a vento era senza dubbio più intelligente. E non è certo convincente dire che la nostra Costituzione è antifascista: certo che lo è, perché fu redatta poco tempo dopo la fine di quella dittatura, mentre se fosse scritta oggi o fosse rinnovata (come sarebbe auspicabile) non sarebbe solo antifascista, ma sarebbe contro tutte le dittature, senza distinzione alcuna, come lo sono quelle degli altri paesi occidentali. L’Italia è rimasta l’unica a rimestare eventi di un secolo fa, mentre sarebbe molto più sensato pensare al presente e al futuro, chiudendo finalmente questa storia del fascismo e dell’antifascismo, categorie che appartengono alla storia e non debbono essere più oggetto di discussione e di divisione nel mondo attuale.

Ma perché, nonostante il ridicolo che una tale posizione suscita, la sinistra continua a insistere su questo tasto e pretende la patente di “antifascista” da tutti, come se vi fosse veramente un pericolo di ritorno al fascismo? Se qualcuno crede questo è un visionario, per non dire di peggio, perché oggi nessuna forza politica si richiama più a quel periodo, nessuno mette in discussione la democrazia e le libertà che ne conseguono. Anzi, dico io, se un appunto si può fare a questo governo è di segno contrario, quello cioè di non identificarsi abbastanza negli ideali della destra storica e di essere divenuto – specie in politica estera – una fotocopia dei precedenti esecutivi, quelli di Draghi, Conte, Gentiloni, Renzi e compagnia bella.

La verità è che le ideologie, come le religioni, hanno bisogno di un “nemico” per poter sopravvivere alla loro inevitabile caduta. Per questo i cristiani si sono inventati il diavolo, gli angeli ribelli a Dio, gli infedeli da sterminare nelle crociate, e così hanno fatto i musulmani e tutti gli altri. Il marxismo, da cui deriva sempre la nostra sinistra, è un’ideologia, cioè una religione laica, e perciò anch’essa ha bisogno di un nemico per poter giustificare la propria esistenza; altrimenti verrebbe in luce l’assoluta insensatezza del PD, dei Cinque Stelle e delle altre formazioni di sinistra, che hanno dimostrato di non avere alcuna risposta valida ai problemi attuali, né argomenti consistenti, e di non avere più neanche una ben precisa identità, da quando questi partiti hanno del tutto abbandonato le tematiche sociali per le quali prima lottavano. Se un tempo il PCI aveva tanti sostenitori perché s’identificava nelle lotte operaie e contadine, ora il PD non può avere gli stessi consensi sostenendo i diritti dei gay e l’idiozia del “politicamente corretto,” perché i cittadini con pieno diritto non li seguono più. Tutta la sinistra è in grave crisi e rischia di scomparire; perciò, avendo solo leali avversari e non nemici, è costretta a inventarsi un “nemico” inesistente per nascondere i gravi problemi di sussistenza che la opprimono. Ed ecco quindi che in maniera piuttosto patetica riesuma il cadavere del fascismo morto, sepolto e decomposto, sperando ingenuamente di evitare l’inevitabile disastro a cui la conduce la propria totale inconsistenza.

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Un grande classico da acquistare

Purtroppo negli ultimi anni le grandi collane di classici latini e greci in edizioni divulgative con testo originale a fronte hanno avuto una notevole battuta d’arresto: le più note (la BUR, gli Oscar Mondadori, la Garzanti ecc.) si sono addirittura inaridite e non pubblicano quasi più nulla. In compenso però vi sono altre case editrici che si sono impegnate in questa meritevole attività, mettendo a disposizione del pubblico testi affidati alle cure di valenti studiosi, ben curati dal punto di vista filologico ma caratterizzati altresì da un linguaggio accessibile anche ai non specialisti. Tra di esse mi pregio di citare la collana “Saturnalia” dell’editore “La Vita Felice” di Milano (di cui modestamente anch’io sono stato e sono collaboratore) e quella “Classici greci e latini” dell’editore Rusconi, diretta dalla prof. Anna Giordano Rampioni e controllata qualitativamente da un comitato scientifico di assoluto valore.

Proprio a quest’ultima collana appartiene un libro uscito di recente (novembre 2023), che ripropone quello che il poeta inglese John Dryden nel secolo XVIII definì “the best poem of the best poet”, ossia le Georgiche di Virgilio. I curatori sono due docenti molto noti nel panorama italiano ed europeo degli studi classici: il prof. Mario Lentano dell’Università di Siena, che ha curato il saggio introduttivo dell’opera, ed il prof. Gianfranco Nuzzo dell’Università di Palermo, a cui dobbiamo la traduzione ed il commento. E’ presente anche il testo latino a fronte, come accade in tutte le migliori edizioni dei classici, fondato sull’edizione critica di R.A.B.Mynors, Virgil. Georgics, Oxford 1969.

I due curatori hanno svolto un eccellente lavoro in questo volume, che oltretutto si presenta molto bene anche dal punto di vista della grafica e dell’impaginazione, oltre ad avere il pregio di un costo veramente contenuto (10 euro, non molto per un libro che supera le 200 pagine a stampa). Il saggio introduttivo del prof. Lentano affronta tutte le più importanti questioni emergenti dal grande poema virgiliano, che formalmente si occupa di agricoltura, della cura delle piante, degli animali domestici e delle api, ma che di fatto è una grandiosa sinfonia che celebra l’armonia della natura ed il rapporto tra la natura stessa e l’uomo, spesso accomunati nella gioia e nel dolore. Continuamente sostenuto da un grande afflato poetico, il poema virgiliano rivela anche la difficile e spesso contraddittoria posizione di Virgilio, come degli altri poeti del periodo, di fronte al principato di Augusto, da lui celebrato ma senza mai rinunciare all’autonomia della propria ispirazione. Tutti questi argomenti, ed altri che qui non posso citare per motivi di spazio, sono trattati dal prof. Lentano in modo impeccabile e soprattutto ben comprensibile anche ai non specialisti, e ciò fa sì che il suo saggio si distingua da quelli che accompagnavano le precedenti edizioni del poema virgiliano, spesso caratterizzati da un linguaggio accademico e persino astruso. Questo tratto distintivo corrisponde perfettamente all’idea che il sottoscritto ha sempre avuto dell’editoria dei classici, che proprio per valorizzare la loro perenne attualità debbono diffondersi tra quanti più lettori possibile, anche tra coloro che non hanno studiato il latino ed il greco ma sono interessati a scoprire la bellezza contenuta nei capolavori prodotti dalle letterature antiche.

La traduzione del prof. Nuzzo è chiara e precisa, puntualmente aderente al testo virgiliano ma priva di quelle durezze che sono inevitabili quando il traduttore intende riprodurre specularmente l’originale, dato che le lingue moderne sono lessicalmente e sintatticamente diverse da quelle antiche. Anche il suo commento è puntuale, non trascura nulla che sia degno di essere spiegato, sia dal punto di vista testuale che da quello storico e letterario. E’ diviso per libri e per sezioni, e ciò è molto utile per un’informazione immediata sulle varie parti dell’opera che il lettore intende esplorare. Anche qui l’elevato livello scientifico non va a detrimento della chiarezza e dell’accessibilità dell’opera, che resta sempre di ottimo livello.

Si tratta quindi di un libro prezioso, che tutti i lettori interessati alle Georgiche dovrebbero acquistare. Esauriente e agevole al tempo stesso, si distingue per la sua versatilità da tutte le precedenti edizioni e può essere utile sia allo studente liceale che a quello universitario, sia allo specialista – che vi troverà tante accurate osservazioni e chiarimenti – che ai lettori comuni, nella speranza che venga abbandonato il pregiudizio secondo cui le lingue e le letterature classiche sarebbero accessibili sono agli “addetti ai lavori”. Nel mondo antico si trovano le profonde radici della nostra civiltà moderna, e sono convinto che questo libro possa contribuire molto alla comprensione ed al consolidamento di questa verità.

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Lettera aperta al Ministro Valditara

Così, per passare un po’ di tempo e per sfogarmi su quelli che ritengo siano i mali del nostri sistema dell’istruzione, ho deciso di inviare questa lettera al sig. Ministro dell’istruzione e del merito on. Giuseppe Valditara. Arriverà al suo staff, e temo ch’egli non la legga mai: chissà quante gliene arrivano del medesimo tono, che i solerti collaboratori si affrettano a stracciare! Eppure, nonostante questo, ho voluto ugualmente fare questo esperimento, che qui ripubblico sul blog se non altro per suscitare una pacata discussione sui vari argomenti che tratto. Dico subito che la lettera, per lunga che sia, è ancor molto breve rispetto a tutte le criticità che ci sarebbero da evidenziare. Comunque, questo è il testo:

Egr. Ministro dell’Istruzione e del Merito On.Prof. Giuseppe Valditara

Sig. Ministro,

chi Le scrive è un docente ormai a riposo, che ha insegnato per circa 40 anni materie letterarie (Latino e Greco) presso il Liceo-Ginnasio “A.Poliziano” di Montepulciano (Siena). Affermo espressamente di appartenere alla Sua medesima parte politica e, conoscendo già da tempo i Suoi meriti in ambito culturale, di essere stato molto felice della Sua nomina ad un così importante incarico. Durante questo anno e mezzo di governo di centro-destra ho avuto anche modo di apprezzare e condividere i Suoi provvedimenti per quanto riguarda il problema della disciplina scolastica, del contrasto alla violenza in ogni sua forma e dell’uso a scuola dei cellulari e delle altre apparecchiature elettroniche.

Detto questo, vorrei però ricordarLe che la scuola italiana ha ancora molti problemi da risolvere, il primo dei quali – a mio giudizio – è lo stato di progressivo deterioramento della preparazione degli alunni, un allarme che, pur esistente già da prima, si è accentuato con il Covid e con il conseguente ricorso alla didattica a distanza. Ogni anno gli studenti escono con conoscenze e competenze sempre più incerte e approssimative dagli esami conclusivi della scuola primaria di primo grado e da quelli di Stato, ad onta delle votazioni molto elevate ma prive ormai, in molti casi, di corrispondenza alla reale preparazione. A questo stato di degrado, sempre a mio avviso, contribuiscono anche le molte ore di lezione non effettuate a causa di progetti e attività extrascolastiche, svolte in gran parte in orario curriculare, che rendono frammentario il lavoro dei docenti e compromettono quella continuità di apprendimento che è necessaria per la buona riuscita degli studi. Quest’anno in particolare l’aggiunta di 30 ore di orientamento al triennio della scuola superiore di II grado, da svolgere in orario curriculare, ha ulteriormente acuito il problema.

Avendo sempre insegnato in un Liceo, ho personalmente poca esperienza della scuola primaria e della secondaria di primo grado; ma ritengo che una vera, autentica riforma debba partire dai primi anni di frequenza scolastica, durante i quali dovrebbe essere privilegiato, ed esercitato con strumenti didattici efficaci, lo studio della lingua italiana, da proseguire anche nella secondaria di primo grado; e dico ciò a ragion veduta, giacché debbo amaramente constatare che tanti alunni arrivano ai Licei senza saper distinguere tra un avverbio e un pronome, senza discernere tra verbo attivo e passivo, transitivo e intransitivo ecc., per non parlare dell’analisi logica e del periodo. Per ottenere questo risultato ritengo che sia necessario tornare alla tipologia di esercizi in uso alcuni decenni fa, come dettati ortografici, riassunti, temi e via dicendo, che erano in grado di formare la personalità dello studente oltre che di offrire un mero apprendimento nozionistico; ed occorrerebbe anche ad un maggior rigore nella verifica degli apprendimenti, senza che la promozione sia automaticamente garantita come di fatto avviene oggi.

L’aver abolito l’insegnamento tradizionale per dare spazio a progetti e balzane invenzioni didattiche, spesso ideate da persone che non avevano pratica della scuola nella sua realtà, si è rivelato fallimentare. Lo stesso studio della lingua inglese, pur indispensabile per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro, rischia di avere ben poca efficacia quando i discenti non conoscono adeguatamente la propria lingua madre. Non è il caso di aver timore a “tornare indietro”, cioè a ripristinare metodi e strumenti che si credevano superati. Io non ho mai creduto al pregiudizio secondo cui tutto ciò che è nuovo debba per forza essere utile e proficuo: se si constata di aver commesso un errore, non v’è nulla di male a riconoscerlo ed a tornare sui propri passi.

Per quanto attiene specificamente alla scuola superiore di secondo grado, molte sarebbero le osservazioni da fare ed i provvedimenti da prendere. Sarebbe intanto utile completare il percorso da Lei giustamente intrapreso contro il dilagare del bullismo e della violenza nelle scuole, con l’adozione di provvedimenti severissimi e inappellabili sia contro gli studenti che si rendono colpevoli di gravi mancanze disciplinari sia contro i genitori che spesso intervengono in modo arrogante e offensivo verso il personale docente e non docente. Oltre a ciò, mi permetto di attirare la Sua attenzione su altri problemi che finora non hanno ancora trovato alcuna soluzione. Mi riferisco anzitutto all’uso degli strumenti elettronici da parte degli studenti, che ormai, anche con l’ultima novità costituita dall’intelligenza artificiale, rischiano di adulterare in tutto o in parte il processo apprenditivo e quello valutativo degli studenti stessi.

Per quanto riguarda il primo aspetto mi corre l’obbligo di osservare che il ruolo e l’importanza degli smartphone, dei tablet et similia va molto ridimensionato, nel senso che lo studente non impara né di più né meglio con questi strumenti rispetto allo studio con i quaderni ed i libri tradizionali; constatiamo anzi che l’impiego pressoché esclusivo di queste apparecchiature ha persino danneggiato l’apprendimento, ad esempio in ciò che riguarda la memoria e il consolidamento delle conoscenze acquisite. E’ proprio vero quello che il padre Dante diceva, cioè che “non fa scienza / senza lo ritenere avere inteso,” proprio perché ci accorgiamo ogni giorno di quanto sia difficile per gli alunni far sedimentare nella loro mente delle nozioni e delle conoscenze che arrivano loro a raffica, sui supporti elettronici e senza l’aiuto della scrittura e della rielaborazione personale. Ho letto di recente che la Svezia, che è stata una delle nazioni pioniere per la diffusione degli strumenti didattici elettronici, sta tornando ai libri ed ai quaderni, e qualcosa di simile sta accadendo anche negli Stati Uniti d’America.

E’ tuttavia il secondo aspetto, quello valutativo, che mi preme qui sottolineare. Ormai le verifiche scritte, almeno per le materie che ho insegnato per tanto tempo, sono profondamente adulterate dall’uso degli smartphone, per mezzo dei quali gli studenti trovano su internet i testi di latino e greco già tradotti, e lo stesso vale, per quanto sento dire, anche per l’italiano (con i temi già svolti) ed altre materie. Per il latino e greco il problema si estende anche agli esercizi da svolgere a casa, sistematicamente scaricati da internet e svolti personalmente da un numero sempre minore di studenti. I Suoi predecessori, signor Ministro, erano già stati avvertiti del problema, ma non hanno mai manifestato la volontà di risolverlo. Come sappiamo, non è lecito (giustamente) perquisire gli studenti, ed anche l’obbligo di consegnare lo smartphone viene facilmente aggirato portandosi appresso due cellulari, dei quali uno viene consegnato e l’altro tenuto addosso. Vi sono poi altri oggetti come orologi, penne e quant’altro dotate di videocamere e quindi in grado di fotografare i testi e spedirli a qualcuno fuori di scuola, che si premura di svolgere la traduzione e poi rispedirla allo studente, o di fare per lui il tema o gli esercizi di matematica o di qualunque altra disciplina. Lei comprende senz’altro che, in queste condizioni, sarebbe preferibile abolire del tutto le prove scritte, compresa quella dell’esame di Stato e quelle dei concorsi pubblici, anch’esse viziate dal medesimo problema. Eppure una soluzione ci sarebbe: quella di dotare le scuole di adeguate apparecchiature che possano schermare l’aula dove si svolge la prova scritta, impedendo agli strumenti elettronici di collegarsi ad internet. Le chiedo gentilmente di prendere in considerazione questa possibilità, al fine di restituire al percorso valutativo la necessaria credibilità; ciò inoltre sarebbe molto proficuo anche sul piano etico, per trasmettere ai giovani un messaggio positivo che ripristini l’onestà ed il rispetto della legalità, sulla quale si organizzano spesso corsi di aggiornamento e seminari che poi vengono clamorosamente smentiti nella pratica quotidiana.

Un’ultima osservazione vorrei fare riguardo ai libri di testo, sempre più minimalisti e qualitativamente mediocri. Il fenomeno, da inserire in un quadro di declino generale dell’istruzione, è dovuto anche – a mio parere – al tetto di spesa imposto dal Ministero per la dotazione libraria di ciascuna classe, che oltretutto è fermo ai prezzi del 2012 quando è ovvio presumere che in questi dodici anni ci siano state variazioni. Questo stato di cose impoverisce sempre più i veri strumenti di lavoro e impedisce perfino l’acquisto di determinati sussidi (si pensi ai classici singoli o antologie di autori classici, ormai quasi del tutto scomparsi) che invece sono necessari per il dovuto approfondimento delle materie umanistiche. Mi chiedo e Le chiedo se non sarebbe preferibile aumentare i tetti di spesa adeguandoli ai prezzi odierni, oppure addirittura abolirli sostituendoli con un “budget” economico da assegnare a ciascun istituto per contribuire all’acquisto dei libri per le famiglie meno abbienti che ne facciano richiesta.  

Le sarò grato, signor Ministro, se vorrà considerare quanto qui Le ho scritto e riflettere sulla gravità dei problemi della nostra scuola, che Lei ha certamente la volontà e l’intenzione di risolvere. Augurandomi che la Sua permanenza nell’alto incarico prosegua per molto tempo e sia tale da permetterLe di lasciare di sé un ottimo ricordo, Le faccio i più vivi complimenti e Le auguro ogni successo.

Con deferenza. Prof. Massimo Rossi – Montepulciano (Siena)

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Ucraina e Palestina: dove sta la verità?

Mi rimane sempre più difficile parlare di politica, sia qui che sulla mia pagina Facebook, soprattutto perché le mie idee non sono condivise da molti; anzi, a dire apertamente ciò che si pensa, si rischia di suscitare malumori, di perdere amicizie, di ricevere insulti e via dicendo. Perciò è tanto tempo che me ne sto zitto e preferisco non commentare ciò che avviene nel nostro Paese e nel mondo. Adesso però sento la necessità di esprimermi sui riflessi che hanno sulla nostra politica ufficiale i due conflitti di cui più si parla in questo periodo: quello in Ucraina e quello in Palestina.

Sul primo continuo a non approvare la politica dei nostri governi, sia quello di Draghi che l’attuale della Meloni. Ciò che mi dà più fastidio è questa acquiescenza servile alle posizioni americane ed europee, cioè l’essersi schierati apertamente con Zelenski al punto di continuare a inviargli armi per proseguire all’infinito questa guerra, perché nessun altro esito produce il riarmo di un paese se non quello di allungare indefinitamente i conflitti e le vittime che questi provocano. Non trovo affatto giustificato questo impegno in base al pretesto, abbracciato anche dalla Meloni, secondo cui aiutare l’Ucraina significa anche garantire la nostra sicurezza. A parte il fatto che anche la Russia ha le sue ragioni a causa dei maltrattamenti perpetrati dal signor Zelenski contro le popolazioni russofone del Donbass per ben otto anni, ma poi dov’è scritto che Putin, dopo l’Ucraina, attaccherebbe i paesi Nato o l’Europa nel suo insieme? Non credo che gli converrebbe commettere uno sproposito del genere, e non vedo perché temere una cosa simile. Fanno il confronto con Hitler e l’invasione della Cecoslovacchia, di fatto permessa dalla debolezza delle potenze occidentali di allora; ma il 2024 non è il 1938, il mondo è completamente cambiato, non credo che giovi a nessuno, neanche a Putin, scatenare una guerra nucleare. Io credo invece che la posizione del nostro governo derivi da una annosa sottomissione che l’Italia ha nei confronti degli USA, i quali, per averci liberato nel 1945, evidentemente pensano ancora di essere i nostri padroni. E la stessa cosa vale per i burocrati e i finanzieri di Bruxelles, che ormai dominano il mondo, almeno coloro che non hanno la dignità di rivendicare l’autonomia decisionale del proprio paese. E l’Italia si sta vergognosamente piegando agli USA e all’Europa, quando invece, se non ricordo male, il partito della Meloni e quello di Salvini, quando erano all’opposizione, si definivano “patrioti”, e proclamavano che bisognava liberarsi dal giogo dell’Europa. Arrivati al governo, hanno fatto esattamente il contrario, provocando rabbia e delusione proprio in coloro che li hanno votati.

Sul secondo conflitto, quello della Palestina, io resto sconvolto dalle numerose manifestazioni a favore dei Palestinesi che si sono viste in Italia e nel mondo e che hanno dato luogo a fatti spiacevoli come quelli accaduti a Firenze e Pisa. Non entro nel merito e non dico come la penso sugli scontri tra polizia e manifestanti; dico però che non comprendo in generale queste manifestazioni, dietro le quali si celano ancora i residui di un antisemitismo che non è mai tramontato del tutto. A proposito faccio alcune osservazioni: 1) chi organizza o partecipa a queste manifestazioni pro-palestinesi, è sicuro di conoscere abbastanza la situazione storica, geografica e sociale del Medio Oriente al punto tale da poter prendere una posizione così netta e precisa? 2) Si accusa Israele di genocidio e simili. Sarà anche vero, ma chi è stato a scatenare la macchina bellica israeliana? L’attacco ignobile e vigliacco di Hamas del 7 ottobre, dove si sono visti orrori e atrocità di ogni genere. Questo evento è forse da giustificare o da ignorare? Chi per primo provoca o fa violenza è quello che ha il torto e deve aspettarsi la reazione dell’aggredito. 3) le manifestazioni, se pur si vogliono fare e si crede che servano a qualcosa (quando in realtà non servono a nulla) dovrebbero essere organizzate contro i macellai di Hamas, non contro Israele. Cosa si aspettavano i terroristi, che lo stato ebraico avrebbe sopportato tutto senza reagire? In realtà sapevano bene che la reazione ci sarebbe stata, anzi hanno fatto quell’attacco apposta per provocarla e poter così isolare Israele e mettergli il mondo contro. Loro, i terroristi di Hamas, non amano affatto il popolo palestinese, non importa loro nulla dei morti nella striscia di Gaza; anzi, dico senza mezzi termini che secondo me sono loro gli assassini del proprio popolo. Questo è il mio pensiero, che esprimo pur sapendo che la maggioranza di chi leggerà non sarà d’accordo con me. Ma io so di avere una visione del mondo diversa e contraria da quella della maggioranza delle persone, e sinceramente ammetto che non mi angustio per questo, anzi ne vado orgoglioso.

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Saluti romani e paura del passato

Abbiamo tutti appreso la notizia che qualche giorno fa a Roma, alla commemorazione dei tre giovani barbaramente uccisi ad Acca Larenzia nel 1978 dagli estremisti di sinistra, i partecipanti si sono esibiti in un saluto romano collettivo che innegabilmente si richiamava al fascismo, mostrando una nostalgia di quel regime che oggi, a distanza di quasi un secolo, è certamente anacronistica e del tutto fuori luogo. Inutile dire che a questo fatto è seguita una bagarre politica e giornalistica in cui la sinistra ha preso la palla al balzo per formulare la solita accusa di “fascismo” contro gli avversari politici, coinvolgendo anche il governo che, a loro dire, non farebbe abbastanza per prendere le distanze da questi estremisti.

Qui faccio una prima considerazione. A mio parere il governo Meloni ha ampiamente dimostrato di non avere nulla a che fare con i nostalgici del fascismo, e l’ha dimostrato nel modo più efficace, cioè non prendendo alcun provvedimento che, nell’accezione comune, possa dirsi “di destra”, ma ricalcando in politica interna ed esterna le orme dei precedenti esecutivi di Draghi, Conte, Gentiloni, Renzi e via dicendo. Nell’altro post ho precisato che mi sarei aspettato veramente una politica più consona agli ideali della destra liberale, specie per quanto riguarda il contrasto alla criminalità ed il sistema dell’istruzione; invece niente, tutto è rimasto come prima o peggio di prima, e quindi non vedo come si possa accusare questo governo di simpatizzare con gli estremisti di destra. Caso mai è vero il contrario.

Detto questo, aggiungo un’altra cosa. Il nostro si vanta di essere un paese democratico, vero? E allora, se veramente è così, dobbiamo rifiutare e respingere tutti gli estremismi, non solo quello di destra. Se fare il saluto romano è reato, perché allora non lo è il pugno chiuso dei comunisti, il simbolo della falce e martello, il fatto stesso di proclamarsi aderenti a quella ideologia? Da tempo il Parlamento europeo ha accomunato nella condanna tutte le dittature, di destra e di sinistra, e quindi non vedo perché in Italia si continui a fare due pesi e due misure. Non mi convince affatto chi dice che in Italia c’è stato il fascismo mentre non c’è mai stata una dittatura comunista: a parte il fatto che il fascismo è finito come regime da quasi 80 anni e quindi sarebbe l’ora di consegnarlo alla storia, ma va aggiunto che il comunismo è un’ideologia perversa in sé, che va respinta con tutte le forze perché portatrice di morte e di oppressione e quindi il sostegno e l’apologia di essa va equiparato a quello del fascismo, com’è in ogni stato civile. Poi anche dire che il comunismo in Italia non c’è mai stato non è del tutto esatto: durante gli anni della guerra civile, in particolare quelli del “triangolo della morte” del 1946-47, i comunisti hanno compiuto delitti e orrori di ogni genere, e se hanno combattuto il fascismo l’hanno fatto non con l’idea di dare all’Italia una democrazia, ma di farla entrare nell’orbita di Stalin e dell’Unione Sovietica. Questo basta e avanza per equiparare e combattere gli estremismi, da qualsiasi parte provengano.

Ciò nonostante io non voglio affatto giustificare quelli che a Roma hanno fatto il saluto romano, che oltre che nostalgici mi sembrano degli esaltati, visto che sono poche centinaia di persone e che, se si presentassero alle elezioni, non otterrebbero più dello 0,1%. Quindi la loro animosità è perfettamente inutile, anzi è dannosa: e non lo è tanto per la sinistra, che anzi se ne avvantaggia perché prende al volo l’occasione per tirare fuori ancora, dopo 80 anni, la solita favola del “pericolo fascista”, che non esiste e non esisterà mai. Il danno lo fanno proprio alla destra, che si sente arrivare addosso le solite assurde accuse di connivenza con persone e idee che nulla hanno a che fare con gli ideali di giustizia, di pace e di ordine che animano la destra liberale alla quale io stesso mi pregio di appartenere. Non solo fare il saluto romano è un gesto stupido e dannoso, ma contribuisce purtroppo a dar forza a chi, per mancanza di argomenti e interna disunione, sguazza nel fango della solita assurda e anacronistica polemica e non vuole, per mero interesse personale, fare una volta per tutte i conti con il passato.

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Anno nuovo, politica vecchia

E’ iniziato un nuovo anno, purtroppo per me sarà il settantesimo della mia vita, e la cosa non è certo piacevole. Comunque, in tutto questo tempo, ho avuto modo di osservare che mentre il costume e la mentalità degli italiani sono cambiati molto negli ultimi decenni, la politica è rimasta sostanzialmente la stessa: schermaglie a vuoto tra gli schieramenti, promesse non mantenute nei confronti degli elettori, larga prevalenza delle parole sui fatti e sugli obiettivi effettivamente raggiunti.

Da quando si è creato il cosiddetto bipolarismo, si susseguono al governo i due schieramenti di centro sinistra e di centro destra, cui si è aggiunta negli ultimi anni la presenza del Movimento Cinque Stelle che però, partito con intenzioni antipolitiche e quasi eversive, ha finito poi per allearsi ora con l’uno ora con l’altro dei partiti tradizionali, dimostrando la sua totale inconsistenza ideologica. Del resto cosa si può pretendere da un partito che è pura espressione del nichilismo e della più becera antipolitica, privo di qualsiasi base culturale e nato dal “vaffa…” di Beppe Grillo? Adesso i grillini, che volevano scardinare il sistema, sono diventati anch’essi parte di quel sistema, ne sono anzi la parte più confusa e inconcludente.

Tornando al bipolarismo, in cui ormai anche il M5S si identifica, mi sembra chiaro che assistiamo ad un singolare fenomeno: che cioè quando governa il centro-sinistra nella fattispecie politica prevale la componente centrista (nel senso che questi governi prendono ben pochi provvedimenti che si potrebbero storicamente definire “di sinistra”), e lo stesso avviene quando governa il centro-destra. Il governo Meloni, in altri termini, ha fatto poco o nulla che possa chiamarsi “di destra”, ma si è allineato supinamente, soprattutto a livello di politica internazionale, ai precedenti esecutivi di Draghi, Conte, Letta, Renzi e compagnia bella. Lo dimostra, se non altro, l’europeismo convinto della Meloni (che non aveva certo prima, quando era all’opposizione), la soggezione perpetua agli Stati Uniti d’America, la posizione presa sulla guerra in Ucraina, uguale a quella di tutti i precedenti governi.

Che significa tutto ciò? Che sia che governi il centro-sinistra che il centro-destra, cambia ben poco, per non dire nulla, nella vita dei cittadini. Tutti gli esecutivi sono uguali o molto simili e quindi diventa una presa in giro chiedere agli italiani di andare a votare quando è evidente che, qualunque sia il risultato del voto, la politica è sempre la stessa. La ragione principale di questo appiattimento è, io credo, la totale mancanza di autonomia e di sovranità del nostro Paese, che un debito pubblico ingente (ma forse non solo quello!) costringe ad essere succubi dei banchieri di Washington e di Bruxelles, dato che da decenni, con la globalizzazione, l’economia prevale di gran lunga sulla politica. Chi tenta di ribellarsi all’oppressione dei mercati viene schiacciato, come avvenne al governo Berlusconi nel 2011: con il ricatto dello “spread” i potentati economici, appoggiati da Berlino, da Parigi e dal tradimento di Napolitano, fecero cadere un esecutivo legittimamente eletto dagli italiani. Che vuol dire questo? Che il nostro voto non conta nulla, e non mette neanche conto di andare a votare: perciò, se i politici si rendessero conto di questo ragionamento che tanti italiani fanno, non si meraviglierebbero tanto dell’astensionismo che sempre di più prevale alle elezioni. L’Italia non è un paese libero, siamo una colonia americana e franco-tedesca, non possiamo più decidere nulla autonomamente, e qualunque governo ci sia ha l’obbligo di inchinarsi davanti ai nuovi padroni stranieri. Per questo i nostri governi sono tutti uguali, ormai destra e sinistra sono solo slogan vecchi e superati privi di qualunque valore effettivo.

Come sa chi mi conosce, io sono sempre stato un elettore di centro-destra, anzi più di destra che di centro, ma – a meno che non cambi idea di qui a giugno – ho deciso di non votare più. Avevo riposto nel governo Meloni la speranza che cambiasse effettivamente qualcosa nel nostro Paese, e invece la sudditanza ai potentati stranieri ha prevalso fino a far divenire questo esecutivo una fotocopia di quello di Draghi e dei precedenti. Cosa pretendevo? Nulla di eclatante, ma che almeno sul piano della politica interna si facesse finalmente qualcosa “di destra”, cioè si attuassero quei valori di ordine e giustizia che dovrebbero ispirare questa parte politica. Faccio tre esempi. Il primo è l’immigrazione clandestina, che porta in Italia un degrado tale che siamo diventati la pattumiera d’Europa, alcuni quartieri delle nostre città sono ormai invivibili ed in mano agli spacciatori ed ai violenti: ecco, qui non pretendevo che si attuasse la fanfaronata del blocco navale, ma che almeno si riducessero gli sbarchi, che invece – proprio con un governo falsamente di destra – sono triplicati. Il secondo esempio è la criminalità, sia quella organizzata che quella urbana delle baby-gangs, degli scippi, dei borseggi, delle occupazioni delle case ecc. In questi casi un governo che si dice di destra avrebbe dovuto intervenire inasprendo le pene e rendendole effettive, togliendo i criminali dalla circolazione, restaurando i riformatori per i minorenni che delinquono, cacciando a calci dopo un minuto chi occupa abusivamente le case altrui. Invece niente. Il terzo esempio, infine, è quello che più da vicino mi interessa, il mondo della scuola: qui il ministero affidato a Valditara, che ipocritamente è stato ribattezzato “dell’istruzione e del merito” non ha fatto nulla per valorizzare i meritevoli e restituire serietà agli studi. Anzi, avviene tutto il contrario: nelle scuole si perdono ore e ore di didattica per progetti inutili come le 30 ore obbligatorie di orientamento inserite proprio quest’anno, la lingua italiana è sempre meno studiata e conosciuta, le promozioni di massa continuano a riempire la società di analfabeti di ritorno che pur sono usciti dalle scuole con votazioni alte ed altissime. Il ministro Valditara, che pur si dice uomo di scuola e di cultura, cosa ha fatto per fermare questa deriva? Nulla di nulla, anzi ha peggiorato la situazione precedente. E allora, cara Meloni e altri componenti dell’esecutivo, non meravigliatevi se saranno proprio i vostri sostenitori ad abbandonarvi, perché non c’è maggior delusione di quella di coloro che si sentono traditi nei loro ideali e nelle loro aspirazioni.

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Da dove viene la violenza

Quando accadono fatti atroci come il recente femminicidio della povera Giulia, in me sorgono spontanei due diversi sentimenti: il primo è la normale compassione per la povera vittima, il secondo è invece l’indignazione per ciò che si sente dire nei dibattiti televisivi e sui social, che in questi giorni non si occupano d’altro. Quello che mi dà più fastidio è sentire le solite femministe da quattro soldi invocare sempre il cosiddetto “patriarcato” e colpevolizzare tutti gli uomini facendo di ogni erba un fascio, come se il nostro essere maschi, una cosa che oltretutto non è dipesa dalla nostra volontà, fosse di per sé una colpa, un marchio d’infamia. Secondo queste oche starnazzanti, che spesso si pregiano di essere filosofe o sociologhe, gli uomini sarebbero tutti potenziali violentatori e assassini, secondo un retaggio che deriverebbe da un’atavica concezione della società e dei rapporti di genere, al punto da considerare la donna come loro possesso privato su cui detenere potere di vita e di morte.

A questi vaneggiamenti propri del femminismo più becero, a cui strizzano l’occhio tanti giornalisti e politici della nostra sinistra, basterebbe rispondere che il problema dei femminicidi esiste anche nei paesi che costoro ritengono più civili e meno patriarcali del nostro come la Germania, la Francia, la Norvegia, la Svezia e persino gli Stati Uniti d’America. Ma costoro fingono di non saperlo e continuano a spargere fango sul nostro Paese e a fare sciacallaggio contro l’attuale governo, come se la colpa dei delitti che vengono perpetrati fosse di qualche ministro del governo Meloni, o come se con gli altri governi precedenti i femminicidi non fossero esistiti. Siamo alla follia più pura: pur di attaccare il governo in carica certi ignobili scribacchini dei giornali e delle TV nostalgiche del comunismo riescono persino a strumentalizzare una vicenda drammatica come quella della povera Giulia per guadagnare qualche consenso. Sono vomitevoli, solo il disprezzo e lo schifo è ciò che meritano.

Io ritengo che il “patriarcato” non esista affatto nella nostra società, tranne forse in qualche famiglia più culturalmente arretrata; ma, a parte il fatto che in quelle famiglie i femminicidi non avvengono, nella stragrande maggioranza delle situazioni la donna è giustamente considerata alla pari dell’uomo, può fare carriera nell’ambito lavorativo e realizzarsi come persona, nessuno si oppone ormai a questo dato di fatto, nonostante le urla delle megere che amano sfondare le porte aperte per continuare ad esistere ed avere un po’ di visibilità. Sono anzi certo che con il patriarcato il femminicidio non c’entri nulla, perché chi compie questi odiosi delitti è spesso persona istruita, giovane e ben inserita in una società paritaria.

Sull’origine di questa violenza credo che una parola giusta sia stata detta dallo psicanalista Paolo Crepet e da altri della medesima opinione, a cui anch’io aderisco. Il fatto è che oggi i giovani vivono come tenuti nella bambagia, non sono più abituati ad affrontare difficoltà o a subire delusioni e insuccessi. Guardiamo cosa succede a scuola: se un alunno prende un voto basso, subito arrivano i genitori a difenderlo, se viene bocciato ecco che ricorrono al TAR e lo fanno promuovere; le punizioni, che sono sacrosante perché mostrano le conseguenze di un’azione sbagliata ed educano colui che ha sbagliato, oggi non esistono più, sempre grazie alla mentalità di origine sessantottina e di sinistra che, quando viene commesso un reato, attribuisce la colpa a tutti meno che al diretto responsabile. In questo modo i giovani crescono nella presunzione di avere tutti i diritti e nessun dovere, e soprattutto non sono più in grado di accettare rifiuti o insuccessi: ecco così che in certi casi estremi, quando uno di loro si vede abbandonato da una ragazza, reagisce in modi diversi ma comunque sbagliati, dei quali il peggiore di tutti è quello che porta alla violenza e all’assassinio.

Come rimediare a questo gravissimo problema? Esso ci mostra come la nostra società così moderna e tecnologizzata sia in realtà squallida e nichilista, e che sotto questo aspetto le cose andavano meglio molti decenni fa, quando le donne avevano forse meno diritti ma non venivano ammazzate. Secondo me insistere perché la scuola si faccia carico anche di questa “educazione all’affettività” è un errore grossolano, perché questi principi etici e psicologici vanno insegnati in famiglia; la scuola non ha questo compito direttamente, ma indirettamente già lo assolve trasmettendo ai giovani (soprattutto attraverso la cultura umanistica) valori positivi che sarebbero sufficienti se le famiglie sapessero fare bene la loro parte. Certo, l’educazione è importante, ma non è uno strumento che possa dare frutti nell’immediato, perché troppi danni sono stati fatti dalla TV, dai social, dal buonismo melenso dei pedagogisti e dei politici per poter cambiare qualcosa in poco tempo. Sul momento io credo che un forte inasprimento delle pene esistenti, che devono essere scontate effettivamente dal primo giorno all’ultimo senza alcun permesso o facilitazione di alcun genere, sia l’unico deterrente in grado di ottenere qualche risultato. Non parlo di pena di morte perché oggi questo è diventato un tabù; ma sono convinto che se il suo ripristino per gli omicidi volontari fosse proposto mediante un referendum generale, tre quarti della popolazione voterebbero a favore.

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La giustizia ingiusta

Quello dell’amministrazione della giustizia non è un argomento che mi abbia particolarmente interessato finora, ma quel che si vede oggi mi porta a interessarmene, perché vedo che in questo campo le cose vanno al contrario di come dovrebbero andare: si vedono infatti sentenze e azioni dei magistrati che lasciano esterrefatti, considerato anche che si tratta di una casta privilegiata di persone che non rendono mai conto di nulla a nessuno. Già questo è inaccettabile in un paese democratico: se per tutti vale il principio che chi sbaglia paga, esso deve valere anche per i giudici, specie quando rimettono in libertà i criminali oppure, al contrario, quando comminano pene pesantissime senza prove adeguate.

Il primo caso si verifica quotidianamente con la microcriminalità urbana, soprattutto praticata dalle baby-gang e dagli immigrati. Costoro compiono reati di ogni sorta (scippi, furti, rapine, pestaggi ecc.) che dovrebbero comportare anni di carcere; e invece, come per miracolo, e dopo che le forze dell’ordine hanno rischiato persino la vita per catturarli, ecco che vengono rimessi subito in libertà dai magistrati, così possono tornare impunemente a rubare, rapinare e violentare. E’ vero che se i magistrati agiscono così vuol dire che c’è qualche cavillo legale che lo permette; ma è altrettanto vero, a mio parere, che se volessero i giudici potrebbero usare una mano ben più pesante contro chi viola costantemente la legge e rovina la vita dei cittadini, terrorizzati in certe città anche soltanto a dover uscire di casa.

Così criminali e terroristi tornano in lbertà, tanto è vero che i malavitosi stranieri vengono a delinquere in Italia perché sanno che qui la fanno franca e agiscono indisturbati, grazie alla nostra Magistratura. Ma esistono anche casi contrari di mala giustizia, e sono persino peggiori di questi. Io da tempo seguo su Rai3, il sabato sera dopo mezzanotte, la trasmissione “Un giorno in pretura”, dove vengono seguiti processi istituiti di solito per reati gravi, specie omicidi. Dopo una lunga istruttoria che spesso divaga rispetto all’argomento del processo, con avvocati che perdono tempo in domande inutili, alla fine la Corte prende quasi sempre la decisione di condannare gli imputati a pene pesanti, che meriterebbero senz’altro se la loro colpa fosse provata; ma il guaio è che spesso le prove sono evanescenti o sono semplici indizi, in base ai quali non è giusto rovinare la vita di una persona con una condanna pesante. Si ha proprio l’impressione che i magistrati vogliano ad ogni costo trovare un colpevole, un capro espiatorio da dare in pasto alla folla e ai giornali, condannando persone anche senza prove certe. Alcuni casi pubblici sono eclatanti: io ricordo quello di Avetrana, dove la colpevolezza delle due donne condannate non si fondava su prove ma su semplici indizi, e quello del muratore condannato per la morte di Iara Gambirasio, la cui reale colpevolezza è molto dubbia e vi sono state anche iniziative, finora inascoltate, di riaprire il processo. Io mi chiedo, a tal riguardo, perché è stata abolita la formula dell’assoluzione per insufficienza di prove: era una soluzione giusta e sacrosanta, perché quando le prove non ci sono, o sono insufficienti, non si può condannare una persona, anche se il pensiero comune porta a credere che possa essere colpevole. E’ il magistrato a dover dimostrare la colpevolezza, non l’imputato a dover dimostrare la propria innocenza.

Il malfunzionamento del carrozzone della giustizia è evidente, sotto gli occhi di tutti, e non si vede perché il Parlamento non emani una legge che sistemi le cose, anche caricando i magistrati di responsabilità penale in caso di errore e soprattutto di dolo. Un tale principio avrebbe dovuto applicarsi, se in questo Paese ci fosse veramente giustizia, contro quei magistrati che hanno agito e agiscono per faziosità politica, cosa vergognosa per chi – per l’essenza stessa della sua professione – dovrebbe essere al di sopra delle parti. Non possiamo dimenticare la diabolica persecuzione di cui è stato oggetto il compianto Berlusconi, il quale ha dovuto subire per decenni processi e accuse assurde come quelle del famoso caso Ruby; ed a questa vergogna aggiungo anche i processi subiti da Salvini per il “reato” di aver difeso i confini della Patria da un’invasione di stranieri che diventa sempre più massiccia. Non contenti di ciò, ancor oggi vi sono magistrati che combattono un governo legittimamente eletto dal popolo e partecipano persino a manifestazioni pubbliche contro di esso. Per tutti questi motivi si comprende come una riforma della giustizia sia urgente e necessaria, e dovrebbe essere proprio questo governo a proporla e portarla in Parlamento, proprio perché è quello che più degli altri ha subìto il giustizialismo di chi, anziché operare in modo imparziale, ritiene di poter manipolare le leggi in funzione del proprio credo politico.

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Una nuova pubblicazione

E’ ben noto che attualmente è diventato molto difficile, se non impossibile, che un autore non conosciuto riesca a pubblicare un libro cartaceo presso le più importanti Case editrici italiane (Mondadori, Rizzoli, Einaudi, Feltrinelli, Garzanti ecc.), perché agli editori interessa ben poco il valore letterario o scientifico di quel che esce dalle loro stamperie, mentre l’unico esclusivo interesse è il guadagno ottenuto con le vendite. Se anche oggi esistessero un Manzoni, un Leopardi, un Pirandello, un Montale ecc. sarebbero costretti a tenere le loro opere in un cassetto, perché la logica del profitto è ormai l’unico e solo scopo che anima gli editori. Per arrivare alla realizzazione del sogno non è quindi necessario il talento, di cui importa poco, bensì l’essere già conosciuto per altre attività (la politica, il giornalismo, lo sport ecc.) oppure avere la presentazione di qualche personaggio famoso.

Personalmente io purtroppo, pur avendo già pubblicato numerosi libri di tipo divulgativo e scolastico, non sono riuscito in due anni a trovare collocazione per un saggio frutto di lunghi e approfonditi studi: si tratta di un’opera in otto capitoli intitolata “Enea, l’eroe malinconico”, che affronta in particolare la psicologia dei personaggi, ma anche altre questioni interpretative sull’Eneide come la religione, la filosofia, i rapporti con altri generi letterari, la forma. L’ultimo e più esteso capitolo è dedicato alla fortuna secolare del poema virgiliano, che coinvolge anche la musica lirica. L’ho presentato a una ventina di case editrici: la maggior parte di esse non ha risposto affatto, mentre quelle due o tre che hanno risposto mi hanno detto che un’opera del genere non assicurava un numero adeguato di vendite.

Così, per la prima volta, mi sono deciso ad autopubblicare il libro su internet, in forma di E-book, avvalendomi di un editor formato da giovani esperti e volenterosi, chiamato “Youcanprint”. L’opera è così stata pubblicata sul sito dell’editor e sui principali siti di vendita di libri on line italiani (Mondadori store, Amazon, La Feltrinelli, IBS, Libreria universitaria, Hoepli, Unilibro ecc.). Per scaricarlo e leggerlo basta andare su uno di questi siti, scegliere la sezione “Libri” e digitare sulla barra di ricerca il titolo “Enea, l’eroe malinconico”. Il prezzo del libro è di euro 4,49, meno di una pizza o di una colazione al bar.

La pubblicazione dell’e-book è avvenuta sia in formato EPUB (per i lettori elettronici come Kobo) sia in PDF. Chi trovasse solo la versione in EPUB, può leggerlo ugualmente su PC, Tablet o Smartphone scaricando un programma di conversione dei files di testo, il più noto dei quali è “Calibre”, ma ve ne sono anche altri ugualmente efficaci.

Certo, avrei preferito pubblicare la mia opera su carta, dato che sono da sempre amante dei libri cartacei; ma viste le difficoltà descritte sopra ho voluto fare questa prova di autopubblicazione online, visto che oggi abbiamo anche questo importante strumento che ci consente di ampliare di molto le nostre possibilità di lettura, di informazione ed anche di autonoma pubblicazione. Voglio sperare che molti lettori, anche non specialisti perché il libro è scritto in forma accessibile a tutti, lo acquistino, dato il prezzo estremamente ridotto e l’argomento – almeno secondo me – di notevole interesse.

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La lingua violentata dal “politicamente corretto”

Si sa che tutte le lingue parlate nel mondo sono soggette ad evoluzione, per cui i vari termini ed espressioni possono cambiare significato e assumere con l’uso accezioni diverse nel corso dei secoli: si pensi, tanto per fare un solo esempio, al termine “bravo”, che nel romanzo manzoniano equivale a “manigoldo, delinquente” e che invece oggi ha un’indubbia valenza positiva. Le trasformazioni semantiche sono quindi un aspetto dello sviluppo naturale della lingua; in certi casi, però, queste variazioni sono ricercate e applicate volontariamente da certi individui o gruppi sociali per ottenere un effetto loro vantaggioso e denigratorio nei confronti di altri individui o entità sociali loro opposti.

Ecco quindi nascere il cosiddetto “politicamente corretto”, che dall’America sua terra di origine si è poi diffuso anche da noi. Questo deliberato inquinamento della lingua, col pretesto di salvare la dignità dei “diversi” o comunque di gruppi sociali minoritari, ha finito per stravolgere il senso delle parole e persino per mettere in cattiva luce, con conseguenze anche penali in alcuni casi, chiunque non sia disposto ad accettare queste nuove regole imposte dall’alto. Perciò il cieco si chiama ora “non vedente”, il sordo “non udente”, l’handicappato con malcelata ipocrisia viene detto “diversamente abile”, e via dicendo. Con queste premesse si apre la via alla formazione di un pensiero unico che finisce per mettere all’angolo, con scherno e pubblico disprezzo, chiunque si azzardi a dissentire. Guai oggi a designare con la parola “negro” una persona di colore, benché non si riesca a vedere dove stia la carica offensiva di questo termine, che è stato invalso per secoli senza alcuna remora nella letteratura, nella filmografia, nella vita comune e perfino nelle canzoni. All’improvviso il termine è diventato infamante perché lo si è voluto rendere tale, allo scopo di imporre un nuovo codice linguistico che fosse funzionale agli interessi di certe “lobbies” o schieramente politici.

Le parole sono pietre, si sa; perciò il loro uso, il significato specifico che viene loro attribuito, può influenzare l’opinione pubblica e spingerla ad accettare determinate convinzioni ed a respingerne altre. In Italia la sinistra, che ancora domina in tutti i centri di produzione della cultura e dell’informazione (università, scuola, televisione, giornali, teatro, cinema ecc.), ha messo in atto specifiche deformazioni linguistiche allo scopo di mettere a tacere gli avversari politici con la denigrazione, lo scherno, l’insulto rivolto a tutti coloro che non accettano il “mainstream” da loro imposto all’opinione pubblica. Analizziamo alcuni termini denigratori ai quali il pensiero cattocomunista ha cambiato volutamente l’accezione comune per adattarla ai propri fini politici.

  1. Fascista. Dal significato storico di “aderente a un movimento politico al potere in Italia dal 1922 al 1945” il termine è tenuto artificiosamente in vita per designare tutti coloro che sostengono i partiti di centro-destra, o addirittura coloro che non s’identificano nel pensiero di sinistra.
  2. Razzista. Con questo termine, che indicava chi riteneva la propria “razza” superiore ontologicamente alle altre (vedi il nazismo hitleriano), oggi si intende infamare tutti coloro che si preoccupano di questa crescente invasione di stranieri clandestini, che il buonismo della sinistra vorrebbe accogliere in massa per poi lasciare queste persone nelle strade alla mercé dell’accattonaggio e della criminalità.
  3. Omofobo. Per il pensiero di sinistra indica colui che semplicemente difende la famiglia tradizionale formata da un uomo e una donna, e magari non condivide le adozioni gay e il cosiddetto “utero in affitto”.
  4. Negazionista. Un tempo usato per chi negava la Shoah degli ebrei operata dai nazisti, il termine oggi indica colui che vorrebbe ragionare con la propria testa e non si fida ciecamente della versione ufficiale dei fatti propagandata dalla televisione e dai giornali. Durante l’epidemia di covid l’etichetta infamante era appiccicata a tutti coloro che, pur ammettendo l’esistenza reale della malattia, non erano d’accordo con lo sciagurato lockdown cinese imposto dal narciso Conte e dal boscevico Speranza, oppure coloro che rifiutavano il vaccino. Oggi viene applicato a chi non accetta la versione ufficiale, sostenuta da tutte le tv e dai principali giornali, con cui viene presentata la guerra in Ucraina.
  5. Sovranista. Parola un tempo nobilitante ed equivalente a “patriota”, oggi è diventata invece un insulto, e indica con disprezzo tutti coloro che vorrebbero una maggiore indipendenza e facoltà decisionale del nostro Paese, asservito invece a questa falsa Europa dei burocrati ed all’imperialismo americano. Se Garibaldi, Cavour, Mazzini e Vittorio Emanuele II, che tanto fecero per l’unità d’Italia, avessero previsto quel che avviene oggi, si sarebbero dati all’agricoltura.

Questo stato di cose, che opera scientemente un inquinamento linguistico per imporre un pensiero unico e mettere a tacere ogni opposizione, fa sì che nel nostro povero Paese non si possa più parlare di democrazia e di pluralismo, che di fatto non esistono perché se dissenti dall’opinione prevalente vieni quanto meno sbeffeggiato e ghettizzato. La sinistra al potere (nonostante il governo di centro-destra, più di centro che di destra in verità, che abbiamo) ha di fatto instaurato una dittatura culturale che ha cambiato profondamente la struttura mentale delle persone, annullando i valori precedenti ed imponendo anche con la forza i falsi valori attuali. Di questo asservimento dell’opinione pubblica la lingua è stata uno strumento importante, la televisione il mezzo principale di diffusione del pensiero unico. Già Pasolini, oltre cinquant’anni fa, era consapevole della potenza del mezzo televisivo, che a suo parere aveva cambiato la mentalità delle persone assai più della dittatura fascista. Ed anch’io penso che se Mussolini, Hitler, Stalin o qualsiasi altro dittatore esistesse oggi non ricorrerebbe più al manganello, ai campi di concentramento o ai gulag: per addormentare il dissenso gli sarebbe sufficiente il controllo della televisione e di alcuni giornali e siti web di maggior successo.

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La farsa degli esami

Gli antichi Romani, che erano saggi, dicevano “omnia praeclara rara”, cioè “tutte le cose preziose sono rare”, giacché l’oro ad esempio, se si trovasse dappertutto, non varrebbe più nulla. Ora che sono terminati gli esami di Stato (impropriamente detti di maturità) constatiamo quanto sia appropriato il detto latino: l’inflazione dei voti, e dei 100/100 (con o senza lode) in particolare, ci dimostra che ormai questi esami non hanno più senso, sarebbe meglio abolirli come tanti di noi richiedono da tempo.

Il voto massimo (100/100) andrebbe attribuito soltanto alle vere e autentiche eccellenze, una volta che avessero dimostrato la loro preparazione in TUTTE le materie del proprio corso di studi; invece oggi i 100 sono diventati alla portata di tanti alunni che, benché abbiano avuto un percorso positivo, non sostengono poi all’esame se non due scritti e un colloquio che tutto è meno che una reale verifica della preparazione: da uno spunto dato dalla commissione il candidato parla a ruota libera, collegando in modo spesso artificioso e forzato le varie materie senza approfondire nulla, tanto meno gli aspetti tecnici (v. la conoscenza della lingua ad es., in latino e greco) e poi ottiene quasi sempre un giudizio lusinghiero. Così i 100/100 fioccano come la neve, in ogni classe ce ne sono almeno tre o quattro, ed ho letto anche di classi in cui la metà degli alunni aveva ottenuto il massimo. Che serietà è questa? E’ un esame questo che può provocare ansia, come sostengono la stampa e la televisione? Che ansia ci può essere quando si sa di essere promossi in partenza e con voti altissimi, molto al di là del merito individuale?

Un esame serio dovrebbe vertere su tutte le materie, non solo sulle due degli scritti e una chiacchierata amichevole com’è oggi il colloquio orale: i commissari dovrebbero fare una vera interrogazione (un termine che non vedo perché disprezzare) e accertarsi della reale preparazione in tutte le discipline; e soltanto coloro che abbiano dimostrato piena conoscenza di tutti gli argomenti potrebbero essere gratificati con il voto massimo, che dovrebbe essere raro, appunto, come tutte le cose preziose.

In passato l’unico elemento che poteva agire in tal senso, sebbene non totalmente, era la terza prova scritta, l’unica che spaziava su più discipline; e naturalmente l’hanno abolita, altrimenti gli studenti, poverini, facevano troppa fatica ad aprire i libri di tre o quattro materie oltre le due dello scritto.

In queste condizioni, di fronte cioè ad una farsa quale è l’attuale esame, sarebbe meglio abolirlo e lasciare ai consigli di classe la facoltà di attribuire il voto finale. Ci sarebbero ugualmente voti inflazionati perché ogni scuola, come una vera azienda, deve pubblicizzare i propri prodotti, ma non sarebbero più numerosi di adesso, ed in più lo Stato risparmierebbe un po’ di denaro pubblico.

L’agire delle commissioni attuali è spesso misterioso: si uniformano ai crediti altissimi dichiarati dalle scuole, ma poi mostrano spesso incoerenze nel valutare i candidati, anche queste dipendenti secondo me dall’assenza di vere prove impegnative. Una di esse riguarda l’attribuzione del famoso bonus di 5 punti che spesso viene dato a caso: alcuni sono privilegiati perché magari hanno partecipato a qualche iniziativa parascolastica o a qualcuno dei più o meno inutili progetti che le scuole organizzano, altri che magari sarebbero più meritevoli, se non altro per il loro impegno continuo negli studi, sono penalizzati.

In pratica non va bene nulla. Mi auguro dunque che il Ministero, che ora si chiama ironicamente “del merito”, voglia far onore a questa parola: ritorniamo quindi ad un esame serio, che certifichi veramente la preparazione dei candidati e dia i voti di conseguenza, evitando questa inflazione dei 100/100 che è veramente ridicola, da repubblica delle banane. Altrimenti è meglio abolire del tutto questa commedia che finisce poi per deludere tutti, anche chi ha ottenuto un voto che sa di non aver meritato.

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Il problema della denatalità

Finalmente, dopo una ventina d’anni in cui in Italia si avverte il problema della denatalità, per cui di bambini ne nascono sempre di meno, i politici di tutti gli schieramenti si sono accorti della questione e stanno cercando di affrontarla, coinvolgendo nel dibattito anche il papa e tutte le autorità religiose e civili, nonché televisioni, giornali e social. Diciamo però che non solo l’intervento pubblico in questo campo è tardivo, ma anche inefficace; e nelle righe che seguono cercherò di spiegare il perché.

Tutti o quasi tutti i politici, i giornalisti, gli opinionisti comuni sono convinti che il fatto che nel mondo occidentale si facciano pochi figli, e che l’Italia sotto questo profilo stia peggio degli altri Paesi, dipenda escusivamente da cause economiche. Con le difficoltà che ci sono oggi nel trovare un lavoro stabile, nell’affrontare un mutuo per la casa o nel pagare l’affitto, nel far fronte a tutte le altre spese, tirare su un figlio o più figli è certamente un’impresa difficile e non alla portata di tutti. Le soluzioni che vengono prospettate perciò – dico prospettate, non attuate, perché tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare – vanno tutte in quella direzione: aumentare l’assegno familiare a chi ha più figli, dare a tutti i bambini l’opportunità di frequentare gli asili nido, ridurre il prezzo (l’IVA più che altro) su alcuni beni destinati all’infanzia, e così via. Queste misure sono necessarie, anzi indispensabili, ma non credo che possano da sole risolvere il problema della denatalità in Italia; certo, potrebbero migliorare la situazione attuale se eseguite con rapidità e coraggio, ma non sarebbero in grado di operare una vera e propria inversione di tendenza.

Perché dico questo? Perché sono convinto che la mancanza di figli nel nostro Paese non dipenda solo da cause economiche, ma anche da un atteggiamento culturale molto variato rispetto a quello che era in voga all’epoca dei nostri genitori o anche all’epoca nostra, alcuni decenni fa. Se infatti il calo pauroso delle nascite dipendesse soltanto da motivi economici, come si spiegherebbe il fatto che in altre epoche della storia, non antiche ma anche recenti, quando la ricchezza disponibile per le famiglie era molto minore di quella di adesso, e persino nei periodi di guerra e di carestia, i bambini nascevano in gran numero? Dalle mie parti, in Toscana, fino a due/tre generazioni fa, c’erano famiglie di contadini e operai con sei, sette, otto e più figli, quando anche il semplice sostentamento era un problema drammatico, quando le persone non avevano nulla o quasi e dovevano mettersi a lavorare duramente fin da bambini. Pativano la fame, la miseria e le malattie, eppure i figli nascevano, eccome. Se le cause economiche fossero le uniche alla base della denatalità, l’andamento demografico dovrebbe essere il contrario di quello che osserviamo dalle statistiche: in passato sarebbero dovuti nascere pochissimi figli, mentre oggi ne dovrebbero nascere molti di più. E invece accade il contrario.

A mio parere negli ultimi venti/trent’anni la mentalità delle persone o della maggioranza di esse, la maniera stessa di concepire la vita e gli obiettivi da realizzare in essa è cambiata in modo radicale: mentre fino a non molti anni fa la famiglia era un valore indiscusso e insostituibile, oggi quel che conta è il denaro, la realizzazione personale nel lavoro, l’individualismo più sfrenato; e questo sarebbe anche accettabile se ad esso non si unisse una spiccata tendenza al consumismo, al divertimento ad ogni costo, alle vacanze irrinunciabili, ai miti dei nostri tempi come la bellezza da mantenere tutta la vita e il successo nelle relazioni sociali e soprattutto extrafamiliari. L’emancipazione della donna, che l’ha portata giustamente ad esigere la parità con l’uomo e il diritto di avere un’indipendenza economica, ha però provocato inevitabilmente un allontanamento da quella che sarebbe la più nobile delle missioni a lei affidate, quella di essere madre, di dare la vita. Oltre a ciò, sono spariti alcuni valori che un tempo si accompagnavano alla procreazione dei figli, come la volontà di perpetuare la propria personalità in altri esseri che potessero in qualche modo far sopravvivere chi è destinato alla morte, come l’idea che un figlio può essere un valido aiuto per i genitori durante la vecchiaia (idea che oggi non c’è più, gli anziani vengono messi nei ricoveri), come anche il concetto un tempo molto diffuso secondo cui i figli costituiscono un ideale di vita, la volontà di raggiungere per loro mezzo quei traguardi che il genitore non ha ottenuto nella propria vita, ed altri ancora. Di questi grandi valori familiari di una volta non è rimasto più nulla o quasi: oggi ognuno vive per sé, è solo di fronte al mondo, la famiglia stessa finisce sempre più per disgregarsi, per non esistere più.

In queste condizioni, in una società cioè dove dominano l’edonismo, l’egocentrismo, l’individualismo, l’idea che si ha dei figli è profondamente cambiata: mentre un tempo essi erano considerati una ricchezza per una famiglia, oggi li si vede come un fastidio, un fardello inutile, un impiccio che impedisce ai genitori di fare le vacanze ai Caraibi o di poter uscire con gli amici e andarsi a divertire. Tirare su un figlio è impegnativo, si sa, ed è anche un sacrificio; ma oggi, come vediamo anche nella scuola e nel comportamento di tanti giovani, i sacrifici non li vuol fare più nessuno, ed è chiaro quindi che di questa mentalità il fenomeno della denatalità sia una fatale e inevitabile conseguenza. Una società che ha perduto i valori più autentici per seguire i falsi miti dei social e delle televisioni di oggi, i figli non li vuole, e non credo che provvedimenti di tipo economico possano risolvere alcunché, perché se è vero come è vero che quattro giovani donne su dieci affermano di non volere assolutamente diventare madri, non saranno gli incentivi o gli assegni familiari a far cambiare loro idea. Purtroppo la realtà è questa, avrà gravissime conseguenze sul nostro Paese, e mi consola solo il fatto che io non le vedrò perché non ci sarò più. Ma per adesso quel che vedo è un grande squallore, una diffusa immaturità di uomini e donne che, a trentacinque anni o più, dicono di non essere ancora pronti per fare i genitori. Aspettano forse i sessant’anni per farlo? Purtroppo a molti di loro, specialmente alle donne, accadrà di pentirsi del loro egoismo e probabilmente cambieranno idea; ma allora sarà troppo tardi, l’orologio biologico per loro non batterà più.

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Il marchio d’infamia imposto dal pensiero unico

I regimi dittatoriali del XX secolo come il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, usavano mezzi violenti e coercitivi per reprimere il dissenso, e per questo sono da tutti considerate dittature esecrabili da condannare, nelle quali è vietato individuare anche il minimo e trascurabile aspetto positivo. Eppure, se quei regimi ci fossero oggi, non credo che ricorrerebbero ai gulag, alle torture o alle fucilazioni: basterebbero la televisione, i giornali e i social, che sono strumenti di coercizione psicologica ben più forti della violenza materiale. Le attuali pseudodemocrazie come la nostra se ne servono a piene mani, per diffondere un pensiero unico dal quale non è possibile dissentire, altrimenti si va incontro ad un marchio d’infamia che rinchiude il dissidente in un ghetto fatto di disprezzo, di avversione, di dileggio che lo fanno sentire inferiore, gli tolgono la gioia di appartenere ad una comunità e di poter esprimere liberamente le proprie convinzioni. Sotto questo aspetto la nostra “democrazia”, che con tanta buffonesca pompa viene esaltata dalla gonfia retorica del 25 aprile, è in realtà anch’essa una dittatura, perché il dettato dell’art.21 della Costituzione, che garantisce la libertà di parola, è in realtà vanificato dalla diffusione massiccia di determinate idee e principi che in alcuni casi impongono il silenzio al dissidente (vedi l’ingiustissima legge Mancino, che punisce penalmente chi s’ispira al fascismo e non chi esalta il comunismo, una dittatura ben più bieca e sanguinaria), mentre in altri lo lasciano parlare ma per colpirlo subito dopo con un marchio d’infamia che assomiglia in tutto a quello che nell’antica Roma si applicava agli schiavi fuggitivi, marchiati a fuoco sul volto.

Vediamo quali sono questi marchi d’infamia, queste etichette prefabbricate che, applicate ai dissidenti, sono capaci di escluderli dal dibattito sociale e farli sentire inutili, veri e propri rifiuti della società. Con quello che è successo negli ultimi anni gli esempi sono piuttosto numerosi. Cominciamo da quello più comune, buttato in tutte le salse come il prezzemolo: “fascista”. E’ applicato a tutti coloro che non condividono le idee radical-chic dei comunisti con il Rolex che dalle loro ville di Capalbio pretendono di dare a tutti lezioni di vita basandosi su di una presunta superiorità culturale ed umana. Di seguito aggiungo: “complottista”, detto di tutti coloro che non accettano come oro colato le verità della televisione (per dirla con De André) asservita al pensiero dominante, ma cercano di ragionare con la propria testa. Poi: “negazionista”, che è stato appiccicato addosso a tutti quelli che, pur non negando affatto l’esistenza della pandemia da Covid, hanno osato opporsi alla dittatura sanitaria dello sciagurato governo Conte 2, che prima ci ha tolto tutte le fondamentali libertà chiudendoci per mesi agli arresti domiciliari, poi ha trattato da delinquenti, togliendo loro addirittura il lavoro, coloro che non volevano vaccinarsi, imponendo quindi un trattamento sanitario obbligatorio. E fa ridere, al proposito, che i capi della sinistra parlino di “libertà” il 25 aprile quando stati proprio loro che ce l’hanno tolta con le minacce e la prevaricazione.

Ma i marchi di infamia non sono finiti, ce ne sono almeno altrettanti che vanno ricordati. Il primo è “razzista”, espresso con profondo disprezzo contro tutti coloro che vorrebbero limitare l’invasione indiscriminata degli extracomunitari clandestini. Basta vedere come sono ridotti certi quartieri delle nostre città, vere latrine a cielo aperto, per rendersi conto che il problema esiste ed è anche bello grosso; ma guai a farlo notare, altrimenti il marchio d’infamia ti cala sulla testa come un macigno. Il secondo è “omofobo”, che colpisce come una stilettata alle spalle tutti coloro che considerano famiglia naturale soltanto quella fondata sull’unione tra persone di sesso diverso, e soprattutto non approvano pratiche obbrobriose come la maternità surrogata o “utero in affitto”, dovendosi riconoscere che per un bambino sarebbe preferibile, sia pure non in senso assoluto, avere un padre e una madre. Il terzo, molto diffuso in questi tempi, è “sovranista”, che di per sé non sarebbe una parolaccia ma tale lo diventa nell’uso comune, quando viene marcato a fuoco su persone che deplorano lo stato di soggezione economica e politica del nostro Paese alle potenze straniere, in particolare gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea. Questi poveri illusi che vorrebbero vivere in uno Stato sovrano e indipendente, capace di prendere da sé le proprie decisioni anziché prostrarsi pedestremente ai voleri altrui, non auspicano certamente l’isolamento dell’Italia, ma che almeno si eviti di diventare una colonia straniera come di fatto siamo diventati. Cavour, Garibaldi, Vittorio Emanuele II si sarebbero dati tanto da fare per liberare l’Italia dagli stranieri se avessero saputo che un secolo e mezzo dopo di loro saremmo di nuovo diventati terra di conquista, al punto che nessuno dei nostri governi, nemmeno l’attuale, riesce a renderci la perduta sovranità?

Di fronte poi all’attuale guerra fra Russia e Ucraina è stata creata una nuova etichetta per chi ha delle riserve sulla versione ufficiale dei fatti propinataci indistintamente da tutte le TV, i giornali e le altre fonti di informazione: quella di “putiniano”, cioè sostenitore del capo del Cremlino. Qui posso parlare personalmente: io non ho alcuna simpatia per Putin né intendo assolverlo in nulla, sia ben chiaro; ma sono convinto, come sono sempre stato, che quando c’è una lite o un conflitto, sia tra due persone, due gruppi, due nazioni ecc., è ben difficile che la ragione stia tutta da una parte e il torto tutto dall’altra. Se il personaggio in questione ha preso la sciagurata decisione di invadere un paese sovrano, evidentemente in qualcosa è stato provocato, e non solo dalla politica criminale di Zelensky (un dittatore, non un alfiere della democrazia), ma anche dall’espansionismo della NATO e dalla prepotenza americana, che mira a controllare tutto il mondo ed a ricondurlo all’interno della propria sfera di influenza. Se la NATO si era formata per contrastare l’Unione Sovietica durante la guerra fredda, una volta che il sistema sovietico è crollato avrebbe dovuto sciogliersi, non espandersi fino a porre testate nuclari a poche centinaia di chilometri da Mosca. Se questo vuol dire essere putiniano, allora vorrà dire che lo sono anch’io.

Come si vede, di marchi d’infamia ce ne sono per tutti i gusti, e ne vengono sempre coniati di nuovi per colpire e annientare chiunque si opponga al pensiero unico del “politicamente corretto” , di origine americana ma poi fatto proprio, con tanto zelo, dalla nostra sinistra. E tutto l’apparato informativo, concorde e coriaceo nel sostenere linee preordinate di pensiero e nel propagarle con una determinazione degna del Minculpop e di Goebbels, colpisce con questi anatemi chiunque si opponga, il dissidente è annientato con la violenza dell’insulto, dell’emarginazione, della beffa. I risultati ottenuti, quindi, ci dimostrano che siamo di fronte ad un sistema di potere organizzato e compatto che riesce ad eliminare il dissenso persino meglio di quanto facevano il secolo scorso i manganelli, l’olio di ricino, i campi di concentramento e i gulag. In un sistema politico come questo, dove il dissenso non trova spazio e dove ogni voce dissenziente dal pensiero unico viene messa a tacere, la parola “democrazia” diventa un orpello vuoto che non ha alcun collegamento con la realtà.

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Che (s)fortuna essere uomini!

Proprio nel giorno della cosiddetta “festa della donna”, della quale non ho mai trovato alcuna giustificazione non essendo le donne una “categoria” speciale da proteggere ma più della metà del genere umano, ad un anticonformista come me è venuta l’idea di scrivere un articolo sui presunti vantaggi degli uomini nella nostra società moderna. Sì, presunti, perché nella realtà è difficile vedere dove stiano le millantate difficoltà delle donne a far carriera o ad avere gli stessi diritti dell’altro sesso, dato che abbiamo una donna Presidente del Consiglio, un’altra segretaria del maggior partito di opposizione, altre che sono ai vertici dello Stato, delle Istituzioni, della Magistratura e via dicendo. Non sarà che questa lotta per la “parità” è diventata un luogo comune senza consistenza, visto che in certi casi dovremmo essere noi uomini a lamentarci di essere discriminati?

Gli aspetti da sottolineare sarebbero tanti, e bisogna limitarsi a fare qualche esempio, partendo dal mondo del lavoro. Questa storia che le donne sarebbero pagate di meno per svolgere le stesse mansioni è una sciocchezza, perché in base all’art. 3 della Costituzione non può esistere un contratto lavorativo che faccia differenze retributive tra i sessi; se a volte gli uomini guadagnano di più è solo perché sono più disponibili a fare straordinari o a compiere compiti particolarmente impegnativi. Ma a livello di diritto non può esserci differenza, altrimenti i datori di lavoro assumerebbero solo donne, visto che sarebbero pagate di meno. Eppure questa storiella gira da tanto tempo e nessuno la contraddice.

Caso mai è vero il contrario: non solo le donne svolgono ormai tutti i lavori un tempo solo maschili, ma vi sono ambienti e compiti in cui sono chiaramente privilegiate. Quanti uomini ci sono negli asili nido e nelle scuole materne? Quasi nessuno, eppure la Costituzione parla chiaro sull’uguaglianza dei generi; in tal caso, però, non è da insistere più di tanto, perché in effetti questo tipo di lavoro è sempre stato tipicamente femminile, ed io stesso faccio fatica ad immaginare un uomo che gioca con i bambini di un anno, dà loro la pappa o cambia il pannolino. So di essere retrogrado, ma io sono di quelli che ancora ritengono che esistano mansioni più maschili ed altre più femminili, visto che uomini e donne sono diversi non solo fisicamente ma anche dal punto di vista mentale e psicologico. In altri casi poi l’essere donna, soprattutto se di bella presenza e con poche inibizioni, costituisce un altro indubbio vantaggio per entrare in certi ambienti e svolgere determinate professioni; ma qui non è necessario specificare ulteriormente, chi vuol comprendere comprenda.

Nella vita quotidiana accade spesso che la mentalità comune tenda ad essere dalla parte delle donne, anche quando la verità è incerta. Prendiamo i casi di separazione tra coniugi. In tali casi, specialmente quando ci sono figli, la stragrande maggioranza dei giudici tende pregiudizialmente a dare ragione alla moglie, considerata il coniuge più debole: accade così che la casa coniugale, magari di proprietà del marito, viene assegnata alla moglie che spesso vi riceve anche il nuovo “compagno” e vi alleva i figli mettendoli contro il padre. Alcuni di questi uomini, privati di tutto dalle mogli, si riducono a dover tornare a casa dei genitori o peggio a vivere in macchina, oltretutto senza poter vedere i figli se non quando piace alla signora ex moglie. E’ giustizia questa, mi chiedo? E c’è da valutare anche un’altra cosa: che talvolta le donne ricorrono ad una ignobile vigliaccheria, quella di accusare falsamente il marito di maltrattamenti in famiglia (e spesso persino di violenza sessuale verso di loro o le figlie) per rovinare l’uomo e magari mandare in galera un innocente. Casi di questo genere, cioè di accuse false, ce ne sono a centinaia, e le accusatrici sono quasi sempre donne. Ci sono alcuni avvocati che si occupano esclusivamente di questo argomento e raccontano storie terrificanti di mariti condannati e disprezzati dall’opinione pubblica quando erano del tutto innocenti. Con ciò io non intendo affatto nascondere l’effettiva esistenza della violenza sulle donne, che va condannata con il massimo rigore ma non ritenuta unica nel suo genere, perché la violenza purtroppo si esercita verso chiunque e in svariatissime forme.

La mentalità comune, nutrita delle fobie trasmesse dalla televisione, ha spesso condannato moralmente gli uomini anche quando non vi era da parte loro alcuna cattiva intenzione. Un esempio: la bellezza, l’ingenuità e la dolcezza dei bambini piace a chiunque abbia un animo sensibile. Se perciò una donna fa una carezza o dà un bacio a un bambino o una bambina, nessuno trova nulla da ridire; ma se lo fa un uomo si sente subito guardato male, con ostilità e disprezzo dagli astanti, perché la perversione della gente ignorante nutre verso questo gesto spontaneo l’orribile sospetto della pedofilia. Perciò un uomo deve stare attento a non guardare neanche i bambini, né tanto meno scattare loro una fotografia, perché subirebbe un’aggressione morale e forse anche fisica. A questo siamo arrivati a causa delle menzogne propagate dalla televisione, per le quali la colpa di qualche singolo malato mentale viene rigettata su tutto il genere maschile, diventa la colpa di tutti i maschi. Basta essere uomini per essere investiti da una serie di pregiudizi e di falsità che è difficile, se non impossibile, scrollarsi di dosso.

In conclusione, continuare a chiamare maschilista la nostra società è, secondo me, un luogo comune privo di consistenza. Se in alcuni ambienti le donne sono poche è perché sono meno interessate a quel tipo di attività, mentre nella realtà nessuno impedisce loro di far carriera; anzi, tengono tanto alla carriera che molte di loro si sono dimenticate della loro femminilità ed hanno rinnegato la maternità, il che fa sì che oggi nel nostro Paese nascano pochissimi bambini e che presto saremo soppiantati dai figli degli immigrati. Se una società del genere sembra giusta a qualcuno, meglio per lui (o lei); io la vedo diversamente ma, lo sa chi mi conosce, io sono un inguaribile reazionario, uno che vive in un’epoca che non esiste più.

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La scuola di parte, un male perenne del nostro Paese

Ho resistito molti giorni, dal 18 scorso in cui sono avvenuti i fatti di Firenze, prima di prendere posizione; ed anche adesso lo faccio qui sul blog, non sui social, perché non mi va di espormi ancora a polemiche, malintesi e insulti anche da parte di chi si dice “amico”. Ma di fronte alla piega che hanno preso i commenti dei vari giornali e telegiornali, mi riesce difficile non esprimere il mio parere in proposito agli eventi accaduti dinanzi al liceo classico “Michelangelo” di Firenze, alla lettera agli studenti scritta dalla preside del “Leonardo da Vinci” (che non è quello direttamente interessato) e alla conseguente reazione del ministro Valditara.

Secondo la versione più comune e volgarmente accettata, sarebbero stati sei giovani di “Azione Studentesca”, gruppo che si riconosce nella destra parlamentare e in “Fratelli d’Italia” (il partito della premier Giorgia Meloni) ad aggredire due studenti di sinistra di fronte alla scuola. Già su questo c’è da fare un appunto: siamo sicuri che le cose siano andate veramente così? Questi giovani avrebbero fatto un’aggressione tanto per farla, senza motivo? Io ho letto invece una cosa ben diversa: che un docente del “Michelangelo”, che per motivi di opportunità ha preferito mantenere l’anonimato (e anche da qui si può misurare l’atmosfera di intimidazione che regna nelle nostre scuole) ha dichiarato di essere stato presente al fatto e che la provocazione è partita dagli studenti di sinistra, che al grido di “Fascisti di m…” hanno insultato i ragazzi di destra, che hanno quindi reagito alla provocazione. Quindi prima di accogliere supinamente la versione più comoda al pensiero unico che domina in Italia, occorrerebbe più attenzione.

Comunque siano andati questi fatti, giudico del tutto inopportuna l’iniziativa della preside del liceo “Leonardo da Vinci”, che non è quella del “Michelangelo” e quindi non si vede come potesse essere così informata su fatti che non riguardavano la sua scuola. Costei ha scritto una lettera “agli studenti” (quelli del suo liceo o tutti in generale, non s’intende) con cui stigmatizza l’aggressione “fascista”, dicendo che il fascismo in Italia nacque da episodi come questo (il che non è storicamente vero) e poi, sempre paventando un fantomatico ritorno delle camicie nere, ripete la solita tiritera secondo cui la nostra Costituzione è antifascista. Si è poi scoperto che questa preside è stata candidata con il PD o altre formazioni di sinistra, il che spiega com’ella abbia preso la palla al balzo, senza neanche conoscere la verità dei fatti, per compiere l’ennesimo atto di politicizzazione della scuola e di indottrinamento degli studenti, triste fenomeno delle nostre scuole e università che si trascina dal ’68 fino ad oggi.

Cosa rispondere alla signora preside tanto premurosa di combattere il “fascismo”? Due cose. La prima: è vero che la nostra Costituzione è antifascista, ma perché fu scritta negli anni 1946/47, quando il ricordo della dittatura era ancora molto vivo e ben tangibile; ma oggi, nel 2023, dopo quasi 80 anni dalla guerra civile e dalla fine di quel regime, agitare di nuovo lo spettro di qualcosa che non esiste più non è altro che il tentativo maldestro di una sinistra che, sconfitta e confutata da ogni punto di vista (dalla caduta del muro di Berlino alle sonore batoste subite dal PD e compagni), si aggrappa ad un nemico inesistente per poter mantenere in vita un’ideologia sconfitta dalla storia e per giustificare una presunta superiorità morale e culturale che non ha alcuna ragione di esistere. Seconda cosa da dire alla solerte preside è che la scuola deve essere apolitica, o meglio apartitica, e che tutti in essa hanno diritto di esprimere se stessi e le proprie posizioni senza subire penalizzazioni condizionamenti per le proprie idee. Questa è la democrazia, che invece non c’è in tante nostre scuole e università, dove se non sei di sinistra dichiarato rischi di non superare gli esami o vederti abbassati i voti (se sei studente) o di essere emarginato o discriminato (con cattedre e orari penalizzanti, ad esempio) se sei un insegnante e non sei disposto ad allinearti al pensiero marxista ancora dominante. Il vero fascismo, cara preside, è quello di coloro che non permettono a chi la pensa diversamente di esprimersi, coloro che costringono studenti e docenti a vivere nell’ombra, a non esprimere le proprie idee per timore di vessazioni e discriminazioni. E in questo tipo di fascismo la sinistra merita sicuramente il primo premio.

Piena solidarietà da parte mia all’ottimo ministro Giuseppe Valditara, che ha giustamente condannato la lettera faziosa di una preside che evidentemente non ha ancora imparato, come tanti delle sue idee, che cosa sia la democrazia e il pluralismo. Il ministro, senza minacciare nulla, ha soltanto richiamato presidi e docenti all’imparzialità, difendendo la libertà di tutti di esprimere i propri punti di vista senza essere discriminati da un’ideologia prevaricatrice che, pur travolta dai suoi stessi errori e dalla propria supponenza, continua ad arrogarsi il diritto di opprimere i dissenzienti, oltretutto dando del “fascista” gli altri, come il bue che dà del cornuto all’asino. E non si accorge, la nostra sinistra, di quanto si rende ridicola agitando lo spettro di un regime finito da quasi un secolo, che appartiene alla storia e non all’attualità. Sarebbe come se qualcuno oggi temesse il ritorno dei guelfi e dei ghibellini, delle invasioni barbariche o degli uccisori di Giulio Cesare. Chissà che a qualche esponente illuminato del PD , prima o poi, non venga in mente anche questo: non me ne stupirei più di tanto.

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Il crepuscolo del Liceo Classico

Abbiamo appreso, da una nota diffusa dal Ministero dell’Istruzione e del merito emanata pochi giorni fa, che nel prossimo anno scolastico 2023/24 frequenterà il Liceo Classico soltanto il 5,8% degli alunni che attualmente stanno completando la scuola media. Non possiamo non rammaricarci di fronte a quello che appare come un inarrestabile declino, se consideriamo che negli anni ’90 dello scorso secolo e nei primi di questo gli iscritti a questa scuola rasentavano il 10% del totale; poi, negli ultimi anni, si è assistito ad una discesa graduale che ci ha condotti, dal 6,8% dell’anno scolastico 2019/20, al misero 5,8 attuale.

Quando si verifica un fenomeno di questo genere l’impulso primario di ognuno è quello di ricercarne le cause. Perché dunque i giovani e le loro famiglie non danno più fiducia alla cultura umanistica di cui il Classico è il primo promotore in Europa, anche considerando ch’esso è una nostra specificità italiana e non esiste in nessun altro Paese europeo? Cosa allontana i nostri giovani da una scuola che è universalmente riconosciuta come d’eccellenza? E’ una scuola che impegna molto ma che dà anche molto, che apre cioè tutte le possibili strade a livello universitario e non, una scuola che attraverso materie che sembrano inutili fornisce invece quella che è la più grande utilità che un percorso formativo può avere: formare cioè delle menti pensanti, delle coscienze in grado di analizzare criticamente la realtà ed operare in virtù di questo processo le più adatte scelte di vita. Inoltre la conoscenza delle lingue classiche migliora enormemente la padronanza dell’italiano scritto e orale, qualità questa che serve a tutti, anche agli ingegneri ed ai tecnici informatici; e consente anche di entrare nei linguaggi specifici delle discipline scientifiche (la biologia, la medicina, la fisica ecc.) i cui termini specifici derivano in massima parte dal latino e dal greco.

Queste sono ovvietà di dominio comune e generalmente ammesse da tutti. Perché allora questo progressivo distacco da una scuola che è sempre stata il fiore all’occhiello del sistema formativo italiano? Le cause possono essere molte: alcune già note da molti anni, come la millantata necessità di approfondire le materie scientifiche in una società essenzialmente tecnologica, la concezione della scuola soltanto come mezzo per inserirsi nel mondo del lavoro per cui il latino ed il greco sarebbero “inutili”, la difficoltà di un percorso scolastico troppo impegnativo, ed altre ancora. Quest’ultimo motivo, che come ripeto è ostativo da molti anni, si è accentuato oggi dopo la pandemia, in conseguenza del fatto che gli alunni provenienti dalla scuola media, avendo affrontato lunghi periodi in DAD o comunque non in condizioni normali, non si sentono in grado di affrontare l’impegno che richiede la frequenza del Classico, preferendo altre soluzioni ibride come il liceo delle Scienze Umane, che in qualche modo assomiglia al Classico ma che risulta a tutti gli effetti meno impegnativo. A ciò si aggiunge l’ostilità più o meno dichiarata di molti insegnanti della scuola media, che preferiscono consigliare ai loro alunni altri percorsi, forse anche per non essere giudicati per la preparazione che non hanno potuto (o saputo) dare ai loro alunni.

Qualunque ne siano le cause, questa è la situazione. E allora cosa dobbiamo fare noi cultori della cultura umanistica, la cui validità formativa è indiscussa nelle nostre coscienze? Vi sono come sempre tendenze opposte, che possiamo verificare anche semplicemente leggendo i commenti apposti sulle pagine dei social. In queste occasioni spuntano sempre fuori i soliti detrattori che, magari per invidia, attaccano il Liceo Classico riaffermandone la vetustà e la sostanziale inutilità; ed a costoro non meriterebbe neanche conto di rispondere, se nel nostro animo non vi fosse una qualche forma di compassione per la loro ignoranza. Ci sono poi quelli che predicano la necessità di sostanziali cambiamenti nella struttura disciplinare della scuola (meno latino e greco, più matematica e scienze, più inglese, più informatica ecc.). Ma così verrebbe fuori un ibrido che non potrebbe più chiamarsi Liceo Classico; sarebbe semmai un liceo “di cultura generale”, come quello di coloro che propongono addirittura di smettere di studiare le lingue classiche e leggere i testi antichi in traduzione. All’opposto, però, ci sono anche i conservatori irriducibili, quelli che vorrebbero un ritorno del Classico a quello che era cinquant’anni fa, tutto basato sul greco e sul latino, con giudizi sugli alunni ricavati solo dalla loro capacità di tradurre (la cosiddetta “versione secca”), e con la riduzione o l’abolizione delle materie scientifiche e dell’inglese.

Il mio parere, di un ex docente che osserva la situazione oggettiva dagli ozi della pensione, è quello di rispettare la saggezza degli antichi, quando sostenevano doversi evitare le soluzioni estreme, giacché in medio stat virtus. Non credo che si possa snaturare una scuola che è nata con Gentile con una determinata struttura ed una funzione che ancor oggi è attualissima; ma al tempo stesso non ritengo praticabile la strada di chiudersi nella “torre d’avorio” degli studi classici e rimanere ancorati a caratteristiche che andavano bene forse tanti decenni fa ma non oggi: la società è cambiata, gli studenti sono cambiati, ed è quindi illusorio e stupido pretendere ch’essi abbiano le stesse competenze che avevamo noi negli anni ’70 quando traducevamo Tucidide e Tacito come il pane quotidiano. La matematica, le scienze, l’informatica (almeno nei suoi dati essenziali) e l’inglese sono oggi necessari e ineliminabili, se ne facciano una ragione i pedanti conservatori che ancora incontro nei gruppi specifici di Facebook come “Amici della letteratura latina (o greca)” e simili. E su questo piano è stato sacrosanto, a mio parere, il cambiamento della seconda prova scritta dell’esame di Stato, perché gli alunni di oggi, tranne poche eccezioni, non sono più in grado di affrontare prove impossibili come le traduzioni da Platone e Aristotele assegnate sciaguratamente anche pochi anni or sono. Mantenersi nell’ambito della modernità, corrispondere alle esigenze della società attuale non significa “cedere le armi” come sostengono alcuni, ma adeguarsi ad una realtà con cui non possiamo fare a meno di rapportarci. Ciò però deve avvenire senza cambiare la struttura di una scuola che dev’essere in grado di far comprendere al largo pubblico il suo enorme potere formativo, unico e maggiore di quello di tutte le altre, e di spiegare che frequentare il Liceo Classico è possibile anche da parte di chi non abbia doti eccezionali, purché sia disposto ad impegnarsi. Lo studio è fatica, si sa; ma è una fatica che darà poi i suoi frutti, e chi li sa cogliere affronterà la vita e le sue grandi scelte con animo tranquillo e mente equilibrata.

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Un riesame del passato

All’inizio del IX libro delle sue Storie, Tito Livio racconta l’episodio culminante delle guerre sannitiche, quando nel 321 a.C. i due eserciti romani furono attratti nell’imboscata delle Forche Caudine e fatti prigionieri. Allora i capi sanniti decisero di chiedere consiglio a Ponzio Erennio, padre del loro comandante, su come comportarsi con i prigionieri, ed il vecchio consigliò loro di lasciarli andare tutti liberi, senza torcere loro un capello; ma poiché questa soluzione non fu gradita perché sembrava troppo clemente, lo stesso messaggero fu mandato di nuovo da Erennio perché indicasse un’altra soluzione, e questa volta l’anziano saggio suggerì di uccidere tutti i Romani. Davanti a due risposte così discordanti, il figlio pensò che suo padre fosse rimbambito per la vecchiaia; ma Erennio, portato in assemblea, spiegò chiaramente le sue soluzioni: con la prima i Romani sarebbero stati riconoscenti e si sarebbero gettate le basi per un trattato di pace ed amicizia, con la seconda sarebbero stati indeboliti a tal punto che per molti anni non sarebbero stati in grado di riaversi dalla disfatta e di rinnovare la guerra. Ma le proposte del vecchio furono entrambe rifiutate, ed i Romani furono costretti a passare sotto il giogo: un’umiliazione questa che accese gli animi di odio e fece sì che la guerra continuasse fino alla completa sconfitta e sottomissione dei Sanniti.

L’episodio di storia romana mi è tornato in mente in questi giorni, quando ho seguito in TV la miniserie “Esterno notte”, dedicata al più buio episodio della storia della Repubblica italiana, il rapimento di Aldo Moro ed il massacro dei cinque uomini della sua scorta, il 16 marzo del 1978. All’episodio seguì un periodo di 55 giorni in cui Moro fu tenuto rinchiuso in un covo delle Brigate Rosse detto “prigione del popolo”, fino ad essere ucciso il 9 maggio dello stesso anno. I terroristi avevano chiesto di trattare con lo Stato barattando la liberazione dello statista con quella di alcuni brigatisti incarcerati, ma gli uomini allora al potere, ed in particolare i capi della Democrazia Cristiana, non vollero trattare perché ciò avrebbe significato un implicito riconoscimento del gruppo terroristico ed una irreparabile sconfitta dello Stato. Così Moro andò incontro alla morte, della quale, come insinua il programma televisivo suddetto, non tutti sembravano essere scontenti; anzi, essendo stato Moro un fautore del cosiddetto “compromesso storico” tra la DC ed il PCI (che aveva superato nelle elezioni del 1976 il 34 per cento dei voti) qualcuno, al di qua e al di là dell’Atlantico, pareva auspicare la scomparsa di colui che avrebbe voluto far partecipare i comunisti alla gestione dello Stato. Le insinuazioni su un’eventuale responsabilità degli Stati Uniti nel rapimento Moro furono poi smentite e non se ne trovò mai alcuna prova; ma è comunque vero che la DC non fece tutto ciò che era in suo potere perché l’ostaggio fosse liberato, come dimostra l’indignazione della famiglia dello statista (e della moglie Eleonora in particolare), che rifiutò persino i funerali di Stato in segno di protesta.

Io ebbi modo di seguire direttamente la vicenda, perché nel 1978 avevo 24 anni, ero appena laureato e seguivo con continuità quel che accadeva in quei terribili “anni di piombo”, dove gli attentati e gli omicidi a scopo politico avvenivano molto di frequente. Era il periodo in cui il terrorismo, rosso e nero, si era sviluppato a tal punto da rendere possibile un delitto come quello di Moro e degli uomini della sua scorta. Da tempo, leggendo i giornali e guardando la TV, io avevo l’impressione che lo Stato fosse troppo debole con gli estremisti ed i terroristi, in sostanza lasciati liberi di agire: nelle università spadroneggiava la sinistra extraparlamentare che occupava le Facoltà, impediva le lezioni e commetteva ogni sorta di violenze (compresi efferati omicidi) contro gli avversari politici, i quali a loro volta reagivano colpendo e persino uccidendo alcuni dell’altra fazione. Vivevamo un clima di guerra civile che oggi sembra lontano, ma che invece a noi che c’eravamo è rimasto ben impresso: e le autorità pubbliche lasciavano che tutto ciò avvenisse senza mai adottare delle leggi speciali che la situazione avrebbe richiesto, tanto che i violenti e i terroristi, anche quando venivano arrestati, trovavano la comprensione, se non la connivenza, di parte della stampa, della politica e della magistratura, e se la cavavano con pene irrisorie. Era tollerata soprattutto la violenza di sinistra, in virtù di una presenza massiccia di professori universitari e di magistrati indottrinati alle teorie marxiste allora tanto di moda.

Questa debolezza dello Stato rese possibile il delitto Moro, con il quale le coscienze si risvegliarono, ma era ormai troppo tardi. Di tutti i partiti del cosiddetto “arco costituzionale” soltanto uno, il PRI (partito repubblicano) fece una proposta discordante con la maggioranza, ovviamente subito scartata: quella di rimettere in vigore il codice militare di guerra, che prevedeva anche il ripristino della pena di morte. La proposta era pienamente motivata, perché se i brigatisti avevano dichiarato guerra allo Stato, lo Stato aveva il pieno diritto di rispondere con la stessa moneta; e mi ricordo che io non solo approvai quella proposta, ma pensai che l’avrei applicata in un modo particolare, ossia rispondendo al ricatto delle Brigate Rosse con un altro ricatto, quello di giustiziare ogni giorno un brigatista prigioniero fino a quando Aldo Moro non fosse stato liberato. Ho sempre pensato infatti (e lo penso ancora) che alla violenza terroristica non si possa rispondere con gli appelli e l’indulgenza, perché chi comprende solo il linguaggio delle armi e del terrore si ferma solo se con lui viene applicato lo stesso linguaggio. Se qualcuno vuole spararti ti puoi salvare solo sparandogli per primo: questo dimostra la storia, e ciascun regime politico fino alla seconda guerra mondiale non avrebbe esitato ad applicare queste misure, anche nelle nazioni cosiddette “democratiche” (vedi gli Stati Uniti d’America).

Questa sarebbe stata la seconda proposta fatta da Erennio ai Sanniti, quella cioè di annientare il nemico, cosa che a mio parere sarebbe stata del tutto legittima da parte dello stato italiano attaccato dalle Brigate Rosse. Se tuttavia ci fosse stata la volontà sincera di liberare Aldo Moro, la DC avrebbe potuto seguire – in quella specifica fattispecie – la prima proposta del vecchio sannita, trattando con i terroristi e liberando i brigatisti prigionieri. Questa soluzione, che ripugna a chi ha il senso dello Stato, avrebbe però consentito di risolvere il problema momentaneo della prigionia dello statista, o almeno sarebbe stato un tentativo ammirevole in tal senso; invece la soluzione che fu adottata, quella di non trattare e di non tentare ogni mezzo a disposizione per trovare il covo dei terroristi, fu la peggiore in assoluto, perché portò alla morte di Moro ed alla completa sconfitta di una classe politica vigliacca e indolente, che non ebbe il coraggio di combattere e si chiuse nei palazzi lasciando l’ostaggio al suo destino.

Cosa accadde dopo? I democristiani ed i loro successori si vantarono ridicolmente di avere sconfitto il terrorismo; invece io sono convinto che la stagione terroristica finì perché implose dall’interno, nel senso che quelle persone e quei gruppi si resero conto dell’inutilità della loro lotta e dell’impossibilità di attuare una rivoluzione in poche decine (o al massimo centinaia) quali erano. Il regime democratico non ha mai combattuto veramente il terrorismo, quindi non si può vantare di averlo vinto: e questo risulta evidente anche da quello che è accaduto dopo, quando gli assassini sono stati finalmente arrestati. Cosa avrebbe dovuto fare di loro uno Stato forte, che voglia chiamarsi tale? Come anche Platone c’insegna, i delitti contro lo Stato sono i più gravi che qualcuno possa commettere, perché lo Stato siamo tutti noi: quindi, quando i brigatisti trucidarono i cinque agenti della scorta e poi lo stesso Moro, è come se avessero ucciso tutti noi. In nessun modo avrebbero dovuto ottenere clemenza, perché i loro delitti erano atroci e imperdonabili: se non si voleva ripristinare la pena di morte, che sarebbe stata sacrosanta per assassini di quella specie, si sarebbe almeno dovuto condannarli al carcere duro a vita, farli marcire per sempre in una cella di due metri per tre a pane e acqua, in modo che pagassero veramente le loro colpe e terminassero così loro vita sciagurata. Invece cosa fu fatto? Furono condannati a pene molto più leggere di quelle che avrebbero meritato e dopo pochi anni, in virtù di leggi assurde come quella sui cosiddetti “collaboratori di giustizia” costoro, fingendo un pentimento o una dissociazione, sono di fatto usciti di galera molto prima di altre persone molto meno efferate e colpevoli di loro. Oggi sono tutti in libertà, la società li ha riaccolti come se belve simili potessero redimersi, lavorano, hanno anche profili social e vivono tranquillamente in barba alle famiglie di coloro che hanno ammazzato, e alcuni sono stati persino chiamati a fare lezioni all’università e sono stati intervistati dai giornali come fossero eroi.

Di fronte a scempi come questo viene da chiedersi se la democrazia sia veramente il miglior regime possibile, visto che la nostra si è vilmente arresa ai terroristi e non è stata capace di compiere l’unico gesto degno di uno stato forte, quello di eliminare fisicamente i propri nemici, o almeno farli sparire per sempre dalla vista delle persone oneste. Se democrazia significa debolezza, viltà, meschinità di chi si lascia colpire così gravemente senza avere l’animo di reagire, allora non ho timore di affermare che forse sarebbe preferibile qualcosa di diverso.

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A elezioni concluse

Durante la campagna elettorale mi sono trattenuto abbastanza dallo scrivere post che parlassero di politica, anche se non mi sono risparmiato nei commenti ad altri post di Facebook. Oggi che le elezioni sono avvenute e la vittoria è stata del centro-destra, mi sento di fare alcune osservazioni.

1) Personalmente sono contento che il popolo abbia potuto finalmente scegliere e votare in maggioranza per coloro che sono stati sempre chiari e coerenti. Ciò dimostra che il cumulo di menzogne e di meschinità che la sinistra e i giornalisti servi del potere, con una campagna elettorale vergognosa, hanno detto in tutto questo tempo non ha avuto l’effetto sperato. E’ la prova, questa, che la maldicenza e l’odio non portano da nessuna parte.

2) La ridicola accusa di “fascismo” formulata dalla sinistra per spaventare gli elettori si è rivelata un boomerang che ha finito per colpire le loro zucche vuote. Il fascismo e il comunismo sono ideologie del XX secolo che hanno dato origine a regimi totalitari, ma sono ormai finite da decenni. Spaventare gli elettori riferendosi a fatti e pensieri di 80 anni fa è semplicemente ridicolo, e l’esito delle elezioni l’ha dimostrato.

3) Se c’è qualcuno che costituisce un pericolo per la democrazia, questi è proprio la sinistra, che l’ha dimostrato in questi ultimi anni in diversi modi: ricorrendo a una magistratura corrotta e compiacente per eliminare avversari politici che non si riusciva a battere alle elezioni (e lo dico senza nessuna simpatia personale per Berlusconi), affrontando la pandemia con una serie di obblighi e divieti che hanno tolto ai cittadini le più elementari libertà (e non mi si venga a dire che il lockdown è stato adottato in tutto il mondo perché non è vero, e in ogni caso non è stato “cinese” come il nostro), imponendo assurdità come il greenpass e la criminalizzazione di chi non voleva vaccinarsi (e non lo dico certo per me, che ho tutte le vaccinazioni, ma per chi legittimamente rifiutava un trattamento sanitario obbligatorio), imponendo ideologie perverse come le teorie gender e la criminalizzazione di chi legittimamente pensa che l’unica vera famiglia sia quella formata da un uomo e una donna (leggi d.d.l. Zan)

4) Quello che mi rammarica è che neanche la Meloni cambierà molto nel nostro paese, per due ragioni principali: perché non siamo un paese sovrano ma di fatto una colonia americana e franco-tedesca, ed il ricatto del debito pubblico e dello spread impedirà qualunque iniziativa autonoma; ed anche perché le assurde accuse di “inaffidabilità” avanzate contro il centro-destra spingerà quest’ultimo, per non prestare il fianco ai colpi avversari, a comportarsi come gli altri governi.

5) Ma quel che più di tutto mi rammarica, e che non credo arriverà a soluzione, è la radicata supremazia della sinistra in ambito culturale. In pratica tutti i centri di cultura (università, scuola, teatro, cinema, televisione, giornali ecc.) sono in massima parte dominati dalla sinistra, tanto che molte persone abbracciano quell’ideologia solo per far carriera (si pensi alle galline cantanti che in questi mesi hanno attaccato la Meloni), perché sanno che se non si è di sinistra non si lavora. La supponenza, l’alterigia dei radical-chic che si considerano gli unici depositari della Cultura e della Verità è stata resa possibile da questo stato di cose, che non si vede come potrà cambiare: bisognerebbe licenziare tre quarti dei docenti universitari (alcuni dei quali si proclamano ancora orgogliosamente comunisti), una buona metà di docenti di scuola superiore e la quasi totalità dei registi, degli attori e dei giornalisti. Tutto ciò è impossibile, potrebbe farlo solo una dittatura, ma quel che ci si prepara è un governo che, per quanto poco efficace, sarà sicuramente più aperto e democratico di quelli che l’hanno preceduto dal colpo di Stato di Napolitano del 2011 fino ad oggi. Se non altro il prossimo è l’unico governo che, dopo tanti anni, è legittimato dall’art. 1 della Costituzione, che la sinistra a parole adora ma che di fatto mortifica e tradisce.

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Esiste ancora la par condicio?

Siamo in piena campagna elettorale, a poco più di una settimana dal voto. Il momento è delicato soprattutto sul piano dell’informazione, che dovrebbe essere quanto più possibile veritiera ed obiettiva, anche considerata la presenza della legge del 1998 (quando Presidente della Repubblica era ancora Scalfaro) detta della “par condicio”. In base ad essa l’informazione televisiva dovrebbe essere equidistante dalle formazioni politiche e concedere a tutti i partiti lo stesso spazio mediatico.

Questo in teoria, ma non in pratica, perché alcune emittenti televisive come la 7 (di proprietà del finanziere Cairo) stanno facendo, a pochi giorni dalle elezioni, una propaganda faziosa e meschina non in favore di qualche partito, ma contro altri, ed in particolare contro il centro-destra e soprattutto contro Giorgia Meloni, che i sondaggi indicano come possibile vincitrice della consultazione del 25 settembre.

Io mi chiedo come sia possibile che venga permesso ad una televisione privata sì, ma che trasmette su tutto il territorio nazionale e quindi può influenzare i cittadini, una tale opera di sciacallaggio contro una persona o un partito politico, al punto che le trasmissioni elettorali della 7 non si preoccupano più di fare informazione, né tanto meno di parlare dei veri problemi del paese, ma sono in pratica diventate dei tribunali mediatici che, dall’inizio alla fine, non fanno altro che mettere in campo una serie continua di accuse e di menzogne contro la Meloni e il centro-destra, e spesso senza contraddittorio. Giornalisti come Floris, Formigli, la Gruber ecc. non sono nemmeno degni di questo nome perché non fanno giornalismo ma solo sciacallaggio al servizio dei loro padroni, che a quanto pare li pagano bene.

Sulle accuse e le fandonie rivolte contro il centro-destra e il partito di Fratelli d’Italia non metterebbe conto neanche di soffermarsi, tanto sono assurde, ridicole e idiote. Tra di esse spicca ancora una volta, per mancanza di altri argomenti, la solita vecchia stupida accusa di “fascismo”, di non aver preso abbastanza le distanze dal regime di Mussolini che ci fu in Italia dal 1922 al 1945. Dalla fine di quel regime sono passati quasi 80 anni e ancora c’è chi lo tira fuori ad ogni elezione per denigrare l’avversario; ma il bello è che stavolta non sono tanto i leaders della sinistra ad usare questo argomento, poiché perfino loro si sono accorti di quanto sia assurdo e strumentale, ma i giornalisti di un’emittente televisiva che, in base alla legge vigente, dovrebbe mantenere un’informazione obiettiva ed equidistante.

A me personalmente pare talmente da idioti parlare di fascismo e comunismo oggi nel 2022 che non comprendo come vi siano persone tanto cieche mentalmente da servirsene ancora. Il fascismo e il comunismo, ideologie che nel secolo XX hanno dato origine a regimi dittatoriali, appartengono ormai al passato, alla storia, e non possono ritornare, se non altro perché il mondo globalizzato di oggi è totalmente diverso da quel che era agli inizi del secolo scorso. Il fatto poi che esistano ancora dei rimbambiti che fanno il saluto romano o salutano con il pugno chiuso non rappresenta alcun pericolo per una democrazia ormai consolidata. Pur se si mettessero tutti quanti insieme, questi nostalgici non arriverebbero alle elezioni nemmeno all’1%. Perché dunque parlare ancora di fascismo nel 2022? Perché non paventare allora anche il ritorno di Napoleone, dei guelfi e ghibellini, delle guerre puniche?

Giorgia Meloni e Matteo Salvini non c’entrano più nulla con il fascismo, proprio come Letta e Conte non c’entrano nulla con il comunismo, perché non potrebbero appartenere, nemmeno se lo volessero, a ideologie tramontate da decenni. Questa situazione è talmente chiara che anche un bambino la capirebbe. Possibile dunque che i giornalisti della 7 (e anche qualcuno di Rai3) non la comprendano? Io non credo che siano tutti idioti, cosa che verrebbe subito da affermare; in realtà sono in malafede, sono pagati per spargere odio e discredito, ed è anche colpa loro se sui muri compaiono le scritte tipo “Meloni come Moro”. Il clima di guerra, di odio contro il nemico, da sempre appannaggio della sinistra, si è ora trasferito su meschini giornalai prezzolati, privi di qualunque professionalità, che hanno del tutto prostituito la loro dignità umana.

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Le più stupide sanzioni mai esistite

Io (purtroppo per me) ho il vizio di dire sempre apertamente quel che penso, a costo di farmi dei nemici. Così è accaduto nella mia attività professionale con certi colleghi, così avviene ora sui social.

Siamo in campagna elettorale e ci vuole un po’ di prudenza nel parlare; ma non riesco più a tacere sul problema della guerra in atto, delle sanzioni alla Russia e alla grave crisi energetica che ci farà soffrire non poco nei prossimi mesi e anni.

A me sembra giusto, nonostante la posizione comune di quasi tutti i partiti, esprimere queste opinioni, pur sapendo di suscitare reazioni negative e passare da egoista e da cinico.

1- Le sanzioni economiche contro vari Paesi non sono mai servite a nulla, anzi hanno rafforzato i regimi contro cui sono state emesse perché questi, facendo leva sulla presunta “crudeltà” degli avversari, hanno ricevuto sempre più consenso. Anche quelle contro l’Italia del 1936 non fecero altro che consolidare il consenso al regime fascista, che se fu debole in guerra lo fu per altre ragioni.

2 – Le sanzioni sono profondamente ingiuste perché non colpiscono i detentori del potere (in questo caso Putin), ma il popolo che non ha alcuna colpa. Ciò è successo, ad esempio, in quelle contro l’Iran, dove morivano i bambini per mancanza di medicinali, non certo gli ayatollah al potere.

3 – Quelle contro la Russia sono ancora più stupide delle altre, sia perché la Russia è un grande paese con molte risorse e quindi può andare avanti ugualmente, sia perché il popolo russo non è come noi occidentali che ci lamentiamo e scendiamo in piazza se ci manca anche la minima delle nostre comodità; loro sono abituati ai sacrifici, stringono la cinta e vanno avanti.

4 – L’enorme stupidità della decisione europea e italiana è accresciuta dal fatto che noi siamo dipendenti dal gas e dal petrolio russo, e questo lo si sapeva anche prima. I geni come Draghi e company dovevano aspettarsi la crisi energetica e l’enorme aumento dei prezzi e delle bollette, nonché il ricatto della chiusura dei gasdotti, che chiunque altro avrebbe fatto al posto di Putin. Ora io dico: che senso ha applicare misure che fanno molto più danno a chi le applica che a chi le subisce? Io sarò miope, ma questa decisione mi pare rassomigliare del tutto, per fare un esempio spicciolo, alla storiella di quello che si evirò per far dispetto alla moglie.

5 – E’ giustificata da parte dell’Europa e dell’Italia una posizione così netta a favore dell’Ucraina, al punto da essere coinvolti in una guerra che non è nostra? Siamo sicuri che il regime di Zelensky, che perseguita da anni i cittadini russofoni e commette crimini di stampo neonazista, abbia tutte le ragioni? Oppure dietro a queste decisioni idiote dell’Europa ci sta dietro l’annosa sudditanza agli Stati Uniti d’America, che stanno facendo la guerra per procura sulle spalle degli alleati Nato, magari per venderci il loro gas a prezzo molto superiore a quello russo?

6 – Se le sanzioni sono giustificate dall’aggressione russa ad un paese libero, perché nessuno ha pensato di applicarle agli USA quando hanno aggredito l’Iraq alla ricerca di armi micidiali che non esistevano, l’Afghanistan, il Vietnam ecc. ecc.?

Tutto ciò dimostra che la nostra sovranità nazionale non esiste più, non siamo altro che una colonia americana ed europea, e non possiamo più decidere nulla da soli. In questa ottica anche le elezioni politiche diventano una farsa, e viene voglia di non andare a votare. Che senso ha eleggere un parlamento e poi un governo che sarà comunque e totalmente assoggettato a potenze straniere e dovrà partecipare per forza a decisioni stupide e assurde come le sanzioni contro la Russia e l’invio di armi all’Ucraina?

Io, ripeto, sarò egoista e cinico, ma ritengo che l’Europa di fronte a questa guerra avrebbe dovuto fare due sole cose: assistere umanamente i profughi ucraini e cercare in ogni modo di avviare trattative di pace, quelle vere. Così facendo ci siamo schierati dalla parte che ha tutto da perdere e nulla da guadagnare.

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Se fossi ministro…

Il collega docente e scrittore Marco Lodoli ha chiesto qualche tempo fa ad un eventuale nuovo governo di essere nominato ministro dell’istruzione. Si tratta ovviamente di una provocazione, ma fondata perché finalmente in quel ruolo ci sarebbe qualcuno che viene dal mondo della scuola.

Ma poiché anch’io vengo dal mondo della scuola, dove ho insegnato per oltre 40 anni, voglio provare a dire cosa farei se diventassi ministro dell’istruzione. E’ un’utopia ovviamente, ma basata su esperienze concrete. Per ora ho preparato 13 punti, ma ce ne sarebbero molti di più, che forse aggiungerò. Eccoli:

1. Reintrodurre alla scuola elementare e media lo studio serio della lingua italiana e della matematica, tornando agli esercizi che erano in vigore ai miei tempi (dettati ortografici, riassunti, temi, operazioni matematiche senza calcolatrici ecc.)

2. Eliminare progetti inutili e attività parascolastiche prive di ogni valore didattico, in ogni ordine di scuole.

3. Abolire totalmente nei Licei la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, che non ha nulla a che fare con l’astrazione tipica degli studi umanistici e scientifici;

4. Ridurre moltissimo l’uso degli strumenti elettronici, vietando agli studenti e ai prof. l’uso di cellulari, tablet ecc. Tornare ai libri ed ai quaderni come mezzi essenziali dell’apprendimento.

5. Reintrodurre la possibilità di bocciatura anche nella scuola elementare e media. Ripetere un anno non è un dramma né una sconfitta personale, ma solo il modo migliore per adeguarsi al proprio ritmo di apprendimento.

6. Ripristinare gli esami di quinta elementare e di terza media. Rendere serio l’esame di Stato delle scuole superiori reintroducendo la commissione esterna e abolendo le fasce del credito scolastico, che determinano il “mercato delle vacche” dell’aumento dei voti singoli per far raggiungere allo studente la fascia superiore a quella della sua media dei voti;

7. Riportare l’obbligo scolastico ai 14 anni o al conseguimento della licenza Media. Poiché non tutti gli alunni hanno la propensione e l’interesse allo studio, è inutile tormentarli con la frequenza obbligatoria di una scuola che a loro non interessa; sarebbe molto più logico avviarli a quei mestieri “manuali” che consentono di guadagnare bene ma che nessuno vuol più praticare (calzolaio, idraulico, falegname, meccanico, sarta ecc.).

8. Curare la disciplina degli studenti, prevedendo sanzioni che, in caso di episodi gravi, arrivino alla perdita dell’anno scolastico, senza possibilità di appello né di ricorso al TAR. Ovviamente i provvedimenti disciplinari andrebbero tutti dimostrati e motivati.

9. Limitare l’ingerenza dei genitori nella didattica. Il giudizio dei docenti e del Consiglio di Classe in caso di scrutinio dovrebbe essere insindacabile e inappellabile. Il TAR non ha alcuna competenza in materia scolastica, non si vede il motivo per cui possa interferire su decisioni prese dai docenti umiliandone la già compromessa professionalità.

10. Rivedere la normativa sui BES e DSA, accettando solo i casi di vero e comprovato disagio, non come avviene adesso quando molte di queste certificazioni sono false e costituiscono solo una scorciatoia per ottenere la promozione.

11. Chiudere immediatamente i diplomifici e le scuole private che, dietro pagamento, garantiscono la promozione e fanno recuperare gli anni perduti. Se bocciato nella scuola statale, lo studente deve ripetere necessariamente l’anno scolastico. Ciò non significa chiudere tutte le scuole non statali, ma solo quelle che regalano anni di studio ad autentici asini.

12. Provvedere ad un serio reclutamento dei docenti, da parte di concorsi ordinari che verifichino la conoscenza adeguata delle materie di insegnamento. Nessuna possibilità di essere immessi in ruolo “ope legis” senza il superamento di prove impegnative.

13. Fine del garantismo e possibilità di licenziamento per docenti e dirigenti che si rivelino indegni del posto che occupano. A ciò dovrebbero provvedere commissioni apposite in grado di verificare la preparazione e l’efficacia didattica dei docenti.

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A proposito di omofobia

Oggi, subito dopo il TG1 delle 13,30 e quindi in fascia protetta, è andato in onda uno spot pubblicitario dove una modernissima nonna, nello scoprire che il nipote è gay, mostra una gioia straripante e chiede a lui e al suo “fidanzato” quando si sposeranno. A parte l’evidente forzatura della realtà, poiché vorrei sapere quanti sarebbero nella fattispecie i nonni ed i genitori così contenti nello scoprire l’omosessualità del figlio o del nipote, quel che è assolutamente fuori luogo è l’orario in cui questi spot vanno in onda: a quell’ora sono davanti alla tv i bambini, che hanno tutto il diritto di non essere indottrinati dall’ideologia gay e gender, che si sta cercando di imporre con la forza a tutti, e per giunta senza contraddittorio. E’ veramente disgustoso che la TV di Stato, pagata da tutti i cittadini, faccia una sfacciata propaganda a favore di minoranze che non si accontentano di rivendicare i loro diritti ma pretendono di imporre a tutti il loro pensiero, come avviene nelle dittature, non nelle democrazie. Ormai il pensiero unico si è impadronito di tutti i centri di cultura e di informazione, per cui chi non si adegua è immediatamente bollato con epiteti infamanti e rischia addirittura l’incriminazione (se dovesse passare il ddl Zan) solo per aver espresso la propria opinione.

A me risulta che l’art. 21 della nostra Costituzione non preveda affatto il pensiero unico, né la censura (perché di questo si tratta) contro chi vi si oppone; proclama invece la libertà di opinione e di espressione, ed è quindi limpido e chiaro che nessuno può essere condannato per il proprio pensiero. Oggi invece, se pur non siamo ancora alla persecuzione giudiziaria, chi crede nella famiglia tradizionale e non ama le unioni gay e tanto meno l’adozione di bambini da parte di queste persone, è bollato con il marchio infamante dell’omofobia ed escluso idealmente dal consorzio sociale. Ad esprimere idee contrarie al “politicamente corretto” si ha paura, come si vede dal fatto che anche gli esponenti di gruppi o partiti di orientamento tradizionale fanno fatica a parlare ed in parte si sono dovuti adeguare al pensiero dominante per timore della lettera scarlatta che non è più la A di adulterio, ma la O di “omofobia”.

Io invece, su questo mio blog, ho la libertà (per adesso) di dire ciò che voglio; non lo posso fare invece sui social, dove la dittatura delle lobby gay ha già occupato posizioni di comando, tanto che a chi dice qualcosa contro di loro viene sospeso o cancellato l’account. E quindi esprimo qui la mia opinione. Sono sulla strada dei 70 anni, quindi chi legge capirà perché non riesco ad adeguarmi a questa così brillante modernità, a questo esaltante “progresso” che tratta da residuati medievali coloro che pensano ancora che la vera famiglia sia quella formata da un uomo e una donna. Intendiamoci bene: sono contrario ad ogni emarginazione e ad ogni violenza contro chicchessia, quindi anche quella contro i gay. Chi offende, denigra o emargina una persona è comunque dalla parte del torto, e la violenza è sempre sbagliata, chi la compie deve essere condannato senza esitare; questo però vale per tutti, non si vede perché un pugno dato a una persona gay debba fare più male di quello dato ad un’altra persona. E’ giusto rispettare la dignità di tutti, ed io l’ho sempre fatto: nella mia lunga carriera di docente ho avuto molti studenti “diversi”, diciamo così, ma mai e poi mai mi sono permesso di fare battute a loro carico, di schernirli o di discriminarli in qualunque maniera.

Detto questo, cioè ferma condanna di qualsiasi violenza o discriminazione, resta il fatto che ciascuno è fatto a suo modo, in base all’educazione ed ai principi morali che ha ricevuto, e non si può imporre a nessuno di cambiare completamente mentalità solo perché oggi i gay sono diventati dei privilegiati o perché hanno occupato con la loro ideologia la TV ed i mezzi di informazione. Io non offendo nessuno, rispetto tutti a livello umano e personale, ma non posso evitare un moto di ribrezzo quando vedo due uomini o due donne che si baciano o quando un uomo dice “mio marito”; allo stesso modo non posso accettare l’idea delle adozioni gay o dell’utero in affitto; per lo stesso motivo non posso approvare le stupide carnevalate dei cosiddetti “gay pride”, dove si insultano i simboli cristiani o si denigra la famiglia tradizionale. Io, sempre nel rispetto personale di tutti, continuo a considerare l’omosessualità come un atto contro natura, al punto che mi sale un moto di ribrezzo al solo immaginare un rapporto sessuale tra due persone dello stesso sesso. Ed ho il coraggio di dirlo, qualunque sia la reazione di chi leggerà.

E’ qui che sorge il problema: le lobby gay e trans infatti non si accontentano di aver ottenuto i loro diritti, ma pretendono addirittura di cambiare la mente delle persone, di ipnotizzare tutti per condurli alla loro ideologia, e non tollerano alcun dissenso. E’ vero che in passato sono stati discriminati, ma ora stanno agendo come i Cristiani sotto l’impero romano, che da perseguitati divennero poi a loro volta persecutori dei pagani. Per raggiungere il loro scopo ricorrono addirittura alla minaccia della denuncia penale, e prima o poi ci arriveranno perché l’opposizione è troppo debole e soprattutto insicura e incapace di sostenere le proprie posizioni fino in fondo. Forse arriverà il momento in cui quelli che la pensano come me saranno denunciati perché credono nella famiglia tradizionale, o forse faranno come Stalin, ci manderanno nei manicomi criminali perché non siamo in grado di comprendere la sacralità di questo progresso che porta in piazza gente seminuda che insulta la Madonna e crede con ciò di aver conquistato un diritto. Per adesso mi dovete scusare, proprio non riesco, neanche volendo e ragionando, a considerare libertà e progresso ciò che è solo la squallida ostentazione di comportamenti che proprio non riesco a ritenere “normali”.

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Guerra e pensiero unico

E’ incredibile la rapidità e l’efficacia con cui il pensiero unico riesce ad affermarsi nel nostro Paese: da quando è scoppiata (purtroppo!) questa guerra in Ucraina tutti i principali canali televisivi e le maggiori testate giornalistiche si sono adeguate supinamente alla posizione del governo Draghi, imponendo una visione manichea dei fatti per cui Putin sarebbe l’aggressore violento e spietato mentre gli ucraini sarebbero le povere vittime, cui mandare denaro e armi per difendersi dall’invasione. Il bello della situazione è che chiunque non si adegua a questa visione unilaterale e cerca se non altro di comprendere con la propria mente le cause di questo conflitto viene immediatamente bollato come “putiniano” o anche come “pacifista”, dando a questo termine una connotazione negativa che non aveva prima di questi avvenimenti.

Quel che non posso accettare non è tanto la presa di posizione filogovernativa di tutti gli organi di informazione (avranno i loro motivi, sono stati sempre proni alle decisioni di tutti gli esecutivi, persino sulla gestione sciagurata della pandemia da parte del governo Conte 2), o il fatto che i giornalisti, che per loro natura dovrebbero indagare sui fatti e cercare di interpretarli, da qualche anno si adeguano supinamente al potere politico (e qui destra e sinistra fa poca differenza), quanto la repressione censoria nei confronti di chi la pensa diversamente: gli ospiti ucraini ai vari talk-show televisivi vengono lasciati parlare e incensati, a quelli russi si chiude la bocca e li si insulta, i pochi contrari alla pappardella governativa vengono zittiti o sbeffeggiati pubblicamente e devono portarsi addosso, come un marchio infamante, le etichette di cui parlavo prima.

Io credo che il cervello umano sia fatto per indagare, informarsi, ragionare e formarsi un’opinione propria sugli eventi che si verificano intorno a lui, non per dire sempre di sì come burattini manovrati con i fili. A proposito del conflitto cui stiamo assistendo da oltre due mesi, e che tutti speriamo finisca al più presto, quel che i giornalisti al servizio del potere dimenticano di dire in televisione sono molte cose. Ad esempio:

  1. L’Ucraina non sta affatto difendendo i valori democratici dell’Occidente, perché non è una democrazia ma un regime paragonabile a quello russo (del resto, l’origine etnica dei due paesi è la stessa). Il loro presidente non tollera le opposizioni e chiude sistematicamente qualunque voce di dissenso;
  2. Negli anni dal 2014 ad oggi c’è stata una sistematica persecuzione, da parte del governo ucraino, contro le popolazioni filorusse del Donbass e della Crimea; per mezzo del famigerato battaglione Azov sono state compiute distruzioni e omicidi di massa nei confronti dei dissidenti. A Odessa ci fu una strage dentro un edificio in cui vennero fatte morire bruciate decine di persone contrarie al regime.
  3. Il comportamento degli USA è tutt’altro che lodevole e accettabile. Gli americani hanno compiuto negli ultimi decenni varie invasioni di Stati indipendenti, stragi e bombardamenti, e nessuno ha avuto da ridire. Solo adesso ci si accorge che la guerra è un infame e inutile spargimento di sangue?
  4. La NATO, essendosi formata negli anni della guerra fredda per contrastare il blocco sovietico, una volta che questo è caduto si sarebbe dovuta sciogliere; e invece si è espansa sempre più verso Est, costituendo così per la Russia un’evidente provocazione. Se negli anni ’60 i sovietici furono costretti a togliere i missili nucleari da Cuba, non si vede perché oggi dovrebbe essere permesso alla NATO di collocarli a poche centinaia di chilometri da Mosca.

Nonostante tutto ciò il nostro Paese si è supinamente allineato alle posizioni preconcette di europei e americani, che ci aiutarono sì nel 1945 a liberarci dal nazismo, ma non possono pretendere dopo quasi 80 anni di continuare a toglierci la sovranità e considerarsi i nostri padroni. Tutto ciò dimostra che il nostro non è un paese libero, ma vive nell’orbita dei potentati economici e politici d’oltre Oceano, cui il nostro Primo Ministro si adegua scodinzolando di fronte a quel vecchio rimbambito di Biden. Io mi chiedo, ad esempio: quale diritto hanno gli USA di ergersi a paladini del diritto internazionale dopo tutti i pessimi esempi che hanno dato? e quale dovere abbiamo noi di farci coinvolgere in una guerra che non è nostra, inviando armi all’Ucraina, solo per compiacere l’industria bellica americana? Che diritto e che convenienza abbiamo noi di applicare sanzioni alla Russia, che nulla ha fatto contro di noi, con il rischio di subire danni economici molto più pesanti di quelli che dovremmo provocare? Io sarò miope o disinformato, ma non riesco a vedere la ragione per cui dobbiamo partecipare ad un conflitto che non abbiamo voluto e che non è contro di noi. Qualcuno dice: “ma se non fermiamo Putin poi attaccherà anche noi”, paragonando assurdamente la situazione internazionale attuale a quella dell’Europa del 1939. Ebbene, se lo farà interverremo; ma finché non veniamo attaccati direttamente non abbiamo il diritto di partecipare a un conflitto che non ci riguarda. Perché dovremmo farlo? Per umanità, per soccorrere chi è stato aggredito? E allora, quando gli USA hanno invaso l’Iraq con la falsa scusa di armi micidiali che non esistevano, perché abbiamo aiutato l’aggressore?

Questa mia posizione è condivisa da molti, forse dalla maggioranza degli italiani; ma pochi si azzardano a parlare ed esprimere le proprie idee per paura del pensiero unico, della ghettizzazione cui va incontro chi non si adegua alla versione ufficiale governativa ripetuta come un mantra dalle televisioni e da giornalisti che hanno perduto la loro dignità e professionalità. L’etichetta di “putiniano” appiccicata a chi esprime idee come la mia, in effetti, è una vergognosa mistificazione: cercare di scoprire le cause di questa guerra, ragionare sulle situazioni pregresse e le loro origini, considerare il quadro mondiale individuando altre responsabilità oltre quelle della Russia non significa affatto giustificare Putin o sostenere l’invasione dell’Ucraina. Putin si è messo senza dubbio dalla parte del torto, ma dobbiamo riflettere sul fatto che spesso, anche nella vita quotidiana, chi reagisce con troppa veemenza contro qualcuno è perché da questi è stato provocato ed ha quindi le sue ragioni, sebbene molti non le vedano o facciano finta di non vederle.

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Osservazioni da sessantenne

Il grande erudito romano Terenzio Varrone (ca. 116-27 a.C.) tra le sue numerose opere compose una volta anche una satira menippea (opera mista di prosa e di versi) intitolata “Il sessantenne”. Vi si narrava di un uomo che si era addormentato in una grotta all’età di dieci anni e si era risvegliato all’età di sessanta, dopo un letargo durato un cinquantennio; ed al suo risveglio aveva trovato la società completamente cambiata dal tempo in cui era bambino, naturalmente in peggio, perché erano drasticamente decadute le virtù ed altrettanto rapidamente aumentati la corruzione e i vizi. Si tratta, com’è ovvio, di una finzione tipica della satira, dove la realtà viene stravolta e trasformata allo scopo di mettere in evidenza, magari in tono burlesco, le contraddizioni e le storture degli individui e delle comunità. Questo carattere della satira romana, come vediamo, si è mantenuto anche oggi.

Ora, a me sembra di essere nella condizione del sessantenne di Varrone, benché io di anni ne abbia purtroppo più di 60 e stia irrimedialmente avvicinandomi alla settantina. Mi pare di aver vissuto un letargo pluridecennale, perché da quando ero giovane e credevo in determinati valori che mi erano stati trasmessi dalla famiglia, dalla scuola, dalle mie letture, tutto è cambiato in modo radicale, con uno stravolgimento a 360 gradi oppure, come di dice dalle mie parti, “dal giorno alla notte”. Causa di questo stravolgimento è stata soprattutto la “rivoluzione” del ’68 e le sue nefaste conseguenze in ambito sociale e specialmente scolastico; ma a ciò si è aggiunto l’altrettanto nefasta diffusione del cosiddetto “politicamente corretto” di origine americana, che in nome di un falso progressismo ha imposto un pensiero unico che propugna determinate idee antitradizionali e opera una sistematica ghettizzazione di chiunque vi si opponga, ottenuta con l’isolamento sociale dei dissidenti, la loro esclusione dal dibattito pubblico, l’applicazione ad essi di etichette infamanti che sono veri e propri deterrenti per chi tenta di ragionare con la propria testa. Moltissime persone infatti, per paura di finire nel ghetto dei reietti, rinunciano ad esprimere le proprie opinioni, o al massimo lo fanno nei commenti dei social.

Facciamo qualche esempio. A me da giovane era stato insegnato che la Patria era un valore importante e che nel nostro Risorgimento tante persone si erano sacrificate per l’unità e l’indipendenza del nostro Paese; ed anche le guerre mondiali del ‘900 ci venivano presentate in questa luce, quella della volontà del nostro popolo di difendere la propria terra e la propria libertà (anche la Resistenza, celebrata oggi 25 aprile, andava in questo senso). Oggi invece chiunque si azzarda a dire che l’Italia dovrebbe rivendicare la propria identità e la propria indipendenza dagli USA, dalla NATO e dai banchieri di Bruxelles viene bollato come “populista” o peggio “sovranista”, come se chi sostiene la sovranità del proprio Paese fosse un pericoloso revanscista o peggio un bieco reazionario. Io da parte mia, che da sempre sono affezionato al mio Paese e sono orgoglioso di essere italiano, non riesco a vedere nulla di offensivo in queste parole, che anzi dovrebbero essere patrimonio di tutti i cittadini. Nei pochi viaggi che ho fatto ho potuto constatare che molti stranieri (francesi, tedeschi, inglesi, austriaci ecc.) sono molto più legati alle loro nazioni che non all’Europa di cui pur fanno parte. Soltanto noi italiani siamo i primi a disprezzare la nostra patria ed a sottometterci, come stiamo facendo, ai diktat d’oltralpe e d’oltre oceano.

In questo periodo, proprio riguardo alla guerra che purtroppo si sta combattendo in Europa, si è messo in evidenza lo squallido servilismo con cui il nostro governo si adegua alla versione americana ed europea degli avvenimenti, senza neanche cercare di individuare le ragioni dei contendenti e le cause del conflitto. Gli storici seri, dai tempi di Tucidide, hanno sempre cercato le cause degli avvenimenti, ma oggi chiunque si azzarda a vedere in questa guerra altre motivazioni che non siano la bestiale malvagità di Putin, viene etichettato rozzamente come “putiniano”, senza comprendere che chi ritiene ingiustificato l’espansionismo della NATO o pensa che l’Ucraina abbia le sue responsabilità non intende affatto giustificare l’invasione russa, ma sta solo cercando di vederci chiaro in una situazione internazionale di conflitto in cui le colpe, come in qualunque dissidio anche minimo, ben raramente stanno da una sola parte. La televisione di regime ci trasmette invece una visione manichea dei fatti in cui la Russia è il male assoluto e l’Ucraina l’incolpevole vittima. A ciò si aggiunge l’azione pratica di un governo non eletto da nessuno che, senza neanche consultare il Parlamento e tanto meno i cittadini, si permette di prendere iniziative sconsiderate come l’invio di armi ad una delle parti belligeranti, inimicandosi l’altra e rendendosi quindi parte attiva in un conflitto che non dovrebbe riguardarci. A ciò si aggiungono delle sanzioni economiche assurde, che recheranno molti più danni a noi che alla Russia e che potrebbero far saltare la nostra economia già traballante. Chi fa notare tutto questo è automaticamente “putiniano” e viene pubblicamente sbeffeggiato e insultato.

Potrei continuare a lungo con la rassegna dei cambiamenti sociali epocali che hanno interessato il cinquantennio in cui io sono stato in letargo nella grotta, ma scriverei un libro e non un post su un blog. Un accenno faccio solo ai cosiddetti “diritti civili”, il nuovo cavallo di battaglia del “politicamente corretto”. Quando eravamo giovani tutti noi della nostra generazione eravamo stati abituati al concetto di famiglia formato da un uomo e una donna, cui si aggiungevano poi i figli nati dal matrimonio; e questi principi erano per noi scontati, nessuno pensava che potesse esistere qualcosa di diverso. Oggi non è più così, ci sono le cosiddette “famiglie arcobaleno”, c’è l’utero in affitto, tutto è cambiato; ma ciò che non si può accettare di queste novità non è tanto la loro esistenza (alla quale nostro malgrado dobbiamo piegarci) quanto la pubblica gogna e la condanna infamante rivolta a tutti coloro che credono nella famiglia tradizionale, bollati inesorabilmente come “omofobi” ed emarginati dal dialogo televisivo, dalla stampa e dai social. Anzi, la prepotenza dei sostenitori dell’ideologia LGTB è arrivata persino alla repressione violenta degli oppositori, mediante il cosiddetto “disegno di legge Zan” che prescrive persino la denuncia penale per chi dissente da queste nuove ideologie ed esprime opinioni diverse. Quindi non c’è più soltanto una censura morale, si arriva anche alla minaccia giudiziaria per i dissidenti, conculcando la libertà di opinione, costituzionalmente garantita, in modo analogo a quanto avviene nelle più bieche dittature. E poi hanno il coraggio di parlare di democrazia e di libertà! Quale libertà può esserci in un Paese dove si è obbligati a pensarla tutti allo stesso modo?

Un’altra etichetta infamante, sempre imposta dal pensiero unico dominante del “politicamente corretto” è quella che bolla come “razzista” chiunque metta in guardia dai pericoli derivati dell’immigrazione incontrollata, che ha già provocato un grave degrado in molte delle nostre città, dove i cittadini hanno paura ad uscire per la presenza di bande di extracomunitari violenti e della diffusione dello spaccio di droga e della prostituzione. Chi vorrebbe limitare questi fenomeni non c’entra nulla con il razzismo, che è una cosa ben diversa, è cioè la presunzione della superiorità intrinseca di una razza su un’altra, come avveniva – ad esempio – nella Germania nazista; ma chi fa giustamente notare i problemi ed i pericoli provocati dall’immigrazione clandestina non lo fa perché si sente ontologicamente superiore, ma semplicemente perché la presenza eccessiva di queste persone, a cui non siamo in grado di offrire un lavoro e una sistemazione perché mancano anche a molti di noi, provoca effettivamente un grave incremento della criminalità e del degrado sociale.

Ma purtroppo è inutile denunciare tutto questo, perché la nostra società è ormai posseduta integralmente o quasi da queste nuove ideologie che hanno sostituito quelle precedenti (la sinistra ad esempio, che prendeva le parti del proletariato, ora è diventata la paladina di gay e immigrati) e si sono imposte mediante la sistematica occupazione di tutti i principali canali televisivi e delle maggiori testate giornalistiche. Quel che le persone come me, che hanno dormito per cinquant’anni, dovrebbero fare è tornare nella grotta e dormire ancora, in attesa che un nuovo Varrone ci riscopra e ci mostri un mondo finalmente libero e giusto.

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Propaganda e pensiero unico

Noi diamo per scontato, ogni volta che leggiamo o ascoltiamo qualcosa che riguarda la politica, che la nostra sia una democrazia matura, che da noi ci sia veramente il pluralismo ed il rispetto per tutte le opinioni, e marchiamo sdegnosamente la differenza che distinguerebbe il nostro Paese, membro della NATO e dell’Europa di Bruxelles, dai paesi cosiddetti “totalitari” come la Russia, la Cina o altri. Eppure, se focalizziamo l’attenzione sull’informazione televisiva che abbiamo, o anche su quella della carta stampata, ci accorgiamo che la propaganda in atto in Italia non è molto diversa da quella di Putin o di altri dittatori del suo calibro. Non ci vuol molto ad accorgersi che da noi l’informazione è pilotata dal potere politico e che si svolge a senso unico: esiste cioè, in pratica, una sola linea interpretativa dei fatti che tutti siamo indotti (con le buone o con le cattive) a seguire. E’ un pensiero unico che viene dall’alto e che s’impone attraverso tutti i canali televisivi (pubblici o privati) e tutte le principali testate giornalistiche, un pensiero che viene ripetutamente gettato sulle nostre teste, con un martellamento continuo a cui non è possibile sottrarsi, a meno che qualcuno non decida di spegnere per sempre la TV, non leggere mai i giornali e non entrare mai nei social come Facebook. Ma rispettare queste regole è difficile, specie in una società moderna dove a tutti piacerebbe essere informati imparzialmente.

L’ultimo caso di pensiero unico riguarda la guerra Russia-Ucraina, sulla quale siamo bombardati tutti i giorni con un lavaggio del cervello che occupa almeno due terzi di ogni telegiornale. Sull’evento c’è ormai, da parte di tutte le fonti d’informazione, una visione unica che è quello di Biden, dell’Europa dei burocrati di Bruxelles e del nostro Draghi, cagnolino fedele e sottomesso ai diktat degli USA e dei signori citati prima. Secondo questa versione Putin è un criminale, un assassino che ha invaso un paese libero e per questo va condannato senza se e senza ma, anche adottando provvedimenti assurdi e stupidi come le sanzioni internazionali, che faranno molti più danni a noi che alla Russia. E nonostante che questa sia una verità evidente a tutti (abbiamo bisogno del gas russo e delle materie prime, altrimenti la nostra economia si blocca), Draghi e gli altri fedeli servitori dei Biden e compagnia continuano con questa follia delle sanzioni, al fine soprattutto di favorire l’alleato americano che guadagnerà alle nostre spalle vendendoci il suo gas ed il suo petrolio a prezzi superiori a quelli pagati a Putin. Altrettanto folle è la logica della armi date all’Ucraina, che serviranno solo a prolungare il conflitto e a far compiere altre stragi e altre atrocità. Se l’Europa avesse avuto veramente la volontà di far cessare il conflitto avrebbe dovuto restare neutrale, assistere i profughi e muoversi soprattutto sul piano diplomatico, senza prendere una posizione così netta solo per compiacere l’alleato americano, che in tutto ciò coltiva soprattutto i propri interessi politici ed economici.

Eppure, una posizione così netta assunta dall’Europa, alla quale Draghi si è allineato passivamente, non ammette repliche, non ammette contraddittorio. Chiunque si azzardi a dissentire da questa follia viene immediatamente etichettato come “putiniano” e pubblicamente sbeffeggiato ed emarginato. E’ successo a tutti coloro che hanno cercato in TV di indagare sulle cause del conflitto senza accettare come tanti burattini la versione ufficiale trasmessa dalla propaganda di regime; lo stesso è accaduto a chi ha messo in luce l’ambiguo comportamento degli USA e della NATO, che dopo la fine dell’Unione Sovietica avrebbe addirittura dovuto sciogliersi o almeno ritirarsi, non continuare ad avanzare verso est minacciando di porre missili atomici a poche centinaia di chilometri da Mosca. C’è stato chi ha ricordato la crisi di Cuba del 1963, quando i sovietici posero i missili a poca distanza da New York e furono poi costretti a rimuoverli; perché invece alla NATO dovrebbe essere consentito ciò che fu negato allora ai russi?

Gli argomenti per opporsi al pensiero unico ufficiale, senza tuttavia giustificare l’aggressione russa all’Ucraina, sarebbero molti, ma pochi si azzardano a parlare in un Paese dove si accetta una sola versione dei fatti: chi vi si oppone, qui da noi, fa poca strada, ma viene immediatamente tacitato e poi cacciato e messo nel ghetto dei “putiniani”, quando invece chi trova anche altre responsabilità nel conflitto non vuole affatto giustificare Putin ma semplicemente cercare di vedere al di là del muro ideologico che i nostri mass-media pilotati dal regime vogliono metterci di fronte agli occhi.

Certo, è vero che in Italia gli oppositori non subiscono conseguenze fisiche, non vengono avvelenati né messi in prigione per aver contestato il regime; ma subiscono ugualmente una censura strisciante e corrosiva che finisce per metterli a tacere. Il sistema usa contro di loro l’arma dello scherno e dell’emarginazione ideologica, una sorta di “confino” da cui non escono più. Così è avvenuto per qualsiasi circostanza in cui vi sia stata un’opposizione al pensiero unico del “politicamente corretto”, altra infelice imposizione di origine americana. Gli esempi non sono difficili da indicare: coloro che si opponevano al modo in cui lo sciagurato governo Conte 2 ha affrontato l’epidemia di Covid sono stati bollati come “negazionisti”, quando a nessuno veniva in mente di negare l’esistenza del virus; coloro che non si sono vaccinati hanno subito un’infamante gogna mediatica che è durata mesi e che ha ottenuto l’effetto contrario di quel che si proponeva; coloro che auspicano una maggiore libertà decisionale dell’Italia ed una riduzione della nostra sottomissione agli stranieri viene subito etichettato come “sovranista”. L’emarginazione del dissidente investe poi tutti coloro che mostrano perplessità di fronte alle tesi dei paladini dei cosiddetti “diritti civili”: così chiunque si azzarda a difendere la famiglia tradizionale formata da un uomo e una donna è immediatamente bollato come “omofobo”; chiunque trova il coraggio di dire che occorrerebbe porre un limite all’immigrazione clandestina, i cui effetti nefasti sono sotto gli occhi di tutti, è subito definito “razzista”; senza poi contare l’etichetta di “fascista” sempre affibbiata a chi non accetta certi falsi miti ancora in vigore oggi a 80 anni dalla fine della guerra civile italiana.

E’ vero quindi che gli oppositori in Italia non vanno in galera, ma questo non è sufficiente per poter definire la nostra una vera democrazia; non può essere tale un regime in cui viene propagandata, con un martellamento continuo, un’unica versione dei fatti, e dove chi non accetta questa versione viene bollato con i peggiori epiteti, sbeffeggiato ed escluso dal dibattito pubblico. Sì, perché da noi esiste anche la censura, per chi non lo sapesse: le TV non invitano i dissidenti o li invitano solo per ridicolizzarli, i social come Facebook sospendono il profilo o cacciano addirittura per sempre chiunque esprime un’opinione contraria al “politicamente corretto”, e non mi si venga a dire che questo è conforme alle regole del vivere civile.

Nella fattispecie la propaganda di regime che abbiamo in Italia, con tutte le TV e i giornali schierati come tanti soldatini al servizio del governo, a sua volta schiavo dei diktat americani ed europei, non differisce molto da quella della Russia o di altri paesi totalitari. Il senso di frustrazione che prova chi subisce questa emarginazione è forte, si ha la sensazione di essere soli in un deserto dove la nostra voce non è ascoltata oppure, se viene ascoltata, riceve per risposta lo scherno e l’insulto. Quindi la nostra non è una democrazia ma una dittatura; una dittatura che non ricorre ai carri armati o alla galera per i dissidenti solo perché non ne ha più bisogno. Come già diceva Pasolini molti decenni fa, oggi della repressione violenta non v’è più alcuna necessità: basta riuscire ad asservire la TV e tutti gli altri mezzi di informazione, ed il gioco è fatto.

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Guerra fuori e dentro di noi

E’ dal febbraio 2020, da oltre due anni, che il nostro equilibrio psichico è messo duramente alla prova: prima la pandemia con il lockdown e tutto il resto fino alle polemiche su vaccini e green-pass e poi, quando la situazione sanitaria non si è ancora normalizzata, ecco che scoppia una guerra in Europa che potrebbe avere anche per noi esiti disastrosi. In queste condizioni il senso di insicurezza, di preoccupazione, di smarrimento di fronte alla realtà circostante aumenta a dismisura e provoca in molti turbamenti e patologie psichiche dalle conseguenze imprevedibili. Una cosa comunque è certa: che in questi due anni abbiamo imparato che lo stato di benessere economico e di tranquillità sociale in cui l’Europa viveva da oltre 70 anni non è eterno, né un diritto acquisito, ma uno stato di cose che può finire da un momento all’altro riportandoci indietro di decenni o di secoli, ai tempi di cui ci parlavano i nostri genitori e i nostri nonni, quando la vita era molto più difficile rispetto a quella che abbiamo vissuto noi ed i nostri figli.

Sul Covid ho già detto abbastanza, soprattutto sul lockdown disumano imposto dal governo Conte, che non sono mai riuscito ad accettare ed a giustificare e da cui ho avuto danni psichici di non poco conto. Vorrei invece esprimere qui, in base a quel poco che sono riuscito a comprendere, un’opinione sulla nefasta guerra che si sta combattendo tra Russia e Ucraina. Non è agevole farlo in modo oggettivo, poiché sono convinto che l’informazione che riceviamo da TV, giornali e social non sia obiettiva né esauriente; e ciò non solo perché in guerra ciascuna delle parti riferisce i fatti a modo proprio e abbondano le accuse reciproche per cui l’osservatore esterno fa molta fatica a capire quale sia la verità, ma anche perché il nostro Paese, per bocca del capo del governo e di tutti i partiti che sostengono il governo stesso, ha preso una posizione netta e inappellabile e si è allineato supinamente a quella degli USA e della NATO, condizionando in tal senso tutti o quasi gli organi di informazione. Non si tratta, da parte mia, di complottismo, ma di voler cercare di capire la realtà senza accettare passivamente la versione ufficiale che ci viene propinata dall’alto: del resto, a causa del mio carattere problematico e diffidente, io non ho mai assimilato pensieri altrui, di qualunque tipo, senza metterli in discussione e tentare di formare un pensiero mio personale, anche molto prima della guerra e della pandemia.

Entrando in argomento, non ho difficoltà ad ammettere che Putin sia un dittatore e che la guerra avrebbe potuto e dovuto essere evitata, perché nel XXI secolo la ragione e la volontà di pace dovrebbero prevalere sulla brutale logica delle armi; quindi, a parer mio, l’invasione di uno Stato sovrano non è in alcun caso giustificabile, neanche se il governo ucraino fosse veramente formato da neonazisti, né per alcun altro motivo. Una volta detto questo, però, io resto convinto del fatto che quando c’è uno scontro – che sia tra due persone, due gruppi o due nazioni – la ragione e il diritto non stanno mai da una parte sola; pur nella condanna dell’invasione, dunque, io credo che anche gli ucraini abbiano le loro colpe, e che il loro presidente Zelensky non sia affatto un eroe ma un guerrafondaio alla pari del suo omonimo russo. La pretesa di quest’uomo che tutto il mondo si schieri dalla sua parte e intervenga direttamente nel conflitto a rischio di una catastrofe atomica da cui nessuno si salverebbe è semplicemente assurda: non può chiedere a noi occidentali di morire per l’Ucraina, anche perché ciò non è mai avvenuto quando gli USA hanno invaso l’Iraq o l’Afghanistan. Pensi piuttosto agli errori che ha commesso lui e a quelli che commette ancora con questo atteggiamento vittimistico, di fronte a una situazione che anche lui ha contribuito a determinare; cerchi piuttosto un accordo con l’avversario russo, si faccia da parte se necessario, ma senza coinvolgere noi in una guerra che non è nostra. La smetta di chiedere che il suo Paese entri nella NATO, perché Putin non può tollerare di avere i missili a testata atomica a poche centinaia di chilometri da Mosca. L’Ucraina deve diventare un paese neutrale e non mettersi al servizio degli americani, perché ciò potrebbe comportare per tutto il mondo il rischio di essere trascinati in una catastrofe senza uscita.

Quanto all’atteggiamento dell’Italia, sono veramente indignato per le idiozie come il tentativo di abolizione del corso universitario su Dostoevskij o il licenziamento del direttore d’orchestra russo. Colpire singole persone, prendersela addirittura con uno scrittore morto da oltre un secolo solo perché russo, è cosa che solo degli imbecilli possono concepire. Ma assurda è anche l’applicazione di sanzioni contro persone che non c’entrano direttamente con la guerra: quale fondamento giuridico può avere mai la confisca dei beni di una persona solo perché appartenente ad una data nazionalità? A me sembra un’azione del tutto ingiustificata. Ma anche le sanzioni generali contro la Russia sono un’idiozia, perché faranno molto più male a noi, con la dipendenza energetica che abbiamo dall’estero e il debito pubblico alle stelle, che non al paese cui sono destinate. Già le sanzioni in generale non hanno mai ottenuto risultati nella storia, ma queste di adesso sono ancora più stupide e inutili, perché si ritorceranno pesantemente contro di noi quando ci mancheranno il gas, il petrolio e le materie prime cui non possiamo rinunciare e la nostra economia, già traballante, andrà a rotoli. Sbagliatissimo io ritengo anche l’invio di armi e materiali militari all’esercito ucraino, che servirà solo a fomentare la guerra ed a prolungare le inutili sofferenze di quel popolo, oltre a collocarci tra i paesi ostili alla Russia, cosa di cui non credo possa provenirci alcun vantaggio, anzi… Tutto ciò mi sembra una forma di masochismo del tutto privo di logica, atto a dimostrare che noi italiani siamo i primi a farci del male, ad agire nell’interesse altrui e non nel nostro. E invece io penso – anche se ciò può sembrare cinico – che dovremmo pensare prima a noi stessi e poi agli altri, perché così fanno tutti gli altri Paesi europei, compresi la Francia e la Germania che non hanno applicato integralmente le sanzioni come abbiamo fatto noi.

Il dovere dell’Italia e dell’Europa in questa circostanza si dovrebbe ridurre a due punti essenziali: l’assistenza umanitaria ai profughi e le iniziative diplomatiche per costruire negoziati di pace e far cessare questa guerra. Ma al di là di questo non si può chiedere di più a chi con questa situazione non c’entra nulla e nulla ha fatto per provocarla, a meno che non si voglia dire che le responsabilità della NATO siano anche nostre, visto che ne facciamo parte. Forse lo sono, ma in parte minima e infinitesimale, perché in confronto a quello degli USA e di altre nazioni il nostro peso decisionale è forse dello 0,01%.

Questa è la mia opinione, e ci tengo ad esprimerla anche se so che molti non la condividono. Mi conforta solo il fatto che il mio blog è casa mia e nessuno può cacciarmi o sospendermi l’account, come fa Facebook quando qualcuno osa esprimere un’opinione non perfettamente coincidente con il pensiero unico del “politicamente corretto”

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Docenti umiliati e offesi

Come ognuno può constatare, il prestigio della classe docente è andato sempre diminuendo in questi ultimi decenni. Tutto è cominciato con il ’68 e il rifiuto della disciplina, per proseguire poi con la politica fallimentare verso la scuola adottata da tutti i governi, di sinistra o di destra che fossero. La china, già molto pendente, è addirittura precipitata negli ultimi anni, e da questo punto di vista sono ben contento di essere in pensione, per non dovermi confrontare con una realtà sempre più difficile e logorante, sia fisicamente che soprattutto psicologicamente.

Anche quando insegnavo ciò che mi infastidiva di più non era tanto il problema economico (gli stipendi sono bassi, si sa, ma ciò era noto fin da prima di intraprendere la professione) quanto la scarsa considerazione sociale alla quale eravamo soggetti: quando parlavo con qualche amico d’infanzia, che aveva scelto altre strade, mi accorgevo da certi discorsi e certi risolini beffardi che non considerava l’insegnamento una “cosa seria”, ma quasi un gioco, un passatempo, se non delle chiacchiere a vuoto. Questa, secondo me, è una delle ragioni dell’immane decadenza della figura del docente; e benché in televisione molti politici lodino a parole la categoria per l’impegno e i sacrifici compiuti, di fatto l’opinione pubblica continua a non riconoscere, per ignoranza o malvolenza, l’importanza di questa professione, oltre a ripetere i soliti stupidi luoghi comuni come le 18 ore settimanali, i tre mesi di vacanza ecc.

Un’altra causa dell’inarrestabile perdita di prestigio dei docenti è la legislazione scolastica esistente. Gli alunni vengono blanditi da tutti, hanno tutti i diritti e nessun dovere; tutto è loro dovuto, la promozione è concepita come un diritto inalienabile, non come la giusta conseguenza di una preparazione ottenuta; coloro che non ce la farebbero per ignoranza, disimpegno o incapacità trovano comunque scorciatoie per superare l’ostacolo, magari facendosi dichiarare BES o DSA (cioè alunni con problemi o difficoltà specifiche) e ottenendo così programmi ridotti e facilitati. E la norma sarebbe parzialmente giustificata se effettivamente questi alunni presentassero gravi problemi, ma nella fattispecie non è così, o almeno non lo è sempre: basta avere i genitori separati ad esempio, o un parente malato o una depressione dovuta all’essere stati lasciati dalla ragazza o dal ragazzo per essere dichiarati BES e ottenere le facilitazioni. Ai tempi miei non esisteva nulla di tutto ciò: o studiavi e ottenevi risultati o venivi bocciato, senza se e senza ma. Poi, se qualcuno nonostante tutto riesce a farsi bocciare, c’è sempre il TAR (tribunale amministrativo regionale) che, senza intendersi affatto di scuola e senza conoscere l’alunno, si attacca a cavilli formali e promuove così autentici asini calzati e vestiti. E i prof. ovviamente ci fanno la figura degli sciocchi e degli incapaci. In queste condizioni, come possono ricevere considerazione sociale persone che hanno sempre torto e sono costrette a piegare la testa di fronte alle prepotenze di alunni, genitori e legulei?

Gli ultimi eventi verificatisi dimostrano la veridicità delle mie affermazioni. A Napoli un docente è stato picchiato selvaggiamente solo per aver richiamato all’ordine una classe indisciplinata; e quel che è più grave, secondo me, non è il fatto in sé ma ciò che ci sta dietro, l’idea cioè secondo cui un professore è un rifiuto sociale a cui chiunque può fare impunemente violenza verbale e anche fisica, senza che ci siano norme adeguate a difenderlo. Gli stessi organi di informazione mostrano sotto traccia (ma neanche tanto) un’avversione preconcetta contro la classe docente, una sorta di rabbia che sfogano non appena qualcosa gliene offre il pretesto: oltre a giustificare sempre e comunque gli studenti anche quando compiono veri e propri reati (l’occupazione di una scuola è interruzione di pubblico servizio), non perdono occasione per accanirsi contro gli insegnanti: è questo il caso della collega di Roma che ha giustamente ripreso un’alunna vestita in modo del tutto inadeguato ad un ambiente come quello scolastico, che dovrebbe avere un certo decoro. Anziché biasimare la ragazzina e la madre che la manda a scuola vestita a quel modo, tutti si sono scagliati contro la docente solo perché avrebbe usato un linguaggio improprio, auspicandone addirittura una punizione esemplare. E’ il mondo che va alla rovescia: il professore, da cui si pretende che sia anche un educatore, non ha più il diritto di riprendere gli alunni, altrimenti rischia di esser messo alla gogna, mentre gli studenti (poverini!) vengono consolati contro il cattivone che li ha offesi. Guarda a che punto siamo arrivati! Per questo io non consiglierei più ad un giovane di intraprendere questa professione, che sarebbe la più bella del mondo se i docenti ricevessero il rispetto che meritano, il riconoscimento per il difficile lavoro che svolgono (specie in questi due anni di pandemia) e si pretendesse da loro soltanto un’adeguata preparazione nelle discipline e un corretto metodo di insegnamento, non la promozione degli asini e la sopportazione silenziosa di alunni e genitori maleducati e spesso persino violenti.

Temo che ormai questa situazione sia irreversibile, perché la demagogia imperante nel nostro Paese, dove la democrazia viene identificata con la più sfacciata libertà di fare ciò che si vuole senza rispettare alcuna regola, non vuole alcun cambiamento; anzi, ogni governo che si succede peggiora ancora la condizione dei docenti, con leggi sempre più permissive e facilitanti per gli alunni e con impegni burocratici crescenti e quasi sempre inutili. Se ci fosse la volontà, i rimedi ci sarebbero, basterebbe usare il pugno duro che il certi casi è l’unico che funziona: abolire il garantismo dei ricorsi al TAR ad esempio, perché il giudizio di un consiglio di classe dovrebbe essere inappellabile, eliminare le false certificazioni di difficoltà individuali inesistenti, imbastire procedimenti penali contro i genitori violenti che portino alla galera e provvedimenti disciplinari nei confronti degli alunni, che arrivino fino alla perdita dell’anno scolastico senza appello. Blandire gli studenti – cosa che fanno tutti, dai politici ai giornalisti – non serve a farli crescere umanamente e socialmente; anzi, togliere loro tutti gli ostacoli e le difficoltà con l’assurdo buonismo che vediamo ogni giorno finisce per danneggiarli, per trasformarli in bamboccioni inerti che non sapranno mai difendersi dai problemi che prima o poi incontreranno nel corso della loro vita. E poi c’è un’altra conseguenza di questo andazzo, ancor più grave: la diffusione dell’ignoranza e dell’analfabetismo funzionale, direttamente proporzionale alla banalità degli studi ed al sempre crescente numero delle valutazioni e delle promozioni immeritate.

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I ricatti dell’editoria italiana

Le case editrici, si sa, sono aziende che debbono fare profitto, e quindi pubblicano soltanto ciò da cui ritengono di poter ricavare un adeguato introito economico. Questo è pienamente legittimo, secondo me, così come lo è il loro rifiuto di investire su opere che non giudicano degne della pubblicazione, quelle cioè che prevedono di non vendere abbastanza; e ciò prescinde molto spesso dalla qualità dei manoscritti, nel senso che hanno molte più probabilità di successo delle autentiche schifezze, purché rechino la firma di personaggi noti per mezzo della TV o i social, rispetto ad opere di valore ma proposte da autori sconosciuti. Qualcuno ha detto che se oggi, per una speciale concessione della Grazia divina, dovessero sorgere un nuovo Manzoni o un nuovo Leopardi, i loro scritti resterebbero in fondo ad un cassetto e nessuno potrebbe venire a conoscenza delle loro opere.

Questa situazione non è una novità, è sempre stato così almeno nell’ultimo secolo a questa parte e per ciò io non mi sento di accusare gli editori, i quali debbono pur trarre dalla loro professione di che vivere; diciamo piuttosto che la responsabilità appartiene in gran parte al grande pubblico, il quale è disposto a spendere per procurarsi le barzellette di Totti o l’ultimo ricettario culinario ma non è altrettanto pronto ad acquistare un romanzo o un saggio di cui non conosce l’autore. Ecco dunque che gli aspiranti scrittori, che in Italia (chissà perché) sono numerosissimi, sgomitano invano per riuscire a pubblicare, tranne chi riesce a trovare gli “agganci” giusti per raggiungere l’obiettivo, mediante il clientelismo tanto diffuso nel nostro Paese, di uscire almeno per un po’ dall’anonimato. Poi, come dice una nota canzone “uno su mille ce la fa”, e non è detto che sia il migliore. Anzi.

Gli editori, ovviamente, sono ben consapevoli di questa smania di notorietà che affligge tanti amanti della scrittura, e alcuni di loro cercano di sfruttarla in maniera non certo corretta né moralmente accettabile. In uno di essi sono incappato anch’io in questi giorni, quando ho sottoposto a diversi editori un mio saggio sull’Eneide di Virgilio. Uno di essi, di cui per il momento non faccio il nome, ha mostrato un apparente entusiasmo per la mia opera e si è detto pronto a pubblicarla anche subito; ma nel contratto ha posto una strana condizione, cioè che io avrei dovuto acquistare (a mie spese ed al prezzo intero di copertina) 200 copie della mia opera, per un totale di diverse migliaia di euro. Poi, dopo un certo numero di copie vendute dall’editore, la Casa editrice mi avrebbe restituito la somma pagata; ma come potrei io sapere con certezza quante copie si sarebbero vendute? L’editore avrebbe potuto benissimo dire che il numero previsto non si era raggiunto e quindi i miei denari sarebbero stati perduti per sempre. La verità è che questa altro non è che una trappola per far pagare all’autore tutte le spese relative alla pubblicazione della sua opera. Purtroppo molti principianti cadono nel tranello, alcuni sono disposti a spendere anche grosse cifre pur di essere pubblicati; ma con me il trucco non funziona, sia perché non sono un esordiente ed ho al mio attivo già una dozzina di libri pubblicati, sia perché considero queste condizioni un’autentica vessazione ed un insulto alla cultura ed all’impegno di chi ha scritto un libro ed ha la legittima aspirazione di uscire dal mortificante anonimato in cui quasi tutti noi viviamo. Perciò riporto qui un passo della lettera con cui ho risposto alla proposta indecente dell’editore:

Gent. Sig.ra,

desidero anzitutto ringraziarla per il suo interessamento e per il giudizio positivo che ha dato sulla mia opera, che dimostra di aver letto ed apprezzato. Mi congratulo per questo ed ha fatto piacere anche a me parlare e confrontarmi con Lei. Al di là dei giudizi personali, tuttavia, debbo con rammarico comunicarLe che la Vs. proposta di pubblicazione del mio lavoro “Enea, l’eroe malinconico”, stanti così le condizioni contrattuali, per me è inaccettabile. L’obbligo di acquisto di 200 copie da parte mia, per un totale di XXXX euro (cifra non indifferente), è in realtà un sistema surrettizio per far gravare sull’autore le spese di stampa e produzione del libro, che diventa così una pubblicazione a pagamento. Da parte mia, tengo a ribadirlo, non ho mai accettato da nessun editore l’iniqua condizione di dover pagare per le mie pubblicazioni, e questo non perché non sia in grado di farlo ma perché trovo la cosa gravemente lesiva della mia dignità e della mia cultura: i prodotti dell’ingegno, come qualunque altro “bene” accessibile e messo sul mercato, hanno un prezzo, e questo prezzo deve essere sostenuto dall’editore e dagli utenti finali del libro, non certo da chi l’ha scritto. Sarebbe come se un panificatore dovesse pagare coloro che consumeranno il pane ch’egli ha sfornato, anziché il contrario. […]

Considero degradante e mortificante per un Autore dover pagare per pubblicare la propria opera, per questo non accetterò mai queste condizioni; so che purtroppo molti le accettano, e squalificano così l’intera categoria. Per questo invito tutti coloro che leggeranno questo post a non soggiacere mai a ricatti di questo tipo, diffidando di coloro che promettono fama e notorietà quando il loro vero obiettivo è far soldi ai danni altrui. E’ una speculazione vergognosa che finirebbe se tutti reagissero come me. La cultura è importante e non ha un prezzo; ma se proprio vogliamo trasformarla in un prodotto di mercato come gli altri, è per me cosa certa che questo prezzo debbano pagarlo tutti tranne gli Autori.

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Osservazioni sul libro “Il danno scolastico” di L.Ricolfi e P.Mastrocola, La Nave di Teseo 2021

Ho avuto modo di leggere in questi giorni, con grande piacere per la chiarezza espositiva ed il contenuto del tutto condivisibile, il libro dei coniugi Luca Ricolfi e Paola Mastrocola “Il danno scolastico”, che osserva con lucida precisione la decadenza dell’istruzione in Italia negli ultimi trent’anni e cerca di individuarne le cause. Non posso che rallegrarmi del fatto che persone come il prof. Ricolfi, storicamente appartenenti all’area politica della sinistra, facciano finalmente ammenda su quelli che sono stati i marchiani errori del ’68, del movimento studentesco e della successiva politica dei governi e dei ministri della loro parte, a cominciare da Luigi Berlinguer; del resto anche prima di Ricolfi altri “intellettuali” di sinistra, come ad esempio il grande latinista Antonio La Penna o filosofi come Massimo Cacciari, si sono resi conto di quelle che erano le farneticazioni sessantottine come il “vietato vietare”, il “sei politico” e simili, che sotto un’apparenza di democrazia hanno in realtà inaugurato la distruzione della scuola italiana.

In realtà i due autori hanno un approccio diverso al problema della decadenza degli studi, sebbene giungano alle stesse conclusioni: Ricolfi è un docente di statistica ed è quindi propenso ad argomentare con formule e schemi, mentre la Mastrocola ha insegnato per decenni in un Liceo Scientifico ed è quindi in grado di giudicare la situazione dal basso, dal campo di battaglia potremmo dire; perciò, con tutto il rispetto per il professore, io sono propenso ad ascoltare con più attenzione le parole di una collega che ha vissuto, come il sottoscritto, l’intero periodo di cui tratta nel suddetto libro.

Paola Mastrocola analizza con impietoso realismo le condizioni attuali della scuola italiana, dove gli studenti arrivano ai Licei senza saper comprendere neanche gli autori letterari più semplici, senza sostenere un discorso autonomo per più di un minuto (impiegando, tra l’altro, un lessico limitatissimo), senza scrivere un pensiero di tre righe senza compiere numerosi errori ortografici; ed al proposito mi ha particolarmente colpito la sua affermazione secondo cui è stata costretta (in prima e seconda liceo scientifico) a far fare dettati d’italiano per la correzione dell’ortografia e della punteggiatura, un esercizio che ai suoi (e miei) tempi facevamo in terza elementare! Ed il bello è che questi alunni non provengono da classi sociali svantaggiate, ma sono persino figli di professionisti e di persone laureate; e non tutti trascurano lo studio, anzi molti di loro s’impegnano adeguatamente, ma con risultati pessimi o comunque mediocri.

Questa la situazione effettiva. La tesi centrale del libro però è un’altra, confermata anche da Ricolfi mediante i suoi studi statistici e matematici: quella cioè secondo cui la scuola facile, la decadenza continua dell’insegnamento e delle richieste degli insegnanti agli alunni, le promozioni facili e generalizzate, tutto ciò in pratica favorisce le classi sociali elevate: regalando infatti diplomi e lauree a tutti, con voti alti spesso immeritati, si finisce per agevolare chi possiede potere economico e adeguate conoscenze per sistemare i figli in posizioni di prestigio, mentre chi non ha questi privilegi non può salire sul cosiddetto “ascensore sociale”, e così si perpetua la tradizione antica (di prima del ’68) per cui il figlio del notaio farà il notaio e il figlio dell’operaio farà l’operaio. E ciò avviene non perché nella scuola ci sia classismo o favoritismi per i rampolli dell’alta società, ma proprio per la continua banalizzazione degli studi e la rimozione di tutti gli ostacoli che gli alunni incontravano nella vecchia scuola (esame di quinta elementare, di terza media, di quinta ginnasio, ma anche programmi più vasti e valutazioni basse quando necessarie). A questo regime, oggi del tutto vincente, si sono piegati sia i Presidi (cui sta a cuore l’immagine esterna della scuola, che non può bocciare altrimenti “non si iscrivono più”) sia i docenti, lasciati alla mercé di genitori prepotenti e sotto la minaccia dei ricorsi, ciò che rende forte la tentazione di lasciar perdere e promuovere tutti per non avere fastidi.

A questo punto debbo fare un atto di presunzione, nel dire che io da anni sono giunto alle stesse conclusioni della Mastrocola e di Ricolfi, anche senza statistiche e calcoli complessi: ho scritto infatti più volte su questo blog che i fautori ed i sostenitori della pedagogia sessantottina hanno totalmente fallito il loro obiettivo, che era quello di rendere democratica la scuola e garantire a tutti il successo formativo. Un tale obiettivo si poteva ottenere solo abbassando notevolmente l’asticella del sapere, e così è stato fatto, ma ciò che si è ottenuto è l’esatto contrario di ciò che si sarebbe voluto: rendendo la scuola facile e banale e promuovendo tutti non si è fatto altro che favorire l’alta borghesia, per i motivi detti prima. Se invece la scuola fosse stata sì aperta a tutti ma rimasta comunque selettiva, il figlio dell’operaio meritevole che esce con un buon voto avrebbe avuto più opportunità del figlio del notaio che esce con il minimo o che addirittura viene bocciato (se lo merita, ovviamente!). E’ vero che la nostra Costituzione dice che la scuola è aperta a tutti, ma l’art.34 parla di “capaci e meritevoli” che, anche se privi di mezzi, devono essere aiutati dallo Stato a raggiungere i gradi più alti degli studi. Quindi il dettato costituzionale non prevedeva affatto una scuola banale dove tutti vengono promossi, ma una scuola dove si fa selezione in base al merito individuale. La vera cultura è lo strumento essenziale di affermazione nella società, non l’aver semplicemente sostato per anni dentro le mura scolastiche per imparare poco o nulla.

L’argomento è troppo vasto per essere sviscerato in un articolo come il presente, e quindi mi fermo dopo aver fatto un’ultima osservazione. I due predetti autori del libro, meritevole per aver scoperchiato una pentola che bolle da anni ma a cui pochi avevano fatto caso, compiono una lucida analisi delle responsabilità, attribuendo soprattutto alla politica scolastica dei vari governi lo spaventoso declino del nostro sistema formativo. Su questo sono d’accordo anch’io, perché se è vero che Berlinguer e gli altri ministri della sinistra hanno contribuito molto alla rovina della scuola, è altrettanto vero che neanche i governi di centro-destra hanno mai fatto nulla per risolvere la situazione; anzi, hanno fatto peggio, a cominciare dall’idiozia delle “tre i” di Berlusconi fino alla pseudoriforma Gelmini che altro non è che un taglio profondo agli investimenti sull’istruzione e sulla scuola, che la mentalità aziendalistica tanto diffusa nel nostro Paese giudica improduttiva (e non è un caso che vari ministri dell’istruzione, a cominciare da Lombardi fino all’attuale Bianchi, siano vicini alla Confindustria). Però resto convinto che l’inizio di tutti i guai sia stato il ’68 e le assurdità sostenute allora e dopo, fino ad oggi, da una serie di pedagogisti incompetenti che non conoscono per nulla la realtà scolastica pratica e continuano a blandire gli studenti e ad ad avanzare proposte demagogiche e di fatto irrealizzabili.

Quello che manca a questo libro, come a tanti altri interventi del medesimo tenore, è l’indicazione dei rimedi. Come può risolversi la deriva attuale che continua anno dopo anno e che sforna studenti sempre più ignoranti e impreparati? Ricolfi e Mastrocola non danno suggerimenti in merito, limitandosi ad affermare che non si può tornare indietro, perché riproporre oggi una scuola come quella degli anni ’60 sarebbe assurdo a loro giudizio. Ma allora cosa possiamo fare? Verrà finalmente un governo ed un ministro che abbiano il coraggio di andare controcorrente e di dare finalmente al Paese un sistema formativo efficace, che tenga alto il livello qualitativo del sapere, privilegi il merito e sia capace di tagliare i rami secchi? Io ho pochissima fiducia nella realizzazione di questo obiettivo, come pochissima ne hanno certamente anche gli autori del libro di cui qui si parla. Se così non fosse, ci avrebbero certamente dato in tal senso indicazioni precise, non si sarebbero limitati ad una critica che essi stessi mostrano di giudicare fine a se stessa.

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Il mondo alla rovescia

Ultimamente scrivo poco sul blog, ma in certi momenti e dopo certi fatti non posso fare a meno di esprimere la mia opinione. E’ vero che esistono i social, ma su Facebook mi censurano e mi sospendono l’account se dico qualcosa contro il “politicamente corretto”, quindi mi vedo costretto a tornare a scrivere qui, dove per fortuna sono proprietario del blog e nessuno può applicare censure sovietiche.

Dico questo perché sono indignato ed esterrefatto per un avvenimento di cui si parla tanto in questi giorni: quello della giornalista Greta non so come, che ha denunciato penalmente una persona che, dopo la partita Empoli-Fiorentina ed all’uscita dallo stadio, le ha dato una pacca sul sedere passando. Il tipo è stato subito identificato dopo una ricerca tipo Digos (come se quel sedere fosse un affare di Stato!) e fatto oggetto di una gogna mediatica indicibile su tv, giornali e social, tanto che il disgraziato, dopo aver subito un Daspo di 3 anni e la suddetta denuncia penale per “violenza sessuale” (sic!), è stato addirittura costretto a rifugiarsi in un luogo segreto e rischia persino di perdere il lavoro, perché il suo ristorante è stato fatto oggetto di una serie di attacchi e di boicottaggi.

Ora, io mi chiedo se in Italia il virus del Covid ha inciso sul cervello delle persone togliendo loro l’intelligenza e il buon senso, perché altra spiegazione non trovo. Se una pacca sul sedere di un decimo di secondo, che non comporta nessun dolore e nessuna conseguenza se non il naturale disappunto di chi si sente toccata senza consenso, debba essere considerato una “violenza” tale da condurre a tutte queste conseguenze, allora cosa si dovrebbe fare a chi commette la vera violenza? In un paese dove i più efferati delitti restano spesso impuniti o poco puniti, in un paese dove chi ruba il denaro pubblico continua ad occupare il proprio posto, in un paese dove i terroristi assassini delle Brigate Rosse sono usciti dopo pochi anni di villeggiatura in carcere e si permettono persino di tenere conferenze all’università ed essere pagati per questo, in un paese così una pacca sul sedere, certamente inopportuna ma non paragonabile neanche lontanamente a ciò che sopra ricordavo, deve portare alla rovina totale della vita di una persona, che oltretutto ha anche una figlia piccola che subirà anch’essa le conseguenze di questa macelleria mediatica? Io non voglio difendere l’autore del gesto, che è certamente importuno e maleducato; ma sappiamo ancora distinguere tra le varie situazioni o facciamo di tutta l’erba un fascio? Una pacca sul sedere può essere parificata allo stupro e al femminicidio?

Sentire le donne che starnazzano in TV contro il “colpevole” augurandogli la galera e la forca per una pacca sul sedere è veramente allucinante e c’è da chiedersi se la ragione umana si sia del tutto annullata lasciando il posto ad un odio stupido e cieco contro il genere maschile, di cui il manolesta di Ancona è diventato capro espiatorio; sì, perché gli attacchi furibondi delle signore in questione non si limitano al gesto infelice del poveraccio, ma si allargano in accuse infamanti contro tutti i maschi, che sarebbero violenti per natura, non rispetterebbero le donne e le considererebbero una loro proprietà privata. A queste genialità da rotocalco non passa per la testa che il 99 per cento degli uomini non si sognerebbe mai di fare violenza ad una donna né di molestarla in alcun modo; no, per loro siamo tutti colpevoli per il solo fatto di appartenere, per nostra somma sfortuna, al sesso sbagliato.

Il femminismo degli anni ’70, per quanto eccessivo e sguaiato, aveva però delle ragioni inconfutabili, visto che in quegli anni esistevano effettive discriminazioni contro le donne e situazioni familiari che in diversi casi erano oggettivamente intollerabili; ma quello di oggi è semplicemente ridicolo, si perde in idiozie come la richiesta di declinare al femminile tutti i sostantivi, sfonda di continuo delle porte aperte ed esprime avversione e odio di genere che non può certo aiutare la civile convivenza familiare e sociale. Esistono certo uomini violenti, ma prima di tutto occorre valutare di che tipo è la violenza, perché quella vera si riduce a pochissimi casi in rapporto al totale delle persone e delle famiglie; e poi la violenza non è solo fisica ma anche psicologica, ed in questa le donne sono molto più abili degli uomini.

L’assurda ed esagerata reazione mediatica determinatasi in seguito alla pacca sul sedere della giornalista, che con ciò ha conquistato una notorietà ed un seguito che altrimenti non avrebbe mai raggiunto, è però parte, secondo me, di una totale perdita dei veri valori e del giusto equilibrio mentale che dovrebbe guidare una società civile. Sono tante le situazioni in cui oggi non si è più capaci di giudicare con moderazione, né di trovare un punto di vista mediano tra difetti opposti: per correggere le storture del passato, in altre parole, siamo passati all’eccesso contrario. Gli esempi di questo stravolgimento mentale che rovina la nostra società sarebbero infiniti, né qui ho tempo e voglia di parlarne e caso mai lo farò in prossimi articoli. Uno di questi è certamente il fatto di cui ho parlato in questo post, che dimostra in modo eclatante come si sia del tutto perduto il senso della misura: in epoche passate un uomo poteva molestare tranquillamente una donna con parole ed atti e nessuno se ne faceva caso, mentre ora si viene denunciati per aver fatto un complimento ad una collega di lavoro. Sono due comportamenti estremi e sbagliati, quello di allora e quello di oggi: evidentemente non siamo più capaci di individuare il giusto mezzo tra due opposti errori, quello che illustri scrittori dell’antichità, da Aristotele ad Orazio, avevano indicato come la vera manifestazione della virtù.

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