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Le donne al Parlamento

Il momento attuale di campagna elettorale, quando tutti (o quasi) i partiti fanno a gara per accaparrarsi i voti dei cittadini, concede una particolare attenzione all’elettorato femminile, facendo a gara per inserire nelle liste quante più donne possibile, quasi che questa fosse la soluzione principe dei problemi del nostro Paese. Il Partito Democratico, in tale ottica, ha stabilito addirittura una quota precisa (il 40 per cento) per le rappresentanti del gentil sesso da eleggere nel nuovo Parlamento.

Questo curioso atteggiamento intellettuale mi ha fatto venire in mente una celebre opera del commediografo greco Aristofane (ca. 445-380 a.C.), le Ecclesiazuse (“Le donne al Parlamento”), rappresentata ad Atene nel 392 a.C.   Quivi il poeta, deluso da tanti anni di guerra e di sfacelo politico e sociale delle istituzioni della sua città, immagina che il potere esecutivo, evidentemente mal gestito dagli uomini, venga conquistato dalle donne con un colpo di Stato. Ottenuto così il potere completo le signore ateniesi, guidate da Prassagora moglie di Blepiro, sconvolgono completamente gli ordinamenti precedenti introducendo una sorta di comunismo dei beni e delle donne stesse: ciascun cittadino perciò, ricco o povero, dovrà mettere in comune i propri beni e dedicarsi all’amore libero, senza più regolari matrimoni. Ne deriva una serie di conseguenze grottesche, tipiche della commedia farsesca propria di Aristofane: da un lato i ricchi sono reticenti a mettere in comune i propri averi, dall’altro si verifica una promiscuità sessuale senza precedenti tanto che un povero giovane, che aspirava ad amoreggiare con una ragazza sua coetanea, deve prima soddisfare tre vecchie tanto orrende quanto vogliose, in quanto così stabiliscono le nuove leggi. La commedia è una satira feroce, senza attenuanti: il governo delle donne non si rivela infatti migliore di quello degli uomini, conduce anzi ad un disastro morale ed umano, oltre che politico e sociale. Ovviamente tutto ciò resta sul piano dell’utopia, perché nel pensiero antico non era in alcun modo concepibile la partecipazione delle donne alla conduzione dello Stato, e su quello della risata crassa tipica del genere comico; che poi dietro al riso si nasconda l’angoscia e il disorientamento di chi ha visto la decadenza dei propri ideali, è ovvio. Del resto, tutti i grandi comici hanno adombrato dietro il riso una realtà spesso fortemente tragica.

Per tornare all’epoca nostrana, a me pare che questo interesse per le donne in politica, questa ostinazione a volerle a tutti i costi nella gestione della cosa pubblica, abbia origine da un presupposto errato e sia pertanto, anche se pare il contrario, discriminatoria nei loro confronti. Fissare un giorno di festa dedicato alle donne (l’8 marzo), o anche determinare delle “quote rosa” nelle amministrazioni pubbliche centrali e locali, significa trattare gli esseri umani di sesso femminile come “diversi”, come una particolare categoria differente, e spesso opposta, a quella maschile. Che le donne debbano entrare in Parlamento, come in ogni altro organismo, è giusto e inappuntabile; ma debbono arrivarci per meriti oggettivi, per capacità dimostrate, e non per una “quota” loro riservata, perché decidere a priori che un certo numero di posti è riservato alle donne è come trattarle da inferiori, è paragonabile alla riserva dei posti sugli autobus per gli invalidi o per gli anziani, categorie in certo qual modo protette perché particolari, diverse e disagiate rispetto ai comuni cittadini. L’elezione a tutte le cariche pubbliche e private dovrebbe avvenire sulla base dei meriti individuali, il solo criterio che a mio giudizio dovrebbe valere in ogni campo; che poi questi meriti ce l’abbia un uomo o una donna, è indifferente. Potrebbe pure accadere che in Parlamento entrassero l’80 per cento di donne anziché il 40 come ha deciso il signor Bersani, se i loro meriti fossero di tali proporzioni. Perché limitarle al 40, o al 20, o al 60 o a qualsiasi altra percentuale? Così facendo le si rinchiude in un ghetto, a mio giudizio, in una condizione di “diversità” che non deve esserci in uno stato moderno e civile. Io, se fossi una donna, non sarei affatto felice di questo trattamento, che mi parrebbe una sorta di discriminazione.

E questo ragionamento vale anche per l’età pensionabile, per la quale mi pare assurdo e inaccettabile che le donne siano autorizzate a lasciare il lavoro prima degli uomini. Prima di tutto, non si è invocata a ogni pié sospinto la parità dei sessi e la cosiddetta “pari opportunità”? Se uomini e donne hanno gli stessi diritti sociali, come è sacrosanto, allora non v’è ragione per cui le donne debbano andare in pensione prima. Anzi, se teniamo conto dei dati demografici del nostro Paese, dovrebbe avvenire il contrario, perché risulta che le donne vivono in media 6 anni più degli uomini; quindi dovebbero essere questi ultimi, semmai, a lasciare il lavoro prima, a rigor di logica. A me l’attuale legge pare un’ingiustizia vera e propria ai danni del sesso maschile; ma ormai di disparità nel nostro tempo ce ne sono così tante che, una più o una meno, non ci facciamo più caso.

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