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Terenzio ed il suo modello di educazione

A me non piace molto l’abitudine, diffusa soprattutto nei decenni addietro, di attualizzare a tutti i costi i classici latini e greci, quasi trasformandoli in voci del nostro tempo. Ogni fenomeno culturale va collocato nel tempo in cui fu prodotto e sulla base del pubblico cui allora era destinato; perciò mi facevano sorridere e talvolta anche indignare certe rappresentazioni delle tragedie greche, tanto per fare un solo esempio, interpretate facendo riferimento a eventi e fenomeni moderni. Così il tiranno dell’Antigone di Sofocle, Creonte, diventava il presidente degli Stati Uniti; la guerra di Troia diventava la guerra del Vietnam; il Prometeo di Eschilo diventava il simbolo di quei popoli, come quello cileno, che la dittatura militare aveva privato della libertà ecc. Simili forzature, perché di questo si tratta, venivano allestite quasi sempre da autori o registi di fede marxista, i quali ricercavano nell’antichità classica, in modo tanto insistente quanto sciocco, fantomatiche radici della loro ideologia. Io credo che ogni fenomeno culturale, di qualsiasi genere, vada collocato nel contesto in cui vide la luce, e che le attualizzazioni pure e semplici siano assurde e inefficaci, perché creano prodotti ibridi che perdono in tal modo tutto il loro fascino. Lo stesso può dirsi, a mio parere, anche per l’opera lirica, che certi registi moderni attualizzano a sproposito: qualche anno fa, per citare un caso personale, assistetti ad un allestimento del Rigoletto di Verdi in cui il Duca di Mantova veniva fatto arrivare in scena a bordo di uno scooter (una Vespa 50). Ne rimasi inorridito.
Ferma restando la collocazione di ogni autore e di ogni opera nel tempo in cui fu prodotta, è lecito però a mio parere parlare di continuità culturale, nel senso che un medesimo argomento o contenuto ideale può trovare applicazione in senso diacronico in contesti distanti anche secoli ma uniti da un’affinità di pensiero. Esistono sentimenti, sensazioni e problemi individuali e sociali che, pur nel profondo cambiamento dei contesti storici, rimangono però inalterati nella loro essenza perché riguardano l’uomo e la sua esistenza quotidiana. Uno di questi è senz’altro il problema del rapporto generazionale e dell’educazione dei figli da parte dei genitori, un aspetto della vita umana che interessa le coscienze di oggi come quelle di duemila anni fa, benché ovviamente sia molto cambiata la cornice sociale in cui tale fenomeno viene a collocarsi. Tutte le generazioni, adesso come allora, hanno contestato i loro genitori e sono state poi a loro volta contestate dai loro figli, e sempre si è posto il quesito di come comportarsi nel rapporto educativo. E’ preferibile il metodo fondato sulla severità o quello fondato sull’indulgenza? Oggi prevale il secondo, ed è diventato sempre più difficile per un genitore dire di no al figlio; ma siamo sicuri che questa sia la via migliore?
Per rispondere a questa domanda faccio appello ad un autore che da sempre mi ha affascinato, il commediografo latino Publio Terenzio Afro, oppure, più semplicemente, Terenzio. La sua commedia più significativa per l’argomento che ci interessa è quella che fece rappresentare per ultima nel 160 a.C., gli Adelphoe, cioè “I due fratelli”, sulla quale io scrissi tempo fa un libro destinato alla scuola dal titolo Un modello di educazione, pubblicato nel 2003 dall’editore D’Anna di Firenze. La trama della commedia è un po’ complicata, ma si può riassumere in questi termini. Ci sono due fratelli chiamati Demea e Micione, il primo dei quali ha avuto due figli e ne ha tenuto uno con sé mentre ha affidato il primogenito, Eschino, al fratello, il quale lo tratta come figlio suo. I due ragazzi vengono educati in modo del tutto opposto: Ctesifone, quello rimasto con il padre Demea, viene abituato al lavoro, al senso del dovere, al rispetto assoluto del padre con la massima severità; Eschino invece, che vive con lo zio Micione, conduce una vita del tutto libera e gaudente, organizza banchetti, frequenta donne in quantità, spende e spande tutto ciò che vuole e non ha praticamente alcun dovere. Micione spiega nelle prime scene il motivo di questa sua totale liberalità: egli è convinto che sia meglio tenere a freno i figli contando sul loro senso della dignità e con l’indulgenza anziché con la forza e con le punizioni. “Chi compie il proprio dovere sotto la minaccia di un castigo – egli afferma con sicurezza – sta in guardia fintanto che ritiene che ciò che fa si possa risapere; ma se ha la speranza di restare impunito, torna a fare il proprio comodo.” Se dovessimo giudicare l’operato dei due padri secondo le categorie dell’educazione moderna saremmo propensi senz’altro a dar ragione a Micione; ma lo sviluppo della commedia mostra che non è affatto così, perché nessuno dei due metodi educativi ha funzionato. Fallisce e viene anche derisa l’eccessiva severità di Demea, che crede ingenuamente di aver educato perfettamente il figlio Ctesifone, il quale invece s’invaghisce di una prostituta detenuta in casa di un mercante di schiave e la fa rapire dal fratello per non avere il coraggio di agire personalmente. Allo stesso modo fallisce anche il metodo liberale di Micione, perché Eschino mostra di non avere alcun senso della misura né alcun senso del dovere civico nel momento in cui entra in casa del mercante di schiave (che nella commedia si chiama lenone), picchia il proprietario con i servi e rapisce la ragazza del fratello senza rendersi minimamente conto di aver compiuto un vero e proprio reato. Al termine della commedia, di fronte a questo doppio fallimento, Demea decide improvvisamente di cambiare stile di vita e di assumere la generosità e l’affabilità del fratello, facendo regali a destra e a manca a spese di quest’ultimo, liberando schiavi e costringendo persino Micione, che per tutta la vita si era mantenuto ostinatamente scapolo, a sposare un’anziana signora che altri non è che la madre di una brava ragazza di famiglia di cui è innamorato Eschino. A conti fatti, quindi, emerge che la grande liberalità di Micione altro non era che debolezza: egli, come tanti genitori di oggi, diceva sempre di sì al figlio perché non aveva la forza di imporsi e di dire di no, era un debole che faceva passare per liberalità la sua irresolutezza. Colui che si rivela un vero padre, negli ultimi versi della commedia, è invece proprio Demea, il quale dice al figlio Eschino che è disposto a lasciare a lui ed al fratello tutta la libertà di cui i giovani hanno bisogno; se però essi, per la loro inesperienza, avranno necessità di un consiglio, di un indicazione che serva loro a trovare la giusta strada della vita, ecco che il loro padre sarà sempre lì, pronto a consigliarli e ad assisterli con la sua esperienza e soprattutto con il suo amore.
Tenendo ben presenti le differenze tra la società romana del II° secolo avanti Cristo, quando visse Terenzio, e quella di oggi, credo però che il problema da lui affrontato sia quanto mai attuale, e forse la sua lezione meriterebbe di essere seguita da certi genitori, oltre che conosciuta un po’ meglio di quanto non sia. L’eccessiva severità non porta a nulla se non all’odio, ed è ancor oggi vero quello che dice Micione, cioè che occorre insegnare ai figli i buoni principi di vita con le buone maniere e non con la forza, perché chi è oppresso da divieti e punizioni, una volta che sarà libero farà cose peggiori di chi libero è sempre stato. D’altra parte però è anche vero che i figli non vanno lasciati a se stessi senza la guida morale dei genitori, perché questo li conduce facilmente a frequentare cattive compagnie e ad assumere cattive abitudini, oltre ad una sorta di anarchia mentale che non consente loro di individuare un progetto o uno scopo ben preciso da perseguire. Ancora oggi i giovani, a mio giudizio, hanno bisogno di trovare negli adulti (anche nei professori a scuola, ma prima di tutto nei genitori) dei modelli di riferimento, degli esempi di vita da seguire, senza però che questi esempi vengano imposti con la coercizione, perché il più grave errore che possa fare un genitore è quello di pretendere che i suoi figli facciano nella vita quello che ha fatto lui o che diventino caratterialmente uguali a lui. Il metodo migliore è una via di mezzo tra la severità e l’indulgenza eccessive, molto vicino a quello che Demea illustra alla fine della commedia terenziana. La funzione del genitore, in altre parole, è quella di costituire una guida morale per il figlio o la figlia, che vanno seguiti e indirizzati verso il bene ma non forzati a fare o a pensare alcunché. Forse, se siamo fortunati, potremo vantarci un giorno di non aver fallito del tutto in questo che è il mestiere più difficile che ci sia.

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Se i genitori di oggi seguissero gli esempi antichi…

Noi docenti, com’è noto, ci lamentiamo spesso delll’invadenza dei genitori e del fatto che sono in molti casi diventati gli avvocati difensori dei figli, pronti a scusarli per qualunque mancanza o a giustificare assenze “strategiche” fatte per evitare interrogazioni o altri impegni. Ma la critica nei confronti di come attualmente viene gestito il rapporto generazionale è diventata alquanto diffusa, la si sente in televisione e la si legge sui giornali e sui libri: in pratica, quindi, sono in molti a contestare i metodi educativi odierni, giudicati troppo permissivi ed anche irresponsabili a volte, in quanto i genitori lasciano i figli troppo soli davanti alla TV o in altre occupazioni. In effetti la società odierna è profondamente diversa da quella di mezzo secolo fa, quando erano bambini quelli della mia età: allora c’era molto meno benessere di oggi, non esistevano computer e cellulari, noi avevamo solo i libri per studiare ed il pallone (o poco altro) per giocare un po’. Ma la differnza maggiore era che allora i genitori erano molto rigidi ed autoritari e non rari erano i casi di violenza fisica verso i bambini ed i ragazzi, anche per piccole mancanze. E qui mi sovviene il principio aristotelico del giusto mezzo, che non si riesce quasi mai ad ottenere: prima c’era troppa severità ed i no prevalevano di gran lunga sui sì, alla minima infrazione si rischiavano le mazzate; oggi invece è tutto permesso, i ragazzi hanno “tutto e di più” come si suol dire, nessun genitore nega più le scarpe firmate o lo smartphone – quindi il superfluo, non il necessario – e parimenti nessuno si azzarda più a toccare il figlio con un dito, altrimenti scatta il “Telefono Azzurro” e si rischia perfino di finire in galera.
Allora io dico questo: se veramente il rapporto generazionale è così naufragato oggi perché troppo permissivo, così come era naufragato ai nostri tempi perché troppo severo, come si può individuare un punto di equilibrio che consenta di educare un figlio o una figlia nel migliore dei modi? Fermo restando che la perfezione non esiste e che a caratteri diversi dovrebbero corrispondere trattamenti diversi, si potrebbe però prendere esempio da ciò che ci dicono gli autori antichi, che erano molto più saggi dei pedagogisti e degli psicologi di oggi. Lasciando stare i filosofi, le cui dottrine sono troppo complesse per essere discusse qui, intendo riferirmi al genere letterario della commedia, che nella sua fase più avanzata detta Commedia Nuova in ambiente greco e fabula palliata in quello romano non si pose più soltanto l’obiettivo di divertire gli spettatori e suscitare la loro ilarità, ma anche quello di trasmettere un messaggio culturale che potesse migliorare la vita individuale e familiare di una società che in epoca ellenistica (III-I secolo a.C.) non si interessava più di politica ma rivolgeva la propria attenzione all’ambito della famiglia, vero nucleo formativo dell’intera comunità.
Il maggiore autore greco della Commedia Nuova, Menandro (342-292 a.C.), si occupò diffusamente del problema educativo e del rapporto generazionale in diverse commedie, ma soprattutto nella Samia (“La donna di Samo”). Qui il protagonista, un ricco signore ateniese di nome Demea, ha rinunciato al matrimonio ed ha instaurato una convivenza con una cortigiana, Criside, e per assicurarsi una discendenza ha adottato un trovatello, il giovane Moschione, ch’egli tratta però alla stessa stregua di un figlio naturale. Il rapporto tra padre e figlio è stato sempre improntato a reciproca fiducia ed affetto: il ragazzo rispetta il genitore e ne segue i consigli, ma costui non applica mai la forza e la costrizione nei riguardi del giovane. Anche quando quest’ultimo, offeso per un sospetto che suo padre ha concepito su di lui (che cioè l’abbia tradito con la propria concubina), minaccia di andarsene da casa per fare il soldato mercenario, Demea non lo prega servilmente di restare perché ciò avrebbe annullato la propria dignità, ma neanche lo lascia partire con cinica indifferenza: pronuncia invece un discorso conciliativo in cui ricorda al figlio come il loro rapporto sia sempre stato ottimale, e come non è il caso di rovinare tutto per un malinteso che può essere facilmente sanato. Evita quindi del pari sia la severità eccessiva che l’altrettanto eccessiva arrendevolezza.
Anche in ambito romano un grande poeta della commedia, Terenzio (195-159 a.C.), si è posto il problema educativo in quella che è forse la sua opera più riuscita, gli Adelphoe (“I due fratelli”). Nella trama vi sono appunto due fratelli: il primo, Demea, ha avuto due figli e ne ha dato in adozione uno, Eschino, al fratello Micione, mentre ha tenuto con sé l’altro, Ctesifone. I due ragazzi sono quindi cresciuti in base a due metodi educativi completamente opposti: Ctesifone è stato abituato al lavoro, al dovere e soprattutto è destinato, nel pensiero del padre Demea, a diventare esattamente come lui; Eschino invece, affidato allo zio Micione, ha avuto una vita comoda, gli è stato concesso tutto e passa la sua esistenza tra bagordi e divertimenti vari. Lo svolgersi della commedia, e soprattutto il contestato finale, mostra inequivocabilmente come entrambi questi metodi estremi siano sbagliati: chi è abituato all’eccessiva severità del padre finisce per ingannarlo e agire alle sue spalle, chi invece è abituato ad avere tutto è portato a credere che tutto gli sia permesso e che nessuna legge valga per lui, ed infatti Eschino entra in casa altrui, rapisce a forza una ragazza di cui si era invaghito il fratello e non si rende neanche conto di aver commesso un reato, e piuttosto grave anche. Ma dopo le schermaglie tra i due fratelli, dove ciascuno sostiene il proprio metodo, ciò che risulta alla fine è che entrambi hanno sbagliato, chi per eccesso e chi per difetto. Nell’ultima scena è infatti Demea, che ha capito sia i propri errori che quelli del fratello Micione, a mostrare il volto del vero padre, quando dice ai figli: “Fate pure ciò che volete, io non ve lo impedirò; ma se volete un consiglio, un aiuto in ciò che voi, per la vostra inesperienza, ancora non conoscete o non valutate bene, eccomi qui pronto a darvi il mio supporto.”
E’ evidente che nella società moderna i genitori sono diventati quasi tutti Micioni, anche se c’è ancora qualche Demea sempre più isolato. Ma la via del giusto mezzo è sempre la migliore, a mio giudizio, proprio quella che indica Menandro quando parla del dovere del figlio di ascoltare i consigli del padre ma senza che quest’ultimo imponga con la forza la sua volontà; ed è anche quella che indica Terenzio quando parla del genitore come attento consigliere dei figli, un padre o una madre che debbono diventare un punto di riferimento morale per i giovani ancora inesperti dei casi della vita. Possiamo quindi affermare che la saggezza degli antichi, espressa attraverso opere letterarie immortali, è ancora utile oggi ed in qualche caso addirittura essenziale. Una ragione in più per non dimenticare il nostro passato e per sostenere un principio a cui io ho sempre creduto, quello cioè secondo cui un popolo che non conosce il proprio passato non ha nemmeno un futuro, perché un albero che non prende nutrimento dalle sue radici non potrà mai elevarsi verso il cielo.

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Alunni ed ex alunni

Ho ricevuto una mail da un collega che, parlando dei suoi alunni, si rammarica del fatto che talvolta, quando lo incontrano per strada, non lo salutano e fanno finta di non vederlo; e ciò accade anche con gli ex alunni, molti dei quali non si sono fatti più vivi dai tempi della frequenza scolastica. Per consolare il collega, dico che un tale comportamento è comune e frequente, succede spesso anche a me; ma della cosa non ho mai fatto un dramma, anche perché sono convinto che l’apparente indifferenza dei ragazzi per il loro prof non significa necessariamente risentimento, disprezzo o mancanza di stima. In molti casi è il carattere timido, riservato di molte persone a farle agire così, non la maleducazione o la malevolenza: il professore, in effetti, non è l’amico del ragazzo col quale egli trova naturale fraternizzare, è sempre una persona verso cui esiste un certo riserbo, una relazione magari cordiale ma pur sempre distaccata. Ed e’ questo il motivo principale per cui molti ragazzi che abbiamo o che abbiamo avuto a scuola ci salutano a malapena, ci sfuggono, magari attraversano la strada per non salutarci. Ma non per questo dobbiamo pensare male: del resto, non è forse vero che anche noi abbiamo reticenza o malavoglia ad incontrare o salutare certe persone?
Benché io non sia uno di quei docenti che danno confidenza agli alunni, che ci scherzano o li accompagnano in pizzeria, sono pienamente soddisfatto del mio rapporto con loro. E ciò che me lo fa pensare sono le manifestazioni di riconoscenza, di stima e di affetto che loro stessi ed i loro genitori mi dimostrano in vari modi, direttamente e indirettamente. Parlando con il Dirigente della mia scuola, tanto per dirne solo una, ho saputo che nessun genitore o studente si è mai lamentato di me, del mio comportamento in classe o del mio metodo valutativo; eppure non ho alcun timore ad assegnare anche voti molto bassi, quando è necessario, perché i ragazzi debbono comprendere che nella vita nulla viene regalato e che le difficoltà aiutano a crescere. E tuttavia non voglio essere presuntuoso al punto tale da pensare che tutti siano contenti totalmente di me. C’è sicuramente anche chi ha qualcosa da recriminare, si sa, non si può essere universalmente graditi; ma quando si raccolgono attestati di stima da più parti, anche dalle e-mail che ricevo continuamente dai miei ex studenti, si può almeno presumere che la propria linea comportamentale ed il proprio metodo educativo non siano poi così sbagliati. E poi, nonostante la mia ben nota severità, mi piace confessare anche un’altra cosa: che io voglio bene ai miei alunni, tutti senza eccezione, anche se non lo dimostro platealmente come fanno altri colleghi. E sono sicuro che loro, questo, lo sanno bene, perché sono molto più intelligenti e sensibili di quanto comunemente si creda.

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