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L’uomo nella fodera

Tra i racconti del celebre scrittore russo Anton P.Čechov (1860-1904) ve n’è uno che mi ha profondamente colpito, più degli altri, e che si intitola L’uomo nella fodera. E’ la storia di un insegnante di ginnasio che viveva prigioniero delle sue paure e delle sue ansie, ed era in difficoltà ogni volta che nella sua vita si prospettava un qualche cambiamento, perché viveva come chiuso dentro una fodera che lo schermava dal contatto con l’esterno, una fodera fatta di perbenismo, di conservatorismo, di una moralità arcaica e bacchettona, tanto da scandalizzarsi ogni volta che assisteva a qualcosa di diverso dalla sua mortificante routine quotidiana: soltanto le circolari che contenevano divieti e proibizioni gli andavano a genio, mentre qualsiasi evento che fuoriusciva dal suo pensiero e dalle sue abitudini lo turbava profondamente, nella paura che “succedesse qualcosa”. Un personaggio di questo genere, che viveva sempre chiuso nel suo guscio, aveva di continuo difficoltà a relazionarsi con gli altri, che fossero colleghi di lavoro o altre persone che potesse conoscere; poiché viveva solo, infatti, aveva preso con sé un assistente maschio, poiché vivere con una donna accanto avrebbe dato adito, nella cittadina, a dicerie e malignità, cosa che il nostro Belikov voleva ad ogni costo evitare. E proprio qui stava la maggior difficoltà della sua vita: relazionarsi con il sesso femminile, dal quale si era sempre tenuto a debita distanza, per evitare di dover cambiare le sue abitudini e che gli “succedesse qualcosa”. Nonostante questa sua natura solitaria e – oserei dire – da vero nevrotico, Belikov si vede spinto dai suoi conoscenti (prima tra tutte la moglie del preside della sua scuola) a sposarsi con Varenka, una bella signorina non più giovanissima che era la sorella di un suo collega insegnante giunto dall’Ucraina, Kovalenko. Quello che si tentava di combinare era uno di quegli insulsi matrimoni di cui vi era gran copia in quel tipo di società, dove la “sistemazione” definitiva degli uomini e soprattutto delle donne era considerata inevitabile e “normale” nel senso che tutti, prima o poi, dovessero sottomettervisi, non essendo la vita da “single”, come si dice oggi, rientrante nella categoria della normalità. Tanto fanno e dicono i colleghi di Belikov e le signore del paese che persino lui finisce per convincersi della necessità di sposarsi, ed anche Varenka, temendo di restare zitella accanto ad un fratello con cui non andava d’accordo, è consenziente. Ma un giorno succede l’irreparabile: l’uomo nella fodera, durante una uscita scolastica sul territorio, vede la promessa sposa che va in bicicletta insieme al fratello, e per lui questo è un trauma irreversibile. Dove va a finire la moralità, il buon costume, se una donna va in bicicletta? Per lui questo è uno scandalo imperdonabile, come è altrettanto inaudito che un insegnante (Kovalenko, appunto) vada anche lui in bicicletta.Cosa direbbero gli alunni se lo vedessero? E cosa direbbe il preside? Belikov è sconvolto, tanto da rinunciare al matrimonio e presentarsi il giorno dopo per fare le sue rimostranze a Kovalenko il quale, già maldisposto verso di lui, lo caccia in malo modo. Sempre più sconvolto da quanto ha visto e sempre più incapace di uscire dalla sua fodera ed affrontare la realtà, egli si ritira definitivamente dal mondo, si mette a letto malato e muore di lì a un mese.
Questo splendido racconto mi ha colpito per due diverse ragioni. La prima è che esistono ancora – e sono molti – gli “uomini nella fodera”, nel senso che i pregiudizi, le false convinzioni, le ideologie anacronistiche tengono ancora prigioniere molte persone nella nostra società. La seconda è la singolare coincidenza consistente nel fatto che il personaggio di Čechov, guarda caso, è proprio un insegnante di greco; anzi, lo studio delle lingue antiche, ch’egli trovava armoniche e melodiose, era per lui un rifugio, un ulteriore schermo contro l’invadenza del mondo esterno, dato che, essendo di difficile comprensione per la maggior parte delle persone, esse gli consentivano di restar chiuso nella fodera e rinchiudersi sempre più nella sua misantropia. In tutto questo io trovo un’analogia con quanto avviene ancor oggi ad alcuni di noi cultori delle civiltà classiche (o anche moderne): appassionati profondamente dei nostri studi, abbiamo difficoltà ad affrontare la vita pratica, tanto che a volte ci chiudiamo anche noi in una “fodera” che ci isola dalla società e dai problemi della realtà quotidiana. E’ questo uno dei rischi connessi con la cultura, l’arte e l’eccessivo desiderio di conoscenza che è insito nella natura umana da millenni, ma che in certi casi rischia di condurci ad una contrapposizione con ciò che ci circonda o procurarci difficoltà relazionali comunque pericolose. Tanto per fare l’esempio personale (visto che questo è un blog e quindi riflette la personalità di chi lo tiene) anch’io sono rimasto in parte vittima di questo eccessivo amore per lo studio e la cultura, che mi ha portato in gioventù a frequentare pochi amici e a non essere mai inserito in un gruppo o in una qualsivoglia comunità; mi è perciò capitato di trovarmi in difficoltà nelle relazioni sociali ed in particolare nell’ambiente di lavoro, dove molto spesso, non riuscendo a comportarmi in modo “diplomatico” ma avendo invece il tremendo vizio di manifestare apertamente il mio pensiero, ho avuto colleghi che per anni interi non mi hanno rivolto la parola. E credo che da ciò sia derivato anche un’altra mia caratteristica, quella di non avere alcun “carisma”, di non essere cioè in grado di convincere gli altri della validità del mio pensiero. Non è successo quasi mai, tanto per fare un esempio, che una mia proposta avanzata nelle riunioni collegiali sia stata apprezzata, né tanto meno accettata, dai colleghi; ho anzi avuto l’impressione ch’essi fossero spinti, quasi da una forza misteriosa, a dire e fare sempre il contrario di ciò che io ho proposto e sostenuto. Ma di ciò non posso dare la colpa a nessuno se non a me stesso, perché evidentemente il mio modo di essere ed agire è giudicato asociale e urtante dagli altri, che reagiscono con un atteggiamento di opposizione.
Da tutto ciò ricavo una sola conclusione: l’isolamento, la mancanza di contatti umani, il rinchiudersi in un mondo proprio fatto di studio appassionato ed esclusivo sono comportamenti che non possono che allontanarci dalla realtà e dalla capacità di affrontare e risolvere i veri problemi, quelli che la vita pratica ci pone dinanzi durante la nostra esistenza. Anche la cultura, benché il termine conservi tuttora un valore positivo, può essere una “fodera” che ci isola dall’esterno e ci rende incapaci di vivere in modo “normale”. E a poco giova consolarsi con il dire che anche grandi e geniali artisti avevano grosse difficoltà nella vita pratica: Mozart ad esempio, il più grande genio musicale che mai sia esistito sulla terra, non sapeva compiere le più elementari azioni quotidiane, veniva ingannato da tutti e si riduceva in miseria, nonostante guadagnasse molto, per non saper amministrare il suo denaro. Ma lui almeno era un genio, e con questo titolo è passato alla storia; noi, invece, non abbiamo neanche la soddisfazione di poterci definire tali, perché siamo persone comuni destinate ad essere poco considerate in vita e dimenticate subito dopo.

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